sabato 27 ottobre 2018

King Crimson - Absent Lovers - Live In Montreal 1984 (1998) Recensione

Quando in un negozio ti trovi davanti tre album live dal nome The Night Watch, Absent Lovers e VROOOM VROOOM, e non sei in possesso di nessuno dei tre, la questione si fa ardua. Voi magari direte "beh, non costano poi molto, potresti comprarli tutti e tre", e da una parte avreste anche ragione visto che il totale sarebbe ammontato a circa 38 Euro, comunque meno dei vertiginosi 42 del recente Meltdown; ma siccome sono un povero disperato ho dovuto prendere una decisione, e quella decisione mi ha portato dritto negli anni '80.
Conoscevo sommariamente il contenuto di questo come di molti altri live dei King Crimson, ma come sempre è solo quando sono in possesso della copia fisica di un album che mi dedico veramente all'ascolto. E questo ascolto, che tra l'altro ha accompagnato un mio lungo viaggio ferroviario attraverso il "bel" Paese, mi ha portato alla conclusione che Absent Lovers sia la miglior rappresentazione dei King Crimson anni '80. Ovviamente non lo dico con l'intenzione di screditare gli ottimi tre lavori in studio di quegli anni, ma si tratta di una considerazione alla luce di una scaletta non certo completa ma ben rappresentativa, e di performance indubbiamente più cariche, imprevedibili e godibili delle corrispettive negli album.
Troviamo infatti praticamente tutto Discipline a parte The Sheltering Sky (mancanza terribile per molti fan, ma sopportabilissima per un blasfemo come il sottoscritto), sei brani su nove dall'allora recente Three Of A Perfect Pair e purtroppo solamente due da Beat. Ecco, se proprio dovessi evidenziare quella che secondo me è una grande mancanza, direi senza dubbio Neurotica, la cui presenza avrebbe migliorato ulteriormente una già ottima scaletta. In tutto questo troviamo anche due ottime versioni delle vecchie Red e Larks' Tongues in Aspic II, senza dubbio tra le migliori versioni live di sempre. Certo, può esser strano ascoltare questi brani con suoni tipicamente anni '80, ma ci si fa presto l'abitudine. La presenza di due chitarre e la creatività di un Bruford in formissima (nonostante suonasse controvoglia sulle da lui tanto odiate click track, su insistenza di Fripp) dà una notevole spinta ad entrambi i brani, che risultano più veloci, taglienti e snelli. Insomma l'esatto contrario delle performance dell'attuale formazione.
Il concerto inizia con Entry Of The Crims, che altro non è se non un'improvvisazione in cui i singoli membri della band si uniscono man mano, creando una oscura cacofonia dagli intrecci complessi, fino all'arrivo di Bruford, che con un paio di autorevoli rullate riporta tutti all'ordine, dando il via alle spigolose scale Frippiane che introducono Larks' Tongues In Aspic III. Un'ottima performance di un pezzo forse non riuscito quanto le altre sezioni, ma indubbiamente meglio della versione in studio, che si collega senza pausa ad una frenetica Thela Hun Ginjeet. Inizio da concerto da standing ovation. Poi la già citata Red, una gran bella versione di Matte Kudasai, e via all'improvvisazione pura di Industry, che con la successiva Dig Me ci fa letteralmente dimenticare le versioni nell'ostico secondo lato di Three Of A Perfect Pair. Segue la title track dell'allora ultimo loro album, ma ci pensa poi Indiscipline a spazzare via tutto e tutti. Pur amando le versioni anni '90 di questo brano, e sforzandomi inutilmente di apprezzare quelle degli ultimi due anni, rimango convinto che questa sia la miglior versione live in assoluto di questo brano. A partire dall'introduzione di un Bruford sempre impeccabile per arrivare all'interpretazione particolarmente riuscita di Belew. Il tutto continua su ottimi livelli con Sartori In Tangier, Frame By Frame, Man With An Open Heart (questa MOLTO meglio che nell'album), Waiting Man, e poi Sleepless. Brano indubbiamente controverso nella sua natura danzereccia, questa Sleepless mostra come i King Crimson sapessero prendere un brano piuttosto "sterile" e freddo per natura e spingerlo al limite. Anche qui, difficile tornare alla versione in studio dopo aver sentito questa. Poi Larks' II, un'ottima versione di Discipline, la discreta Heartbeat ed una carichissima Elephant Talk a chiudere. Non ho speso parole su Tony Levin e Robert Fripp perchè in realtà c'è poco da dire: sono impeccabili. E soprattutto Levin ci si rende conto di quanto sia a suo agio in questa formazione, decisamente più che in quella attuale (ma neanche è colpa sua, vorrei vedere un bassista qualunque a suonare con tre batteristi...).

