domenica 23 dicembre 2018

Top 10 album 2018

Ok, ammetto che rispetto all'anno scorso questo è stato un anno decisamente meno "pieno" di uscite che hanno destato il mio interesse, ed è quindi stato difficile trovarne ben 10. Per raggiungere questo numero ho infatti dovuto fare uno strappo alla regola ed includere cofanetti, riedizioni e via dicendo, quindi anche materiale di 50 anni fa, ed il che la dice lunga. Ovviamente si tratta di gusti miei personali, e sono sicuro che in tantissimi abbiano trovato decine di album del 2018 che adorano, ma per me non è così. Detto questo, c'è da dire che comunque varie uscite interessanti ci sono state, quindi non perdiamo altro tempo e cominciamo dalla numero 10!

10 - Jean Michel Jarre - Equinoxe Infinity 


Ok, ammetto di aver avuto aspettative piuttosto alte nei confronti di questo album, causate soprattutto dall'ottimo Oxygene 3 di un paio di anni fa. Il risultato è comunque buono ed in linea con altri lavori di Jarre, quello che mi lascia perplesso però è la quasi totale assenza di richiami stilistici al primo Equinoxe (paradossalmente una Robots Don't Cry sembra uscire da Oxygene) e la faciloneria di pezzi come Infinity, al livello delle cose che passano oggi per radio. Per fortuna, una volta superati questi due ostacoli, ci si trova di fronte ad un altro degno capitolo della lunga carriera di Jarre.

9 - Steven Wilson - Home Invasion: In Concert At The Royal Albert Hall


Non un'uscita imprescindibile, ma a mio parere ora come ora si tratta del miglior live di Steven Wilson da solista. Non ho mai amato Get All You Deserve, e trovo che la scaletta funzioni molto meglio in questo Home Invasion, riuscendo ad essere coinvolgente dall'inizio alla fine, nonostante le ben due ore e mezza di durata. Se ci aggiungiamo un'ottima band dietro ed una regia azzeccatissima, si può capire la sua presenza in questa top 10. Ne ho parlato qui.

8 - Procol Harum - Still There'll Be More


Un interessante cofanetto celebrativo che, se non fosse per i ben tre CD su cinque relegati al ruolo di meri "best of", rasenterebbe la perfezione. Il resto infatti sono due CD live, uno con orchestra del 1973 ed uno del 1976, e ben tre DVD con bei filmati d'epoca. Certo, se il contenuto fosse stato solo live, magari portando il prezzo a livelli più "popolari", forse sarebbe anche salito in classifica, ma non si può aver tutto... Per maggiori dettagli, vi rimando alla mia recensione.

7 - King Crimson - Meltdown


Si, un altro live dei King Crimson, wow la novità. Scherzi a parte, ne ho parlato nel dettaglio qui, ma riassumendo credo che si tratti della miglior rappresentazione live di questa formazione. La sezione audio è ottimamente mixata ed ha una scaletta molto estesa, mentre la sezione video è decisamente più curata e godibile del precedente Radical Action. Se doveste scegliere un solo album live di questa formazione io consiglierei questo, senza dubbio.

6 - Paul McCartney - Egypt Station


Un album di cui ho parlato piuttosto bene qui, nonostante ci siano brani che mi hanno lasciato un po' perplesso. Tutto sommato si tratta di un ottimo album, soprattutto tenendo conto dell'età di Sir Paul; ma il motivo per cui non raggiunge la top 5 è l'aver notato come il mio interesse nei confronti dell'album sia scemato nel tempo. Insomma, riconosco la sua validità, ma è come venuta a mancarmi la voglia di tornarci abitualmente, e qualcosa vorrà pur dire. Certo, destino comune con praticamente ogni suo album successivo a Chaos And Creation In The Backyard, però...

5 - The Who - Live At The Fillmore East 1968


Da anni si trattava un po' del Santo Graal per i fan degli Who, e nonostante i primi due brani in scaletta continuino a rimanere inediti a causa di problemi di registrazione, la restante ora e mezza è un trionfo della loro tipica anarchia live. Mancano certe finezze negli arrangiamenti che si noteranno all'entrata di Tommy in scaletta, spostando l'equilibrio verso l'improvvisazione più pura e free, ben rappresentata dai quasi 10 minuti di Relax ed i ben 33 di My Generation. Essenziale per i fan degli Who. Ne ho parlato qui.

4 - Uriah Heep - Living The Dream


Questo album devo ammettere che mi ha sorpreso. Inutile negare che i loro migliori lavori risalgano agli anni '70, con una formazione quasi interamente diversa, e che gli Uriah Heep di Living The Dream siano proprio un'altra cosa. Se a questo aggiungiamo l'alto grado di dimenticabilità dei loro ultimi lavori, si può ben capire quale può esser stato il mio approccio a questo album (vista anche la qualità media delle uscite sotto Frontiers). Invece sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla qualità dei brani, dall'energia, e da quanto certi episodi riescano ad essere memorabili come poche altre loro cose degli ultimi 40 anni. Un ottimo album di puro e semplice hard rock, come ce ne dovrebbero essere di più oggi. Ne ho parlato qui.

3 - The Beatles - White Album Deluxe


Dopo il riuscito esperimento dello scorso anno con il remix di Sgt. Pepper ad opera di Giles Martin, tutti aspettavano di vedere cosa sarebbe successo al White Album. E a mio parere Giles non ha deluso, regalandoci una nuova versione di questo leggendario album che ci permette di cogliere tanti particolari e dettagli nuovi. Se a questo aggiungiamo gli interessanti Esher Demos e la gran quantità di tracce in studio su altri ben tre CD, siamo di fronte ad un'uscita che se non arriva alla perfezione poco ci manca. Ovviamente l'album originale rimane insostituibile, ma ora abbiamo un'ottima alternativa. Qui ho parlato della versione a 3 CD.

2 - The Beach Boys - Wake The World: The Friends Sessions - I Can Hear Music: The 20/20 Sessions


Ne ho parlato recentemente qui. Si tratta semplicemente di due raccolte di outtake, versioni alternative, a cappella, strumentali, e chi più ne ha più ne metta risalenti al 1968. Un periodo piuttosto particolare ed oscuro nella carriera dei Beach Boys, tra il lento distacco di Brian Wilson dopo il fallimento dei suo Smile, il controverso coinvolgimento di Charles Manson (di cui prevedibilmente non ci sono tracce in questo set) e la tendenza alla sperimentazione che pian piano sparirà dalla loro musica. Quasi tre ore di ascolto che ben completano ed ampliano le Pet Sounds e Smile Sessions e i set dello scorso anno dedicati al 1967, Sunshine Tomorrow. Consigliatissimo a chi voglia approfondire la conoscenza di questa sottovalutatissima band.

1 - Mikayel Abazyan - Something More


Senza dubbio l'album che più ho apprezzato quest'anno. Con il suo mix in bilico tra lo stile di Peter Hammill e virate pop alla Beatles con tanto altro nel mezzo, si tratta di un album di difficile catalogazione, e a mio parere è proprio questo il suo bello. Ottimi brani, interessanti arrangiamenti, gran bei testi, ne ho parlato nel dettaglio qui. Si merita ampiamente il primo posto in questa classifica.



giovedì 20 dicembre 2018

Led Zeppelin - Live On Blueberry Hill (1970) Recensione

Il mondo dei bootleg dei Led Zeppelin è forse trai più vasti esistenti. L'ho notato nel momento in cui mi sono dedicato alla ricerca di analoghe registrazioni di altre band ed ho visto quanto più difficile sia trovarne. Sarà per la loro indole votata all'improvvisazione, sarà per il loro status di rock band per eccellenza oltre che simbolo di una certa corrente degli anni '70, ma fin da subito per loro il mercato dei bootleg è fiorito come in pochi altri casi, e tutt'ora continua ad esser vivo, con nuove uscite ogni anno. Oggi gran parte della loro carriera live è ben rappresentata con registrazioni anche di ottima qualità, ma ciò non basta a far dimenticare i grandi classici. Questo Live On Blueberry Hill è forse in testa ad un'ipotetica classifica, insieme ad altre perle come Destroyer e Listen To This Eddie, entrambi questi ultimi con concerti del 1977. Blueberry Hill contiene una registrazione del concerto del 4 Settembre 1970 al Los Angeles Forum, nel bel mezzo del loro sesto tour americano in meno di due anni dalla fondazione. Il 1970 è ufficialmente rappresentato dal filmato alla Royal Albert Hall del 9 Gennaio 1970, ma una volta arrivati a Settembre ci si trova di fronte ad un concerto ben diverso.
Infatti nonostante Led Zeppelin III sarebbe uscito solo un mese dopo, la scaletta dei concerti aveva già subito notevoli variazioni.

La prima cosa che si può notare è l'esclusione di pezzi importanti del primo periodo, entrambi rappresentativi di quella fase puramente blues che pian piano andava attenuandosi: I Can't Quit You Baby e How Many More Times. Il pezzo che forse meglio di ogni altro porta avanti la loro idea di blues è proprio Since I've Been Loving You, aggiunta in scaletta già qualche mese prima. Se confrontata con un altro bootleg, quello di Montreux risalente a Marzo, si nota come l'arrangiamento live abbia già fatto passi da gigante, e a mio modesto parere raggiungendo qui un apice difficilmente eguagliabile, specialmente grazie all'incredibile performance di un Robert Plant al picco delle sue capacità.
Già dall'apertura del concerto con la nuovissima Immigrant Song si nota quanta fede ripongano nel nuovo materiale ancora ufficialmente inedito; e se la versione migliore di questo brano è forse quella del 1972 su How The West Was Won, qui è comunque incredibilmente potente. Si continua poi con le presenze fisse di Heartbreaker e Dazed And Confused, quest'ultima ancora relativamente contenuta rispetto a versioni successive. Stupisce Bring It On Home come quarto pezzo, visto il suo ruolo di bis in molteplici occasioni. La versione qui presente, nel suo tipico arrangiamento esteso con l'improvvisazione botta e risposta centrale, è incredibilmente coinvolgente, complice anche la sensazione di essere fisicamente tra il pubblico data dalla registrazione. Un'altra novità importante è l'introduzione del set acustico, qui ancora relativamente breve comprendendo solamente That's The Way e Bron-Yr-Aur. Ovviamente questa sezione verrà ampliata negli anni, ma è interessante notare che se la prima è un altro brano allora inedito dall'imminente LZ III, la seconda, da non confondere con la quasi omonima Bron-Yr-Aur-Stomp, anch'essa da quell'album, non la vedremo fino a Physical Graffiti 5 anni dopo! Segue la già citata ed impressionante Since I've Been Loving You con Page e Plant in particolare in formissima, per poi arrivare alla fascinosa Thank You, introdotta da un assolo di organo ad opera di John Paul Jones. Ed è interessante notare, ascoltando vari bootleg, come lo stile dell'assolo di Jones cambi totalmente a seconda se in quella serata abbia a disposizione un Hammond o un organo combo tipo Farfisa, come in questo caso. Se nel primo caso tocca territori più classicheggianti e gospel, nel secondo pare invece "perdersi" in esibizioni più rumoristiche e psichedeliche, in totale contrasto con il brano che poi segue. Interessante senza dubbio, ma poche cose raggiungono la bellezza pura delle versioni di inizio '73 con il Mellotron al posto dell'organo. Seguono le ottime What Is And What Should Never Be e di Moby Dick, dove Bonham regala la sua consueta esibizione di tecnica muscolare, per fortuna senza raggiungere i 30 o 40 minuti come qualche anno dopo. A questo punto inizia la sezione del concerto senza dubbio più interessante. Whole Lotta Love acquisisce in questo periodo il ruolo di punto di partenza per infiniti medley di cover, laddove precedentemente il ruolo era coperto da How Many More Times. Indubbiamente l'apice in questo senso si raggiungerà nel tour giapponese del 1971 o nelle date estive del 1972, ma già qui troviamo Boogie Chillen, Movin On, Red House, Some Other Guy, Think It Over, Honey Bee e The Lemon Song. Un godibilissima parentesi che ci mostra i Led Zeppelin che semplicemente si divertono e fanno divertire. Il bello qui è che una volta finita Whole Lotta Love sembrano non averne ancora abbastanza. Nella successiva Communication Breakdown infatti fa capolino un altro medley, che prima di una gran bella versione di For What It's Worth e una breve citazione a I Saw Her Standing There, sfodera a sorpresa la loro Good Times Bad Times! Questo brano non fu quasi mai suonato dal vivo per intero, e qui possiamo ascoltarne una rispettosa versione quasi integrale (saltano l'assolo e l'ultimo ritornello passando direttamente alla conclusione, che dà spazio ad un raro assolo di basso di Jones), seppur palesemente improvvisata.
Le rarità continuano con l'intera Out On The Tiles, altro brano dall'imminente LZ III, suonato dal vivo pochissime volte. Il riff verrà poi ripreso più e più volte negli anni successivi, dapprima per introdurre Black Dog, e poi nel 1977 come introduzione all'assolo di batteria al posto del riff di Moby Dick, suonato poi alla fine. Incredibile tra l'altro sentire come questo brano renda bene pur essendo in sostanza una novità che verrà poi scartata dalle scalette da lì a poco.
Siamo arrivati alla fine, e quale modo migliore per chiudere se non con un'altra cover? Altra grande sorpresa più unica che rara, una bellissima versione di Blueberry Hill dei Fats Domino, ed ecco che si spiega il titolo del bootleg. Questa cover a mio parere non avrebbe affatto sfigurato in un album ufficiale, tanto è ottima la resa. Una perfetta conclusione di un concerto incredibilmente solido e potente.