Insomma a mio parere Absent Lovers si tratta di uno dei migliori live dei King Crimson, e senza dubbio il migliore degli anni '80: la scaletta è molto equilibrata tra canzoni e brani strumentali\improvvisazioni e tutti sono in gran forma. Questo si rivelerà poi essere l'ultimo concerto dei King Crimson prima della formazione "double trio" di Thrak, le cui interpretazioni del materiale anni '80 risulteranno ovviamente più "pesanti" e meno "plasticose" in un certo senso, ma non per questo necessariamente superiori. Ad eccezione forse di Frame By Frame: la frenetica versione di VROOOM VROOOM è difficilmente superabile.
Insomma, sia che non conosciate nulla dei Crimson anni '80 e cercate un punto di partenza, sia che conosciate gli album e ne volete di più, Absent Lovers è irrinunciabile. Come voto si merita un 9.

sabato 20 ottobre 2018

The Who - Sell Out (1967) Recensione

Quando ancora la parola "pop" non era usata in modo denigratorio da pseudo-intellettuali snob ignoranti, stava ad indicare forse la più alta espressione artistica dei tempi, la più "avanti", la più innovativa. Ed ogni volta che il termine pop art affiora non fa che tornarmi in mente quel magnifico album che gli Who pubblicarono sul finire del 1967. Indubbiamente si trattava di un periodo piuttosto particolare per gli Who, in procinto di trovare la loro identità con Tommy ma ancora alla ricerca di essa, in una costante alternanza tra l'anticipare e l'inseguire i tempi. Dopo un album letteralmente a due facce come A Quick One, l'idea fu di basare questo nuovo lavoro sulle allora piuttosto popolari radio pirata, come Radio London. Scrissero normali canzoni non correlate fra loro, e poi collegarono il tutto con jingle proprio da Radio London (con, pare, conseguenti problemi legali per la mancanza di permessi) e brevi brani pubblicitari composti proprio da loro stessi. Ovviamente il senso dell'umorismo, tipico non solo degli Who ma di molte band inglesi dei tempi, permise loro di dar vita a brani dedicati a Odorono, il deodorante che ti permette di passare i colloqui di lavoro, i fagioli in salsa Heinz Baked Beans, il programma per mettersi in forma di Charles Atlas, la pomata per i brufoli Medac...
La veste grafica dell'album finì per essere basata proprio su questi quattro prodotti, uno per ogni membro della band, con risultati esilaranti. I jingle sono in gran parte opera di John Entwistle e Keith Moon, mentre le altre canzoni mostrano ancora il predominio compositivo di Townshend. Tho Who Sell Out è quindi un lavoro di gruppo in cui a risentirne è il povero Roger Daltrey, che troverà il suo posto solo nel successivo Tommy. Musicalmente si nota come gli Who stessero crescendo velocemente, specialmente tenendo conto che Sell Out è il terzo album, ed appena due anni prima uscì My Generation. Ma come detto non ci sono solo jingle pubblicitare, e gli altri brani non sono da meno, a partire dalla minacciosa Armenia City In The Sky (scritta da John "Speedy" Keen), la divertente e particolarmente riuscita Tattoo (unico brano riproposto dal vivo nei tour dell'epoca), il bel pop di Our Love Was e Can't Reach You.
Nel mezzo troviamo la rumorosa e psichedelica I Can See For Miles, che pare aver spinto Paul McCartney a tirare fuori Helter Skelter nel tentativo di scrivere un pezzo ancora più rumoroso, l'altra faccia della psichedelia, quella più onirica, in Relax, quel'enciclopedia di accordi jazz per chitarra acustica che è la sublime Sunrise del solitario Townshend... Poi che dire di Mary Anne With The Shaky Hand? Dopo Pictures Of Lily si è capito che si tratta di un argomento caro a Townshend, oltre che certamente non popolare nella musica degli anni '60 e non solo.
Solo gente come gli Who e Zappa potevano cavarsela scrivendo brani del genere.
In Silas Stingy, ad opera di Entwistle, si nota la propensione a raccontare brevi storie spesso tra il divertente e l'amaro, mentre sulla conclusiva Rael si potrebbe scrivere libri interi. Nelle intenzioni iniziali Rael avrebbe dovuto essere il seguito spirituale di A Quick One While He's Away, possibilmente ancora più lunga ed ambiziosa. Il concept dietro è piuttosto complesso e di difficile comprensione, soprattutto perchè, a quanto pare, nella fretta di concludere l'album, il brano finì per essere tagliuzzato e ridimensionato tanto da diventare praticamente incomprensibile. Ciò che è interessante però è la presenza di una sezione strumentale che sarà poi ripetuta pari pari in Tommy nei brani Sparks e Underture. Una ulteriore breve sezione, chiamata Rael Naive, uscì anni dopo nella riedizione di The Who Sell Out, insieme ad una infinità di outtakes interessantissime, compresi altri jingle pubblicitari di loro composizione tra cui due sulla Coca Cola e uno sulle auto Jaguar.
E proprio su questo punto mi vorrei soffermare un attimo, parlando di quello che secondo me è l'unico vero "difetto" di questo album. Le idee per i jingle non mancavano, e spesso la loro durata si aggira sul minuto, quindi niente di eccessivo; è quindi un peccato, a mio parere, che dopo Medac (quindi il secondo brano del secondo lato) ci siano ben quattro brani senza alcuna interruzione pubblicitaria, quasi come se la fretta o la pigrizia abbia impedito loro di andare fino in fondo con il concept. L'edizione del 1995, la migliore a mio parere, mette una pezza su questo aspetto aggiungendo jingle anche tra gli ultimi brani e le bonus track, ampliando quindi l'album senza creare stacchi e proponendone una sostanziosa versione alternativa (tra l'altro anche in un magnifico remix stereo).
Insomma a mio parere come idee, realizzazione e veste grafica The Who Sell Out è una delle migliori rappresentazioni di pop art su più livelli, non solamente visivo. Un perfetto album colorato, divertente ed imprevedibile, come probabilmente non ne vedremo mai più viste le tendenze musicali, ed in generale artistiche, degli ultimi 20/30 anni. All'epoca non ebbe molto successo, e tutt'ora non è certo in cima alle preferenze dei nuovi fan (che gli Who li hanno conosciuti con CSI), rimanendo il classico album di nicchia adorato dallo zoccolo duro dei loro seguaci.
Come voto si merita un 8,5 abbondante.