Esistono molteplici fonti audio di questo concerto, pare addirittura 6 o 7, ed è piuttosto difficile dire con certezza quale sia la migliore. Ovviamente sono tutte registrazioni effettuate dal pubblico, quindi che non ci si aspetti una qualità paragonabile agli album ufficiali! Il consiglio che do a chiunque sia interessato è di indagare un po' e di trovare loro stessi la versione che più si avvicina alle loro preferenze. Esistono anche "compilation" che combinano le diverse fonti, così come una raccolta di ben 9 CD con le varie molteplici versioni. Insomma, ognuno può cercarsi o crearsi la "sua" versione.
Come accennato precedentemente, di bootleg dei Led Zeppelin ne continuano ad uscire tutt'oggi, ed ormai si parla in termini di centinaia, con molte autentiche perle sparse; ma questo Live On Blueberry Hill, nonostante una qualità audio altalenante, rimarrà una delle migliori rappresentazioni live di questa leggendaria band.

martedì 18 dicembre 2018

The Beach Boys - Wake The World: The Friends Sessions - I Can Hear Music: The 20/20 Sesssions (2018) Recensione

Tecnicamente si tratta di due prodotti distinti, ma essendo usciti lo stesso giorno credo che abbia senso racchiuderli in un'unica recensione. Da qualche anno ormai infatti, principalmente per questioni di copyright, verso fine anno escono vari album celebrativi per il cinquantennale dedicati ai Beach Boys. Gli ultimi due anni ci hanno portato alcune delle cose più interessanti dopo le Pet Sounds e Smile sessions, focalizzandosi sul 1967 e, quest'anno, sul 1968. Se lo scorso anno ci fu anche una pubblicazione estiva nominata Sunshine Tomorrow, che oltre alle outtakes e le tracce live aveva come attrazione il tanto atteso mix stereo di Wild Honey, per poi tornare alla consueta uscita di fine anno con un secondo volume di outtakes ed un terzo live; quest'anno è stato tutto pubblicato in blocco a fine anno, solamente in streaming e download.
Avendo di fatto registrato due album nel 1968, si è scelto di dividere in due sostanziosi set il materiale riguardante Friends e 20/20, che insieme ammontano a quasi tre ore di tracce inedite. Prima di scendere nel dettaglio è doveroso citare l'uscita di un terzo volume, intitolato The Beach Boys On Tour: 1968, che raccoglie vari concerti di quell'anno. Ho deciso di non parlarne qui perchè, seppur interessante, è il classico album che si ascolta una volta e difficilmente ci si torna su, non essendo i Beach Boys riconosciuti come una grande live band. Merita comunque un po' di attenzione per il gran lavoro fatto e l'importanza storica, lo trovate su Spotify.
Tornando agli altri due album, al loro interno possiamo trovare una quantità impressionante di versioni strumentali, a cappella, demo, versioni molto diverse nell'arrangiamento di brani noti e brani inediti, anche se spesso incompleti. Si tratta senza dubbio di un ascolto molto affascinante, in quanto testimonia una fase della carriera dei Beach Boys piuttosto oscura, in cui il controllo e la presenza di Brian Wilson inizia gradualmente a sfumare (già passare dalla sessions di Friends a quelle di 20/20 ci mostra una situazione molto diversa) ed i compagni, specialmente Dennis Wilson, cercano di trovare la loro identità. Curiosa tra l'altro la presenza di Murry Wilson in varie session di Friends, specialmente alla luce del traballante rapporto con il figlio Brian. Impossibile parlare di ogni singolo brano presente, ma è comunque doveroso citare alcuni esempi degni di nota.
Innanzitutto, partendo dal primo volume, è interessante poter ascoltare la complessità di molte outtake di Friends, così come le versioni strumentali di alcuni brani dell'album, in quanto si può notare come l'uso di musicisti aggiunti fa sì che il risultato sia più vicino a Pet Sounds o a Smile, più che a Wild Honey e Smiley Smile. Impossibile poi non citare brani inediti come My Little Red Book, gli appena accennati I'm Confessin' e You're As Good As Can Be, l'interessantissima Be Here In The Morning Darling (da non confondere con Be Here In The Morning). Ci si chiede come mai queste idee siano state abbandonate e mai ripescate, vista la tendenza a depredare i nastri di Smile negli album successivi. Passando a 20/20 invece troviamo tante versioni di Do It Again e All I Want To Do, quest'ultima anche con varie take vocali di Dennis Wilson, che danno un'interessante svolta ad uno dei migliori brani cantati da Mike Love. In questo secondo volume la sezione dedicata agli inediti, o comunque ai cosiddetti scarti, è decisamente più sostanziosa: Sail Plane Song, Old Folks At Home/Old Man River, Walk On By, Mona Kana... Tutti brani di alto livello. Troviamo poi forse la versione più "completa" (per quanto completa possa essere una sequenza di frammenti incompleti) della leggendaria Been Way Too Long, conosciuta anche come Can't Wait Too Long, un brano la cui storia pare misteriosa quanto quella dell'intero Smile. Ovviamente ci sono anche alcuni brani ad opera di Dennis Wilson, che proprio in quel periodo si stava affermando come compositore (quando non si accreditava brani di Charles Manson facendolo arrabbiare, cosa poco consigliabile), e brani come Well You Know I Knew, Love Affair, Peaches (che poi è Never Learn Not To Love, appunto di Manson), l'avanguardia di The Gong e A Time To Live In Dreams ben rappresentano un'identità ben chiara che maturerà nel decennio successivo.
Insomma un ascolto fascinoso e pieno di chicche interessantissime, che non posso che consigliare a chiunque. Impossibile scegliere tra i due, anche se forse per quantità e varietà di materiale il volume dedicato a 20/20 è veramente di altissimo livello. Li trovate entrambi su Spotify: qui e qui.