mercoledì 17 ottobre 2018

Led Zeppelin - Presence (1976) Recensione


Settimo album in studio dei Led Zeppelin oltre che uno di quelli su cui le opinioni più si dividono. C'è chi lo definisce un ottimo album, chi un capolavoro, e chi invece lo vede come un lavoro non all'altezza dei precedenti e l'inizio di una fine che continuerà in modo più evidente nel successivo In Through The Out Door. 
L'album fu registrato in condizioni piuttosto complicate, con Robert Plant costretto in sedia a rotelle dopo l'incidente automobilistico in Grecia nell'estate del 1975, che di fatto causò uno stop all'attività live della band che quindi, per non rischiare lo scioglimento (più le pause sono lunghe e più è difficile riprendere), si buttò ben presto in studio al lavoro su nuovi brani. Brani che finiranno per mostrare segni di tristezza, senso di incomprensione, rabbia, risentimento nei testi scritti da un Plant che non era certo felicissimo di essere lì in quel momento, oltretutto lontano dalla moglie Maureen costretta in ospedale in Inghilterra in condizioni più gravi di lui mentre la band, per le solite questioni di tasse, registrava in America.
Nei testi si sente la solitudine, la critica agli amici che non danno importanza a ciò che lui vuole e alla sua situazione, la visione amara della vita in tour in America fatta di droga e groupie... Un altro fattore importante che caratterizzò la lavorazione di Presence fu il poco tempo dedicato alla registrazione: dopo album come Houses Of The Holy e Physical Graffiti caratterizzati da tempi di realizzazione biblici, Presence fu realizzato in poche settimane, anche a causa dell'uso dello studio mobile dei Rolling Stones, i quali l'avrebbero poi avuto bisogno di lì a poco, costringendo Page a turni lunghissimi di lavoro per ultimare il tutto. Se a questo si aggiunge l'assenza, caso unico nella loro discografia, di tastiere e chitarre acustiche, si può ben capire quale può essere il carattere di Presence. Meno grandiosità, meno eclettismo, più urgenza, più rabbia. Anche per questo secondo alcuni, visto anche il periodo, è un po' "l'album punk" dei Led Zeppelin.
Si tratta, a mio parere, però anche di un album che mostra più facce in un certo senso. Perchè se da un lato abbiamo brani effettivamente semplici e diretti come Royal Orleans, Candy Store Rock, Hots On For Nowhere e la un po' più complessa For Your Life, in bilico tra rock blues e tendenze funk, dall'altra abbiamo l'ambiziosa Achilles Last Stand ed il ritorno dirompente nel puro blues di Nobody's Fault But Mine e Tea For One. Ciò che però unisce tutto ciò è forse il più grande risultato della "guitar army" di Page, la sua tecnica di orchestrare le chitarre tramite sovraincisioni: una caratteristica presente da sempre nei Led Zeppelin, ma che qui diventa una costante, anche se spesso un po' meno evidente che in altri casi. Achilles Last Stand ne è forse la dimostrazione più plateale, oltre che uno dei brani meglio riusciti della loro intera carriera: una cavalcata di oltre 10 minuti che, tramite riferimenti letterari e mitologici, finisce per parlare apertamente della triste situazione di esilio in cui la band si trovava ai tempi e della situazione di Plant (tanto che in fase di lavorazione si chiamava The Wheelchair Song).
Le parti di chitarra qui non si contano, Bonham ci regala forse una delle sue migliori performance e Jones è una inarrestabile mitragliatrice al basso. Indubbiamente il brano della maturità dei Led Zeppelin più di ogni altro. Ovvio che il resto finisca per sfigurare al confronto. For Your Life però lo ritengo un brano ingiustamente sottovalutato, e credo che anche la band l'abbia riconosciuto, aggiungendolo a sorpresa in scaletta nella reunion del 2007. Siamo in consueti territori rock blues - funk, ma il suo andamento possente, i continui cambi di tempo e riff, il testo amaro, ne fanno un gran bel pezzo. Nobody's Fault But Mine invece è un altro grande brano in cui gli Zeppelin ritornano alla loro consuetudine di riarrangiare standard blues; approccio che a mio parere raggiunse il massimo del risultato nell'album precedente con In My Time Of Dying, ma che qui prende una strada un po' meno improvvisata, più organizzata, ed in un certo senso più focalizzata. Il ripetitivo riff, gli stacchi "storti" di Bonham, indubbiamente siamo di fronte all'unico altro brano qui in grado di rivaleggiare con Achilles Last Stand in quanto a maturità d'approccio e suono. Il blues ritorna alla fine nella triste ed oscura Tea For One, ovvio riferimento alla solitudine, che altro non è che un voluto ritorno a Since I've Been Loving You. Infatti, dopo un possente riff che tristemente non è stato sviluppato quanto avrebbe meritato, ci aspettano 9 minuti di blues in minore in quella che sembra essere la versione più matura del già citato brano di Led Zeppelin III. Ed è interessante in questo senso la scelta, nel conseguente tour del 1977, di riportare in scaletta una Since I've Been Loving You suonata in un modo non così distante da Tea For One (quindi più pacata rispetto alle versioni dei primi anni '70, più malinconica), con anche citazioni a questo pezzo nei vari assoli di Jimmy Page, invece che suonare proprio Tea For One. Il resto dell'album ammetto che lascia un po' il tempo che trova, e se Candy Store Rock risulta almeno divertente, Royal Orleans e Hots On For Nowhere risultano un po' più sbiadite e un pelo anonime a mio parere. Suonate sempre benissimo per carità, ma non indimenticabili.
E per questo credo che se da un lato l'urgenza e la fretta, come detto, è ciò che dà carattere a Presence, dall'altro sono convinto che una lavorazione più tranquilla e dilatata nel tempo avrebbe forse giovato in termini di qualità generale. Rimane comunque uno degli album preferiti di Jimmy Page, forse proprio a causa della sua spiccata presenza in ogni angolo di ogni pezzo. Il successivo In Through The Out Door (dove saranno Plant e Jones a prendere il sopravvento a livello creativo) mostra una direzione ed un risultato ben diverso, forse più in negativo che in positivo, nonostante torni prepotente la voglia di affrontare più generi diversi, cosa che normalmente adoro.
Quindi Presence è l'ultimo grande album dei Led Zeppelin? Sarei più propenso a usare questa definizione per il precedente Physical Graffiti, ma brano come Achilles Last Stand e Nobody's Fault But Mine non si possono certo ignorare, quindi non saprei... Non un album perfetto ma con vette non indifferenti, un 7,5 come voto.
Menzione a parte per la magnifica copertina, o meglio l'intera veste grafica, con foto d'epoca caratterizzate dalla presenza del cosiddetto "the object": un oggetto nero con piedistallo, ispirato al monolite di 2001: Odissea Nello Spazio, che in realtà non è presente in quelle foto, ma è ritagliato. L'oggetto dovrebbe rappresentare la potenza e la forza dei Led Zeppelin che, nelle parole di Storm Thorgerson, erano così potenti che non necessitavano neanche di essere presenti.


lunedì 15 ottobre 2018

Fruupp - Future Legends (1973) Recensione

I Fruupp sono un interessante gruppo proveniente dall'Irlanda del Nord, caratterizzato da una forte componente "classica" nel loro suono, a causa del background di alcuni componenti della band. Non è raro infatti incontrare strumenti come l'oboe e archi di vario tipo nei loro album. Purtroppo non ebbero molta fortuna in termini di fama, e finirono per pubblicare solamente quattro album in poco più di due anni. Questo Future Legends è il loro primo lavoro, e si dimostra essere forse quello più coinvolgente e a fuoco. In altri loro album infatti il suono è decisamente più disteso, dilatato, con solamente qualche "scossa" ogni tanto, specialmente il loro secondo album Seven Secrets.
Future Legends invece è un album decisamente denso di suoni e idee, e ciò si nota fin da subito nel primo brano vero e proprio: Decision. Dopo una breve introduzione classicheggiante, entra il gruppo in modo dirompente con una cavalcata sonora molto coinvolgente, spezzata poi dall'entrata della voce su di una base che strizza l'occhio al jazz, creando un bel contrasto che continua fino al bellissimo assolo di chitarra supportato da dei magnifici archi ritmici. Purtroppo si può subito notare come la qualità sonora dell'album non sia delle migliori, sicuramente a causa di fondi economici non certo abbondanti, ed il che fa forse rendere il tutto meno di quanto potrebbe, ma è un "ostacolo" facilmente superabile a mio parere. Segue l'apparentemente più calma As Day Breaks, con bellissime parti di pianoforte presto spazzate via da un'altra entrata della band su un ritmo decisamente più spinto e serrato, di nuovo giocando su contrasti ed alternanze "piano - forte" per tutta la lunghezza del brano.
Altro gran bel pezzo è Graveyard Epistle, con uno spettacolare basso nell'introduzione, strofe sospese e sognanti, ritornello più spinto e minaccioso, intermezzo quasi orientaleggiante. Insomma, arrivati a questo punto si nota come la band non si faccia problemi nel mostrare i muscoli ogni tanto con parti strumentali più intricate non distanti da certe cose di musica classica, da cui indubbiamente la band si ispira e pesca a piene mani, senza però (cosa di fondamentale importanza) citare apertamente brani classici. Cosa molto in voga tra le band di quell'epoca, anche i Fruupp ci "cascheranno" in un brano dell'album successivo, Faced With Shekinah, dove un breve frammento di un brano di Purcell fa capolino.
Lo stile che già si è dimostrato piuttosto chiaro finora continua nei brani successivi, con punte particolarmente ambiziose e riuscite in Lord Of The Incubus, corredata da stacchi e cambi di tempo più in linea con il progressive classico, e nella spettacolare Song For A Thought, forse uno dei brani migliori di Future Legends, il cui crescendo finale vale quasi da solo l'intero album. Nel mezzo troviamo Olde Tyme Future, schiacciata tra due pezzi di altissima qualità, riesce comunque a dire la sua con la sua introduzione strumentale di nuovo classicheggiante e una sezione cantata più ritmata, che anche senza raggiungere le vette dei brani sopra citati, si fa comunque decisamente apprezzare. L'album si chiude con la brevissima title track, un brano corale quasi a cappella che, personalmente, non mi sarebbe dispiaciuto se fosse stato un po' più lungo.
Gli album successivi hanno indubbiamente ottime cose (penso ad uno dei miei brani preferiti in assoluto, Elizabeth, ad esempio), ma a mio parere non riescono a raggiungere la notevole densità di idee presenti in questo Future Legends, che quindi si rivela essere il mio album preferito dei Fruupp, band che avrebbe meritato decisamente più fortuna.
Un 8 come voto.