domenica 16 dicembre 2018

Led Zeppelin - Physical Graffiti (1975) Recensione

L'obbligatorio doppio album che prima o poi 9 band su 10 decidono di sfornare. Spesso si tratta di concept album, altre volte semplicemente frutto di session particolarmente produttive, oppure può essere un semplice calderone con brani di varia provenienza. Ecco, questo Physical Graffiti appartiene all'ultima categoria, in quanto circa metà di esso è composto da brani allora effettivamente nuovi, e l'altra da scarti di album precedenti. Ovviamente la divisione non è netta, il tutto è mischiato più o meno bene nei due dischi, ma rimane piuttosto ovvio quali siano i brani nuovi e quali quelli vecchi. Vuoi per la differenza in termini di audio, mix e produzione, vuoi per la voce di Robert Plant che mostra i primi evidentissimi segni di cedimento... Sì, perchè dopo l'ottimo Houses Of The Holy (anche prima a dire il vero), la voce di Plant si trasformò da una sirena assordante ad un ranocchio effeminato, causando quindi concerti spesso imprevedibili nei vari tour dal 1973 in poi (nonostante una notevole ripresa nel 1977). Una volta ultimato il tour americano si dice che Plant subì un'operazione alle corde vocali per la rimozione di noduli, causati dall'ovvio eccessivo sforzo e mancanza di tecnica canora. La prima regola in questi casi, con o senza operazione, è riposare. E quindi giustamente i Led Zeppelin si buttarono subito in studio a registrare i nuovi brani, che proprio per questo motivo vantano delle parti vocali decisamente meno potenti, rauche, sottili, fragili, tipiche di una voce tutt'altro che in salute. Facile quindi notare la differenza nei momenti in cui affiora il brano vecchio di turno, con un Plant decisamente più in forma. Questo non aiuta a creare un senso di unità all'album, che risulta piuttosto dispersivo senza paradossalmente raggiungere la varietà del precedente Houses Of The Holy. C'è però da dire che se ci si sofferma sull'ascolto e si tralasciano tutti questi particolari, è chiaro che Physical Graffiti è potenzialmente uno dei migliori lavori di casa Zeppelin. Indubbiamente soffre della classica "sindrome da album doppio", lasciando il forte sospetto che se si fosse trattato di un album singolo avrebbe forse potuto essere ancora migliore. E la cosa curiosa è che se davvero mi dovessi dedicare ad una selezione atta a creare un singolo album, un buon 90%, se non la totalità dei brani, sarebbero quelli delle session del 1974. Non che quelli più vecchi siano brutti, ma in molti dei brani "nuovi" si nota una notevole maturità, specialmente a livello compositivo e di arrangiamenti.

Anche un blues come In My Time Of Dying, che da una parte guarda indietro alle loro origini, riesce a guadagnarsi il trono di loro miglior ri-arrangiamento blues a mio parere. 11 minuti con un indiavolato Page alla slide, stacchi possenti e cavalcate infinite, con un Plant che vocalmente trasuda sofferenza pura. E che dire di Trampled Underfoot? Non distante da D'yer Mak'er o The Crunge nella sua natura di esperimento in territori un po' più distanti dal loro solito, in questo caso un ibrido tra funk e disco ante-litteram, riesce ad elevarsi al di sopra di essi e a confermarsi come un ottimo brano anche in sede live. Poco da dire poi su Kashmir, ormai conosciuta anche dalle pietre grazie agli orribili campionamenti in anni recenti, che con il suo inarrestabile e pesante ritmo ed i suoi toni orientali è uno degli apici assoluti della carriera dei Led Zeppelin, che portano qui a compimento idee che già affioravano in LZ III con Friends. In The Light invece è un brano che avrebbe meritato ben più fortuna; in quanto la sua natura complessa, l'introduzione di nuovo orientale con un bordone di synth e chitarra suonata con l'archetto, i bei riff delle strofe ed il finale particolarmente positivo e solare sono una perfetta rappresentazione della maturità compositiva raggiunta, che purtroppo avrà ben pochi seguiti negli anni successivi. Maturità che raggiunge un altro apice non indifferente in Ten Years Gone, brano più malinconico e sommesso ma carico di fascino. Ovviamente tra i brani "nuovi" ci sono anche esempi più semplici e canonici del loro tipico sound: come Custard Pie, Sick Again e la "nuova Immigrant Song" che è The Wanton Song, ma diciamo che ben funzionano per alleggerire un po' i toni. Tra i ripescaggi invece si può notare una qualità un po' più altalenante: tra gran bei brani come The Rover, la più pop Down By The Seaside ed il fascinoso quadretto acustico Bron-Yr-Aur, ci sono brani più "innocui" come il rock leggero di Houses Of The Holy (la parte migliore è il riff) e le parentesi comunque divertenti e scanzonate di Boogie With Stu e Black Country Woman. Curiosa tra l'altro la presenza del brano Houses Of The Holy qui e non nell'album omonimo. La sua esclusione credo che sia stata giustificata dalla somiglianza con Dancing Days, oltre che dall'usanza di non avere mai brani con lo stesso titolo dell'album di cui fanno parte immagino.

Insomma, era proprio necessario ripescare dei pezzi vecchi quando grandissima parte dei migliori sono senza dubbio quelli nuovi? Bella domanda. Ma è anche vero che in quegli anni l'album doppio era quasi d'obbligo per tutti, anche quando non era necessario. Negli anni si è un po' persa questa tendenza, anche se più che altro la si è mascherata riempiendo i CD invece che usare due vinili, e realizzando quindi di nuovo album fin troppo lunghi "perchè si può", specialmente negli anni '90. Ma tornando a Physical Graffiti, c'è chi ha tracciato un parallelo con il White Album dei Beatles, indicando come punti in comune il formato, la maturità della band, la varietà dei generi affrontati... Graffiti però manca di quella coesione e quell'atmosfera indescrivibile che rende il White Album un capolavoro nonostante i suoi difetti, che non sono poi così diversi da quelli di Graffiti.
Certamente non si tratta del miglior album de Led Zeppelin, ma senza dubbio è l'ultimo "quasi capolavoro" della loro carriera. Ironico pensare che fu il loro primo album con l'etichetta Swan Song.
Come voto si merita un 8.