mercoledì 10 ottobre 2018

Freddie Mercury & Montserrat Caballé - Barcelona (1988) Recensione

Io sono totalmente estraneo al mondo della musica classica, lirica, chiamatela come volete. Ho sempre ascoltato pop, rock e tutto ciò che ne deriva, e fin da bambino andavo matto per i Queen, che sono stati di fatto una importantissima parte della mia formazione musicale. E proprio da bambino, in mezzo a cassette come i due Greatest Hits, Innuendo, Sheer Heart Attack, Made In Heaven comprato all'uscita, ne avevo una palesemente copiata basata a grandi linee sulle cose di Freddie Mercury solista. Tutt'ora non so la fonte ed il criterio con cui fu assemblata: ricordo in sostanza l'intero The Freddie Mercury Album uscito nei primi anni '90, ricordo innumerevoli remix di Living On My Own, insomma cose varie. E tra questo caos c'era questo brano chiamato Barcelona. Ricordo che ne ero ammaliato, sia per le sonorità diverse dal resto, sia per come duettavano le due voci: non avevo mai sentito nulla di simile. E per anni neanche sentii altro di simile, fino a quando, in una pubblicità di qualche automobile, ecco comparire le stesse due magnifiche voci cantando però un brano che non avevo mai ascoltato. Ma quindi non hanno fatto solo Barcelona? E fu lì che scoprii l'esistenza di un intero album nato dalla collaborazione di questi due grandi artisti, e che album!
L'inizio è segnato dalla già nota title track, e che dire a riguardo? Si tratta dell'esempio perfetto di un punto d'incontro importantissimo, che dimostra sia le ispirazioni "extra-rock" di Freddie Mercury (evidenti comunque già in alcuni altri suoi brani), sia l'apertura da parte di una cantante parte di un ambiente che spesso si auto-considera una sorta di elite superiore al rock e al pop.
La grandiosa introduzione orchestrale (che poi sono sintetizzatori suonati da Freddie e Mike Moran, il quale dà una mano enorme anche in sede di composizione), il botta e risposta in Inglese e Spagnolo, i bellissimi cori (che, a parte in un altro brano di cui parlerò più avanti, sono tutti ad opera di Mercury, con la sua voce sovraincisa): un magnifico brano senza tempo.
Il secondo brano dimostra invece come non ci si sia voluti limitare a fare un album di musica classica tradizionale o un semplice incontro "classica-rock" come ne esistono a bizzeffe. Infatti La Japonaise, come può far intuire il titolo, è un brano che mostra atmosfere, sonorità e anche varie parti cantate in Giapponese (Freddie non ha mai nascosto l'amore per quel paese).
La grandiosità sinfonica torna prepotente in The Fallen Priest (il cui demo si intitolava Rachmaninov's Revenge, facendo intendere quale fu l'ispirazione a livello compositivo), e qui a mio parere c'è la massima espressione delle due voci, le quali sin inseguono, salgono, scendono, fanno salti oltre l'immaginabile. Forse il mio brano preferito dell'album, caratterizzato da una notevole complessità, un capolavoro senza se e senza ma.
I toni si abbassano con la più leggera Ensueño, duetto cantato da entrambi in spagnolo e basato interamente su un brano precedente di Freddie Mercury, cantato interamente da lui imitando in modo impressionante la voce di un soprano solo con vocalizzi, senza parole: Exercises In Free Love.
Ammetto che Exercises colpisce forse un po' di più di Ensueño, ma rimane comunque un gran bel pezzo.
Eccoci a The Golden Boy, altra perla dell'album dove ci viene presentato l'azzardato abbinamento di una bellissima introduzione classica ed una seconda parte gospel. E  se Freddie sembra trovarsi totalmente a suo agio in territori simili, fa strano ascoltare una voce come quella di Montserrat in un contesto gospel. Questo non significa che la cosa non funzioni, anzi, e l'entusiasmo e la carica della sezione gospel non può non coinvolgere. Questo è anche l'unico brano dell'album dove sono presenti altre voci ai cori.
Guide Me Home è proprio quel brano presente nella pubblicità di cui parlavo all'inizio, ed è di una bellezza indescrivibile. Nella sua semplicità si dimostra uno dei brani più riusciti, quasi come un parziale punto di arrivo stilistico dopo le sperimentazioni e gli azzardi precedenti. Punto di arrivo che si concretizza in How Can I Go On, a mio parere inconcepibile separatamente da Guide Me Home.
Qui infatti si può notare come in sostanza si tratti di un brano pop, e che quindi l'incontro fra questi due mondi diversi trovi il suo punto d'arrivo proprio in questo genere così lontano (ma poi in realtà no) dalla musica classica. Il duettare delle loro voci in questi due brani (specialmente in Guide Me Home) è la perfetta rappresentazione di quanto talento puro era presente in queste due persone. Raramente ho avuto il piacere di ascoltare interpretazioni così emozionanti. La chiusura dell'album è affidata alla particolare scelta di Overture Piccante (una overture in chiusura?), dove sezioni in gran parte strumentali dei brani dell'album si alternano formandone uno nuovo, con anche parti mandate al contrario, improvvisazioni voce-piano... Insomma non sarà al livello di tutto ciò ascoltato finora, ma rimane un ascolto più che piacevole.
A distanza di esattamente 30 anni dalla sua pubblicazione, in un mondo ormai orfano di entrambi gli interpreti che ne hanno permesso l'esistenza, mi guardo intorno e mi rendo conto di quanto sia un episodio unico ed inimitabile. Sia per il livello inarrivabile di Freddie e Montserrat nei loro rispettivi mondi, sia per il modo in cui il loro incontro fu realizzato. Molto spesso i miscugli pop\rock-classica si limitano a rimanere in uno dei due generi ed aggiungere elementi dell'altro. Vedi brani classici riarrangiati in veste rock, o brani rock con l'orchestra. Qui si crea qualcosa di nuovo, non appartenente totalmente ad un solo genere, con un approccio non lontano dagli indefinibili album dei Queen, nei quali se ci mettessimo a contare i generi presenti staremmo qui fino a quando l'Italia ripagherà il debito pubblico.
Rimane ovviamente la tristezza di non aver potuto ascoltare un loro secondo album, in quanto è sostanzialmente sicuro che se solo Freddie Mercury ne avesse avuto il tempo, ci sarebbe stato.
Nel 2012 è uscita una nuova versione di Barcelona suonata da un'orchestra vera, la Prague FILMarmonic Orchestra, ed è un ascolto alternativo molto interessante. Come interessantisimi sono anche i demo dell'album, che si trovano facilmente su YouTube. Ascoltare Mercury cantare sia le sue parti che quelle, in falsetto, che poi avrebbe dovuto incidere Montserrat è qualcosa di incredibile.
Probabilmente chi crede in qualche cosa come il paradiso immaginerà ora i magnifici duetti che si stanno tenendo lassù, ed è un'immagine troppo bella per esser distrutta da un non credente come il sottoscritto. Un voto? Sicuramente condizionato dall'affetto, ma un 9,5.

venerdì 5 ottobre 2018

Elton John - Goodbye Yellow Brick Road (1973) Recensione

Da molti considerato come il capolavoro di Elton John (a mio modesto parere quasi a pari merito con Captain Fantastic), Goodbye Yellow Brick Road è forse effettivamente una delle più riuscite rappresentazioni del suo talento. La coppia compositiva Elton John - Bernie Taupin già stava mietendo successi con una sfilza di album uno più bello dell'altro, ma realizzare un album doppio è sempre una sfida. Perchè diciamocelo, è raro quando non impossibile trovare un album doppio in grado di mantenere qualità ed interesse per tutta la sua durata: per natura saranno presenti dei cosiddetti "riempitivi", che poi altro non sono che canzoni spesso semplicemente non allo stesso livello di altre migliori. E qui non ci si smentisce ovviamente, ma andiamo per gradi.