venerdì 14 dicembre 2018

King Crimson - Meltdown (Live In Mexico) (2018) Recensione

Era proprio necessario un altro album live dell'attuale formazione dei King Crimson? Sì e no direi, tutto dipende dai punti di vista. Chi dice di no probabilmente non percepisce nella band attuale un'evoluzione tale da giustificare una media di due pubblicazioni all'anno, oppure magari pensa che il tour Americano del 2017 sia già abbastanza coperto dal Live In Chicago. E se sicuramente l'evoluzione di questa band, perfettamente in linea con la tendenza generale dei tempi recenti, è decisamente più lenta di quanto tendeva ad essere nelle formazioni precedenti (mettiamoci anche per fattori di età), è anche vero che in praticamente ogni altro caso di analoga età anagrafica neanche si può parlare di evoluzione ormai. Non nascondo di aver avuto e di avere tutt'ora qualche riserva nei confronti di questa formazione, sia per la loro scelta di rispolverare il passato per la prima volta, sia per la peculiare e già ampiamente discussa formazione comprendente tre batteristi. Certo è che, sarà il ritorno di Bill Rieflin come ottavo membro fisso alle tastiere, sarà un generale affinamento degli arrangiamenti, ma già nel live a Chicago ho notato una resa decisamente più a fuoco e apprezzabile. Ma in che senso "a fuoco"? Semplicemente credo che l'aggiunta di un tastierista "fisso" (insieme a Jeremy Stacey, che in varie occasioni passa anch'esso da batteria a tastiere, portando a due il numero di tastieristi, quando non è anche lo stesso Fripp a passare al Mellotron) sposti un po' l'equilibrio verso melodia ed armonia, riuscendo finalmente a contrastare l'ovvia predominanza percussiva, che ora sembra meglio "incastrata" rispetto a prima. Se a questo aggiungiamo la costante aggiunta di brani in scaletta, alcuni azzeccati e altri magari un po' discutibili, si può capire come l'interesse possa permanere.
Ma detto questo, rimane il dubbio sull'effettivo senso di questa release, avendo già il live a Chicago di appena qualche mese prima. E se da una parte io stesso non fatico ad immaginarmi all'ascolto di Chicago più che questo Meltdown in futuro, ci sono due punti che giustificano questa uscita.
Innanzitutto questa tendenza alla sovrabbondanza di uscite live non può essere mal vista dai fan, in quanto se io stesso non sono magari così tanto assiduo "follower" del Re Cremisi, lo sono per altre band, e non immaginate quanto vorrei vedere anche altri usare un analogo approccio alle uscite live, che invece escono con il contagocce. SE escono.
L'altro aspetto importante è che Chicago si trattava di una sorta di bootleg ufficializzato, mentre questo Meltdown raccoglie la parte audio di una serie di concerti (quindi per forza di cose con una scaletta più ampia), e offre una parte video di uno di questi concerti. Una sorta di "ufficializzazione" di quel tour insomma, oltre che seguito ideale di Radical Action... Ma se Radical voleva sembrare un album in studio, con singoli CD "tematici" e senza applausi, Meltdown non nasconde la sua natura live.
Togliamo subito di mezzo la componente video che, nonostante le ovvie riprese statiche, la mancanza di effetti di luce ed, in generale, scenici, l'ho trovata decisamente più godibile di Radical Action. Sarà la scaletta (che, guarda caso, non comprende brani nuovi), saranno i nuovi arrangiamenti, sarà soprattutto l'aver abbandonato quelle orribili riprese sovrapposte preferendo dividere lo schermo quando necessario, ma si tratta senza dubbio della migliore rappresentazione visiva di questa band finora. Si nota divertimento sul palco, sguardi, smorfie, anche da parte dello spesso impassibile Fripp. E se da un lato continuo ad avere fortissimi dubbi sulla Indiscipline di questa formazione (il cantato in particolare), è indubbio che il resto del concerto scorra in modo estremamente fluido e godibile.
La parte audio invece è molto più sostanziosa raccogliendo, come detto, materiale da molteplici date. Si trovano insomma praticamente tutti i brani suonati in quel tour, con la peculiare aggiunta di una manciata di pezzi dal tour europeo di quest'anno in chiusura (le ottime Breathless di Fripp solista, Moonchild e Discipline, oltre ad altre improvvisazioni). Poco da dire sul mix, che nonostante l'ovvia difficoltà data dalla presenza di 8 musicisti di cui 3 batteristi, riesce a mantenersi in un giusto equilibrio tra potenza e chiarezza, facendo notevoli passi avanti rispetto alle prime uscite di qualche anno fa (ma anche il recente Vienna 2016, che sinceramente non mi ha entusiasmato).
Ovviamente l'esecuzione risulta impeccabile, ma permangono, almeno per me, alcune perplessità su certi arrangiamenti. Ci sono brani in cui la devastante potenza della formazione a 8 dà il meglio, regalando loro una potenza veramente incredibile. Parlo di brani come 21st Century Schizoid Man, Easy Money, le varie Larks, Last Skirmish da Lizard; senza però rinunciare a tocchi più fini e delicati in The Letters, Peace e Moonchild ad esempio. Dove invece il tutto pare zoppicare un po' di più è in brani in cui la potenza è tale solo se unita ad una tensione che solamente formazioni più snelle saprebbero dare. Penso sia il caso della pur ottima Fracture, di The Talking Drum, della penultima sezione di Starless (ancora non sopporto quello che sembra essere un brusco rallentamento dopo il crescendo). Notevoli invece le new entry Fallen Angel e Islands, piuttosto fedeli alle originali. I brani dell'era Belew, come la già citata Indiscipline ed una strumentale Neurotica (oltre a The Construkction Of Light, ma quest'ultima è in scaletta da anni ormai) funzionano piuttosto bene, e l'unico punto debole continua ad essere il cantato in Indiscipline, che nonostante mostri un interessante tocco personale di Jakko, non mi entusiasma molto.
Insomma ogni uscita live di questi King Crimson sembra essere la definitiva, riuscendo a migliorare sotto vari aspetti rispetto alla precedente, e questo Meltdown non fa eccezione. Ovviamente chi non apprezza questa formazione difficilmente si ricrederà con questo album, ma è anche vero che io l'ho in parte fatto con Chicago, quindi chissà...
Consigliatissimo ai fan, non certo essenziale per gli altri. Un 8,5 come voto.


lunedì 10 dicembre 2018

Peter Hammill - X/Ten (2018) Recensione

Un'uscita particolare questo X/Ten di Peter Hammill, in quanto si tratta sostanzialmente di una versione live del suo ultimo album, From The Trees. Idealmente ciò chiude un cerchio iniziato con l'EP disponibile un paio di anni fa solamente in Giappone dal titolo V, contenente 5 di questi nuovi brani suonati dal vivo prima ancora di registrarli in studio. Ovviamente in X si nota un approccio diverso da V che, seppur non immune alle consuete imprecisioni e vulnerabilità tipiche di Hammill in sede live, è frutto questa volta di un riarrangiamento basato sulle versioni dell'album e non un qualcosa di più spontaneo e primordiale come era in V. 
I vari brani sono stati registrati nell'arco di poco meno di un anno, tra la fine del 2017 nelle date italiane ed il 2018 in varie altre date europee. Si tratta forse della prima volta in cui Hammill propone un suo intero album dal vivo (ovviamente suonandone solo una manciata di brani a sera, intervallati da altri di epoche diverse), e questo forse spiega la decisione di pubblicare questo disco.
Inutile negare che se non vi è piaciuto From The Trees, X/Ten difficilmente susciterà reazioni diverse in voi. I brani erano già volutamente molto scheletrici nell'album, abbelliti solamente da qualche sovraincisione strumentale e un gran lavoro ai cori: tutti elementi che per forza di cose spariscono dal vivo. Ciò che ne guadagna è quel senso di nuda e sincera umanità che caratterizza i suoi concerti da solista, con però qualche guizzo vocale frutto dell'impulsività e dell'ispirazione del momento: un elemento questo per forza di cose un po' smorzato negli album, dove la ricerca di una pulizia e (quasi) perfezione è anche comprensibile. 
La sensazione è di ascoltare una valida alternativa al lavoro in studio, nonostante le inconsistenze sonore che danno quel senso di "bootleg ufficializzato" che magari farà storcere il naso ad alcuni, rendendo felici altri (come me). Certo però che in alcuni casi una punta di equalizzazione e un'aggiustatina ai volumi non avrebbe guastato (come in On Deaf Ears da Napoli, che ok che in una chiesa la resa sonora è diversa, ma una tale differenza in un album può lasciare perplessi). E gli errori beh, gli errori ci sono, ma chi ancora se la prende per questo genere di cose probabilmente non conosce molto bene Hammill. Così come la voce che mostra ovvi segni dell'età, pur permettendogli, a mio parere, di superare a tratti le performance in studio, sempre per quell'istintività di cui parlavo poco fa. Tutti elementi questi che chi continua a seguire Hammill dovrebbe conoscere bene, e proprio ai fan più assidui è indirizzato questo X/Ten. Poi ho visto anche gente chiedersi l'utilità di questa uscita, ma mi sfugge come si possa usare il termine "utilità" in musica, in generale. 
Personalmente ho apprezzato più o meno tutte le performance, con alcuni casi che superano le corrispettive versioni in studio (Milked) e altre che ahimè si avvicinano soltanto (The Descent), ma mi piace l'idea di avere un diverso punto di vista su questi brani.
Ovviamente permane la speranza di ascoltare altre registrazioni di un tour decisamente migliore di quello da cui fu tratto il boxset PNO GTR VOX qualche anno fa, sia come scalette che come performance. Nel frattempo, questo è un discreto lavoro dedicato strettamente a coloro che hanno amato From The Trees. Avendolo visto in concerto proprio in questo tour è difficile dare un voto totalmente distaccato (nonostante non ci siano tracce da Milano, data in cui ero presente grrr), ma credo che si meriti un 7.
Per chi vuole ascoltarlo, lo trova su Spotify.