L'inizio ci regala forse una delle cose migliori di Elton: la magnifica Funeral For A Friend/Love Lies Bleeding. In realtà si tratta di due canzoni diverse unite, ma difficilmente concepibili come separate. La prima è una magnifica ouverture di stampo orchestrale con sintetizzatori vari a creare uno splendido panorama sonoro, che ad un certo punto si riversa nella rockeggiante Love Lies Bleeding. Un inizio da applausi. L'album continua su livelli altissimi con la, purtroppo, esageratamente nota Candle In The Wind (dico purtroppo perchè ogni canzone ascoltata troppe volte finisce per stancare, ed è un peccato in questo caso vista la bellezza del pezzo in questione), l'R&B di Bennie And The Jets, caratterizzata da un azzeccatissimo arrangiamento "finto live" e la suadente e malinconica title track con un Elton John in formissima che sfoggia il suo migliore falsetto.  Questa manciata di brani iniziali sono, a mio parere, in grado di tenere in piedi da sole un intero album, e sono senza dubbio tra i migliori brani della sua intera carriera. Da qui iniziano ad arrivare brani forse un pelo meno noti, ma con qualche bella ed inaspettata perla incastonata qua e là. This Song Has No Title ne è un perfetto esempio, essendo un altro brano magnifico con questo suo perfetto equilibrio tra perfette melodie distese e ritmo ossessivo ben mascherato dall'arrangiamento essenziale; così come Grey Seal, che già uscì come singolo nel 1970 e qui viene riarrangiata diventando nettamente superiore. Scelte armoniche e melodiche insolite nelle strofe ben si bilanciano nel liberatorio ritornello: un altro gran bel brano. Jamaica Jerk Off è il primo vero e proprio riempitivo, e seppur si tratti di una divertente puntatina in territori reggae, finisce per sfigurare un po' dopo tutto ciò che l'ha preceduta.
I've Seen That Movie Too invece è il classico brano che non colpisce quanto altri ma che nasconde una profondità ed un carattere di tutto rispetto, anche grazie agli ottimi arrangiamenti orchestrali. Seguono la discreta ballata Sweet Painted Lady ed il bel ritorno ad atmosfere alla Tumbleweed Connection in The Ballad Of Denny Bailey (1909-34), anche se con di nuovo toni più orchestrali che in precedenza. La più rock Dirty Little Girl lascia un po' il tempo che trova, ma la successiva All The Young Girls Love Alice è ben altra cosa: un brano che alterna due sezioni, una più movimentata e l'altra più calma, facendo convivere energia pura e melodie di rara bellezza in un brano che meriterebbe decisamente più attenzione. Il divertente, frenetico e breve rock and roll di Your Sister Can't Twist (But She Can Rock And Roll) funziona perfettamente nel suo ruolo di "carica a molla" che ben introduce il classicone Saturday Night's Alright For Fighting. Perfetto prodotto dell'Elton più rockettaro, si tratta senza dubbio di uno dei suoi brani più riusciti in quel senso, oltre che uno dei picchi dell'album e della sua discografia. L'album continua bene, seppur a fatica dopo il trio di brani che abbiamo appena visto, con la bella ballata Roy Rogers, per poi calare ancora un po' a mio parere con Social Disease. Per fortuna la delicata Harmony chiude l'album nel migliore dei modi, rivelandosi un altro di quei brani che, seppur forse non famosi, mostrano il lato migliore di Elton John.

In definitiva, come anticipato, è fisiologico per un album doppio avere dei cali, ma in Goodbye Yellow Brick Road gran parte di essi si rivelano tali principalmente per l'ombra proiettata su di loro dagli altri capolavori qui presenti. Gran parte di un album come Honky Cheateu ad esempio, tolti capolavori come Rocket Man, Mona Lisas And Mad Hatters e Honky Cat, si attesta sul livello dei brani definibili come riempitivi in Goodbye Yellow Brick Road, per dire...
Alla luce di questo, penso che si tratti indubbiamente di uno dei lavori migliori di Eton John, per di più in un periodo della sua carriera dove manteneva una media di due album all'anno, e solo 9 mesi prima, già nel 1973, era uscito Don't Shoot Me I'm Only The Piano Player. Oggi sarebbero impensabili ritmi simili, sia per un discorso legato strettamente a logiche di mercato, sia proprio a livello di creatività di un artista pop medio (che poi ci siano in media 5-6 compositori dietro a canzoni banali, inutili e dimenticabili, è un altro discorso ancora). Uno dei migliori album pop di sempre, oltre che un perfetto esempio di quello che il pop dovrebbe essere e di cui troppo spesso ci dimentichiamo: musica universale, in grado di essere apprezzata tanto dagli ascoltatori occasionali quanto da musicisti o "palati fini". Si merita un 8,5 come voto.