sabato 8 dicembre 2018

The Beach Boys - Friends (1968) Recensione

Un album molto particolare, forse il più lontano da quell'approccio radiofonico che spesso, non totalmente a ragione, si abbina all'immagine dei Beach Boys. Spesso definito anche "l'album della meditazione trascendentale" alla luce del loro interesse per gli insegnamenti del Maharishi (un po' come i Beatles), che li portò anche ad organizzare un tour con lui stesso a predicare i suoi insegnamenti in apertura. Inutile dire che il tour venne annullato dopo 5 date. L'album però, pur essendo ispirato da un argomento tutto sommato in voga nel periodo, sembra essere totalmente fuori da ogni tendenza musicale contemporanea. La psichedelia è assente, così come le sonorità più dure che stavano emergendo in quel violento '68, e il tutto ha una pacatezza difficilmente descrivibile a parole. Non si tratta dell'approccio sonnolento di Smiley Smile, quanto piuttosto di pura, semplice e a tratti infantile positività.
Contrariamente a quanto comunemente si crede, Brian Wilson è ancora molto coinvolto, sia nelle composizioni che negli arrangiamenti, seppure la produzione sia accreditata all'intera band (come da Smiley Smile in poi dopotutto). Nonostante tutto è infatti evidente come gradualmente il resto della band stia iniziando a guadagnare spazio, dando quindi all'album più un senso di lavoro di gruppo rispetto alla precedente egemonia di Brian. Persiste l'approccio lo-fi dei due lavori precedenti, ma a differenza di essi in Friends ritornano i musicisti aggiunti che gli danno una varietà e profondità maggiori. Tutti e 12 i brani sono molto brevi, spesso sotto i 2 minuti e raramente oltre i 3, portando l'album ad appena 25 minuti di lunghezza, e forse questo è il suo difetto più grande (se pensiamo che da lì a pochi anni ci saranno band che faranno singoli brani di quella lunghezza, si capisce quanto sia aumentata nel tempo la tendenza a diluire le idee).
Ovviamente sono lontani gli altissimi livelli dei testi di Van Dyke Parks che appena un anno prima elevavano le già ottime musiche di Smile, ma questo non l'ho mai visto come un difetto in Friends. Certo, dedicare un brano a quanto è bella la meditazione trascendentale o al "discorso" da padre a figlio su come nascono i bambini (When A Man Needs A Woman) non sarà il massimo, ma contribuisce a quel senso di "stranezza" che aleggia nei lavori dei Beach Boys di quest'epoca.
L'overture distesa e serena di Meant For You ben chiarisce l'atmosfera che troveremo nel resto dell'album, e prima ancora che ce ne si accorga, semplicemente, sfuma e finisce, ad appena 38 secondi. C'è da dire che almeno "the cool one" Mike Love qui e nella manciata di album che seguiranno raggiunge l'apice come cantante, riuscendo a risultare non solo sopportabile, ma anche un ottimo interprete! La title track poi, con Carl Wilson alla voce, è un valzer fuori dal tempo, semplicemente sublime. Il tutto continua su simili binari, con brani strambi arrangiati in modo sublime (quasi un Pet Sounds lo-fi) tra cui la bella Passing By, quasi una risposta Beachboysiana alla dimenticata Flying dei "rivali" Beatles. Degno di nota è l'esordio di Dennis Wilson come compositore, un preludio a ciò che sarà nel decennio successivo e raggiungerà l'apice in Pacific Ocean Blue. Be Still ben fa intendere la sua direzione futura essendo una ballata dai toni estremamente lenti ed enfatici, Little Bird invece è un gioiellino pieno di cambi e trovate strumentali da applausi. E se Busy Doin' Nothin' rappresenta forse meglio di ogni altra cosa la filosofia di vita di Brian di lì a poco, e la conclusiva Transcendental Meditation chiude l'album in modo quantomeno bizzarro; Diamond Head si tratta invece di un altro piccolo diamante strumentale con un che di hawaiano la cui complessità non avrebbe sfigurato in album ben più celebrati.
Insomma Friends è un album molto particolare ma consigliatissimo a chiunque, fan o no. Per approfondirne la conoscenza (e magari ascoltare altro vista la sua brevità) consiglio anche Wake The World: The Friends Sessions, disponibile solo in streaming e download. Esso ci regala un'ora abbondante di outtake che ci permettono di capire meglio ciò che sta dietro a questo strano album.
Già dal successivo 20/20 Brian Wilson è sostanzialmente assente e tornerà sporadicamente in lavori successivi come gli ottimi Sunflower e Surf's Up; la sua assenza è spesso sopperita da ripescaggi da parte dei compagni di suoi brani dall'abortito Smile. Alla luce di questo quindi si può considerare Friends come l'ultimo vero esempio della creatività di Brian, ben amalgamata a quella dei compagni. Un album fuori dal tempo e da ogni corrente. Merita un 8.

martedì 4 dicembre 2018

Queen - Bohemian Rhapsody (Film - 2018) Recensione

Ci sono un po' di premesse da fare prima di iniziare. Innanzitutto, anche se l'ho già scritto tante volte, io sono fan dei Queen praticamente da quando sono nato, esattamente 6 giorni dopo il concerto tributo a Freddie Mercury. Devo a loro la mia formazione musicale, forse a più di ogni altro che è arrivato dopo. Sono il tipo di fan che si è letto decine di libri, ha visto ogni documentario, ha ogni album ufficiale e non, ha una discreta conoscenza dei bootleg e via dicendo. Insomma questo film l'ho approcciato da fan; un fan con ben poche conoscenze in ambito cinematografico, aspetto questo che di conseguenza non sarò certo in grado di approfondire quanto hanno fatto altri.
In ultimo, per forza di cose parlerò anche di varie parti della trama, di alcune scene, quindi se non avete ancora visto il film e non volete spoiler, meglio che non continuiate a leggere.

Dunque, io già dai trailer ero molto dubbioso. Parecchio a dire il vero. Già si notavano varie scene inventate, una certa impronta caricaturale di alcuni dei personaggi, ed in generale era ovvia l'intenzione di far girare tutto intorno a Freddie e non ai Queen, tanto per capitalizzare ancora un po' sulla sua immagine (cosa che già è capitata con ogni album dal vivo recente dove in copertina c'è solo lui e non l'intera band: tipo Rock Montreal, Budapest, Rainbow, Hammersmith, ma vabbeh). Da fan però non potevo non vederlo il film, sperando di cambiare l'idea che il trailer mi aveva creato. Purtroppo ho potuto vederlo in italiano, perdendo quindi una importante fetta che riguarda la recitazione. E dico purtroppo anche perchè i momenti "cringe" sono vari ("c'è spazio per una sola queen isterica nel gruppo": ma seriamente fate?), facendo perdere senso a troppe frasi e battute. Ma questo è parte del gioco e riguarda ogni film doppiato, diciamo però che in questo caso sarebbe stato molto meglio trasmetterlo in lingua originale sottotitolato, a mio parere.
Che dire dei personaggi? Ci sono alti e bassi indubbiamente. Ho trovato piuttosto centrate le rappresentazioni di Brian May e John Deacon, discreta quella di Taylor, e piuttosto altalenante quella di Freddie. Ovviamente è fuori da ogni dubbio il fatto che Rami Malek sia un ottimo attore, e alcune scene lo dimostrano anche in questo film; ma vedere un Freddie con una costante espressione da pesce bollito che sembra quasi sempre ammiccare, due occhioni da cucciolo bastonato e dei denti davvero troppo esagerati (dai, capisco la necessità, ma non riesce neanche a chiudere la bocca!) diciamo che mi ha lasciato un po' così. Poi certo, chiunque dice che è impossibile essere più vicini all'originale, quindi facciamo finta che mi fidi di questa affermazione e che il caro Malek non mi ricordi le decine di cantanti da tribute band che senza baffi finti e giacca gialla proprio non riescono a cantare (non che poi con quelli ci riescano eh). Invidio che dice che Malek in questo film sia uguale a a Mercury, mi piacerebbe avere i loro occhi in prestito. Sulla fedeltà degli altri personaggi non si può dire molto, essendo abbastanza "fuori" dalla lente di ingrandimento pubblica. Diciamo che è stato fatto un buon lavoro su questo aspetto.
Il film in generale scorre abbastanza bene, con una buona alternanza tra musica e film vero e proprio, anche se il ritmo risulta un po' discontinuo. Sulla fedeltà delle scene live c'è effettivamente poco da dire, e a voler fare proprio il rompiballe avrei voluto un Malek più convinto a livello facciale (decisamente esagerato il movimento della bocca, senza però trasmettere l'idea di un minimo sforzo per emettere le note), ma per il resto chapeau. Menzione particolare per l'ottimo lavoro di Marc Martel alla voce in alcune scene, virtualmente quasi indistinguibile da Freddie. E no, non è Malek a cantare, nonostante alcuni recensori lo dicano.
Quello di cui molti si lamentano è il poco realismo della storia, a cui di solito si risponde "eh ma mica è un documentario, se vuoi le cose realistiche guardati quello". Che è un po' come dire "se non ti piace la mia recensione vai a leggertene un'altra", ma ormai sei qui, quindi... No, non è un documentario e non lo deve essere, però c'è da fare un importante distinguo: un conto è esagerare gli eventi, drammatizzarli, e un conto è inventarli o renderli totalmente irrealistici e poco credibili. Questo secondo caso è ciò che succede più volte in Bohemian Rhapsody. Si può sorvolare sulla scelta di condensare e riassumere certi eventi (tipo la fondazione della band), perchè si tratta di una scelte comprensibili dettate dalla durata del film, così come su ALCUNI spostamenti temporali di questo o quell'evento, se necessari alla storia (l'incontro con Mary Austin, Top Of The Pops, la diagnosi dell'AIDS...). Ci sono però molteplici momenti in cui non potevo che chiedermi "perchè"?
Rock In Rio. Esistono molteplici testimonianze a riguardo, fra cui un frammento tratto da Radio Gaga nel video di One Vision, in cui si vede chiaramente Freddie con i baffi e la panzetta da post bagordi festivi (era il Gennaio 1985) e loro cosa fanno? Lo mettono nel 1976. Freddie con i capelli lunghi, senza baffi che, insieme a Brian alla chitarra, canta Love Of My Life rievocando il rituale in cui il pubblico la canta a sua volta. Ed il tutto a far da sottofondo alla scena in cui Freddie comunica a Mary la sua bisessualità. Una scelta totalmente inutile ed insensata oltre che storicamente impossibile. La scena poteva avere lo stesso Love Of My Life in sottofondo, magari lui che le fa ascoltare il demo a cui sta lavorando, o se ambientata successivamente bastava averla in sottofondo da un qualunque concerto, non era necessario il Rock In Rio a mio parere. Oltre al fatto che nel 1976 un festival con più di 200000 persone in un paese sudamericano era pura fantascienza. Fantascienza non necessaria alla trama.
Poi già nel trailer la scena dedicata alla creazione di We Will Rock You mi aveva lasciato perplesso alla scelta di ambientarla negli anni '80, ma magari, mi dicevo, avrà un senso nella trama. E no, la sua unica utilità è quella di introdurre una bella sequenza live al Madison Square Garden del 1980. Sequenza che avrebbe potuto avere qualunque canzone, magari proprio la Another One Bites The Dust che appare poco dopo. Altra scelta che non mi spiego. Avrebbero ad esempio potuto aprire una parentesi sull'iconico periodo di Live Killers con una scena di natura analoga, indubbiamente più vicino temporalmente alla nascita di We Will Rock You, anche come immagine della band... Poi Fat Bottomed Girl nel tour americano del 1974: con tutti i pezzi di quegli anni che ci sono vanno a prenderne uno del 1978. Seriamente, perchè?
L'apoteosi poi si raggiunge con la scelta di far sciogliere la band, presumibilmente intorno al 1983, anno in cui ci fu effettivamente un periodo sabbatico, non uno scioglimento. Ovviamente, per cercare il facile "drama" la colpa viene data alla scelta di Mercury di intraprendere una carriera solista, firmando un contratto per 2 album. E ok Mr. Bad Guy, ma mi piacerebbe sapere quale sarebbe il secondo. Ma a parte questo, non mi va tanto giù la scelta di dare la colpa a Mercury per una cosa che non è mai accaduta, specialmente se consideriamo poi che sia Taylor che May pubblicarono lavori solisti prima di lui. Il fatto che entrambi siano coinvolti nella produzione del film e che l'unico personaggio con una qualche accezione negativa nel film è Freddie e MAI loro, mi puzza un po'. E prima che qualcuno mi dica che più che di Mercury la colpa è di Paul Prenter, vi faccio notare che la facilità con cui viene manipolato Freddie in questo film non lo rappresenta comunque nel migliore nei modi a mio parere, rappresentandolo meno "forte" di quanto era in realtà.
Ovviamente tutto va a posto in vista del Live Aid, che si rivela essere il culmine e gran finale del film in cui (salvo l'annuncio dalla malattia di Freddie che rende il concerto ancora più importante ed emozionante) tutti sembrano essere felici ed il film si conclude in modo, tutto sommato, positivo. Ma, dico io, se si voleva creare il "drama", non sarebbe stato meglio raccontare fatti veri ed enfatizzarli un po'? Ad esempio, invece dell'insensato scioglimento, perchè non spostare il momento drammatico su Sun City? Concerti controversi, con l'opinione pubblica contro, Freddie che ha perso la voce e hanno dovuto annullare varie serate. Lo stesso Live Aid, secondo molti, era un tentativo di ripulirsi l'immagine. Devo credere che Brian e Roger vogliano cancellare l'evento controverso non raccontandolo alla miriade di fan non certo "hardcore" che vedranno in film. preferendo inventarne uno nuovo e dando la colpa al povero Freddie che tanto non può più dire la sua? "Freddie avrebbe voluto così" dice Brian May rivolto ad ogni singola cosa recente a nome Queen, compresi i tour con Adam Lambert. Facciamo finta che mi fidi, anche se non è così.

Insomma, si tratta di una sorta di immaginario viaggio Disneyano in un mondo Queen che oscilla senza continuità tra fedeltà maniacale ed eventi inventati di sana pianta, finendo per accontentare i fan occasionali dalla lacrimuccia facile. Rimane un ottimo film, che sa intrattenere, ma che per esser goduto appieno è necessario non essere pignoli come il sottoscritto. Perché comunque ci sono buone scene più che godibili, come la registrazione di Bohemian Rhapsody e il Live Aid.
Ora spero che i carissimi Brian e Roger non passino il resto della vita in tour con il tizio dei talent e si decidano a tirare fuori qualcosa dagli archivi, perchè è quello che tanti fan vorrebbero da decenni.
Per chi invece volesse capire qual è la mia idea di biopic ben riuscita, consiglio Love & Mercy su Brian Wilson, dove gli eventi vengono sì esagerati ma mai inventati, e si ovvia al tempo limitato dalla durata del film focalizzandosi su due fasi ben precise della sua vita, usando due attori diversi. Ecco, se in quel caso la non totale somiglianza degli attori a Brian Wilson non mi ha affatto disturbato, un motivo ci sarà.

Ma il tizio della EMI, tale Ray Foster, perchè somiglia in modo impressionante a Jeff Lynne?




 

domenica 2 dicembre 2018

Dixie Dregs - What If (1978) Recensione

Premetto che, dopo una fase di forte interesse per musica più complessa a livello tecnico, all'incirca nella tarda adolescenza, ho pian piano virato verso territori più pop, psichedelici e via dicendo. Non rinnego la mia passione per certe classiche band di progressive, anzi, ma non sento il bisogno di indagare oltre in quella direzione. A questo c'è da aggiungere la mia repulsione per tutto ciò che "sfora" troppo in territori jazz e/o fusion, con la felice eccezione di Lizard dei King Crimson e poco altro. C'è però un'eccezione, e questa eccezione si chiamano Dixie Dregs. Il nome non mi è nuovo, conoscendo piuttosto bene il chitarrista Steve Morse grazie alla sua permanenza ormai più che ventennale nei Deep Purple, oltre alla sua presenza in due buoni album dei Kansas, ma ammetto di non aver mai approfondito. Questo fino alla scorsa settimana, quando per qualche motivo questo What If ha attirato la mia attenzione in un negozio di musica. Ma perchè questi Dixie Dregs, definiti jazz fusion da Wikipedia, dovrebbero interessarmi, vista la premessa? Bella domanda a cui probabilmente non saprei rispondere del tutto, visto che spesso chi si reputa in grado di giustificare e definire al 100% i propri gusti molto probabilmente ci riesce perchè se li auto-impone, alla luce di un'immagine di sé stesso che vuole proiettare a lui e agli altri (tipo i prog snob). Quello che posso dire è che qui la musica è indubbiamente intricata, complessa, interamente strumentale, ma dannatamente godibile e divertente da ascoltare.
Definirli jazz fusion è veramente troppo riduttivo, pur essendo comunque presente quell'elemento nell'approccio. In realtà i generi presenti in questo album sono molteplici: dai toni più rock di Take It Off The Top, al quasi-prog di Odyssey, al funk di Ice Cakes (notevole per dei cambi di tempo mozzafiato), al country di Gina Lola Breakdown...
Ogni brano qui ha una identità ben chiara e si distingue dagli altri, donando all'album una natura particolarmente varia. Quasi tutti i brani sono opera di Morse, ma ogni musicista qui brilla letteralmente, con largo spazio anche a tastiere e violino (ma farei meglio a dire archi, visto che Allen Sloan si occupa anche di viola, violoncello...) sia con assoli che con parti d'insieme spesso di una complessità notevole ma MAI pesanti all'ascolto. Ecco forse il punto sta proprio qui: i Dixie Dregs si divertono, e si sente. Non c'è la freddezza tipica del jazz e della fusion, non ci sono brani la cui unica funzione è fare da base per un lungo assolo. In vari passaggi sembra quasi sentirsi un gusto melodico non lontano dai Kansas, ovviamente senza alcuna parte vocale, che immagino essere frutto di ispirazioni comuni essendo entrambe le band americane. Un brano come la conclusiva Night Meets Light è degno di essere insegnato ad aspiranti musicisti (ed infatti a quanto pare in America già si fa), in quanto la sua complessità armonica ed il suo andamento caratterizzato da molteplici parti sincopate e "sfasate" fra loro paradossalmente non risulta affatto ostico all'ascolto, ma anzi è di una bellezza pura e limpida. Poi la quasi barocca Little Kids e la title track spezzano i ritmi serrati del resto dell'album, e la coinvolgente Gina Lola Breakdown fa addirittura venir voglia di ballare, cosa inimmaginabile e quasi indicibile in altri album sia prog che fusion. Per i proggettari più incalliti ci sono Odyssey e Travel Tunes, con una quantità incredibile di cambi ed idee condensati in 7 minuti e mezzo della prima e 4 e mezzo della seconda. Insomma un album che, nonostante la sua natura strumentale che lo può rendere ostico, si rivela essere un ascolto molto interessante e godibile al di là dei gusti strettamente legati a questo o a quel genere. Peccato solo per la copertina, che non rappresenta affatto il multiforme contenuto del disco.
Consigliatissimo a chiunque. Come voto si merita un generoso 9.