giovedì 4 ottobre 2018

Eloy - Dawn (1976) Recensione

Gli Eloy sono un gruppo particolare. Di solito inseriti a grandi linee nello space rock e di provenienza tedesca, vantano una lunga carriera ed una sostanziosa discografia. Ovviamente ho avuto il piacere di scoprirli con il loro album più celebrato, Ocean, ma dopo anni ed un colpo di fortuna nel trovare questo Dawn (uscito un anno prima di Ocean) in una bancarella, il trono di Ocean, per quanto mi riguarda, è minacciato.
Gli ingredienti sono simili: atmosfere sospese, brani ripetitivi ed evocativi, sintetizzatori in primo piano, l'incredibilmente monotona voce di di Frank Bornemann... Quello che però salta subito all'orecchio sono due elementi che lo distinguono da Ocean, e per questo me lo fanno apprezzare maggiormente: la presenza di un'orchestra ed il ruolo più importante della chitarra. Ocean infatti si dimostra come una massa di suoni atmosferici con alti e bassi per quaranta minuti, laddove Dawn riesce invece ad essere più vario proprio grazie a queste aggiunte. Capita infatti di incappare in riff un pelo più movimentati ogni tanto che ben riescono a spezzare il ritmo. Basti sentire Between The Times ad esempio. Se a questo ci aggiungiamo la mancanza di una infinita, e a mio parere un po' noiosetta, sezione narrata come in Ocean (parlo della prima sezione della lunga Atlantis' Agony at June 5th - 8498, 13 P.M. Gregorian Earthtime), si può capire come l'album riesca a scorrere decisamente meglio.
Ovviamente ci sono anche qui parti un po' meno interessanti: trovo infatti che un brano come LOST?? (The Decision) sia fin troppo ripetitivo e, in un certo senso, inutile (bastavano un paio di minuti a mio parere), così come alcune sezioni narrate (si, ci sono anche in Dawn, ma per fortuna sono più brevi e supportate da musica più interessante e piacevole) sono forse un pelo forzate oltre che al limite dell'incomprensibile, non certo aiutate dall'accento spiccatamente tedesco e dal bassissimo volume della voce. A tal proposito, Dawn dovrebbe essere un concept album, ma per i motivi detti qui sopra la storia risulta pressoché incomprensibile. L'unica spiegazione che ho trovato a riguardo arriva dalla solita Wikipedia: "...racconta la storia di un uomo che dopo una morte improvvisa ritorna come un fantasma. Cerca di trasmettere le sue conoscenze appena acquisite alla sua amata. L'album termina con la sua dissolvenza in luce, chiudendo sulla citazione, "Nous sommes du soleil" ("We are of the sun")."
Curiosa la scelta dell'ultima frase, usata anche dagli Yes come una sorta di mantra in Ritual, nel tanto discusso Tales From Topographic Oceans. Curioso comunque notare che i testi, sia di questo Dawn che di Ocean, siano opera del batterista Jürgen Rosenthal, precedentemente membro dei primissimi Scorpions di Fly To The Rainbow.
Dawn però si lascia ascoltare molto piacevolmente, raggiungendo a mio parere i suoi picchi all'inizio con Awakening e la mini-suite Between The Times, e nella seconda metà, con quel gran bel pezzo che è The Midnight-Flight/The Victory Of Mental Force, uno dei miei brani preferiti in assoluto degli Eloy. Forse l'ostacolo più grande all'ascolto, caratteristica che però non si limita ad essere presente in Dawn, è il cantato di Bornemann. Indubbiamente non dotato di una grande voce versatile, per questo motivo e, probabilmente, anche per consce scelte compositive, le linee vocali sono sempre molto piatte, monotone, ripetitive, inespressive, al limite del parlato. Certo, questa è una caratteristica primaria del suono Eloy, ma non fatico a credere che qualcuno la trovi come una sorta di ostacolo.
In definitiva, non conosco ogni singolo album degli Eloy, ma finora Dawn è senza dubbio il mio preferito e lo ascolto spesso con piacere. Per questo, nonostante i difetti, si merita un 7,5 come voto.

lunedì 1 ottobre 2018

Bootleg, Empress Valley, lamentele e riflessioni.

Il mondo dei bootleg mi ha sempre affascinato. Per chi non lo sapesse, con la parola bootleg si intendono registrazioni non ufficiali di un concerto, anche se spesso il termine si estende a nastri da studio di cui qualcuno si è "appropriato" in qualche modo. Queste registrazioni possono essere effettuate da qualcuno del pubblico (il caso più comune), o possono anche essere nastri cosiddetti soundboard, che di fatto sono una registrazione fatta dal mixer, quindi spesso di buona qualità. In questo ultimo caso molto spesso i nastri devono essere acquistati o "procurati in altri modi" da archivi di vario tipo. Di fatto però è sempre stata in discussione l'effettiva legalità di questi bootleg. Questo perchè di fatto queste registrazioni (specialmente negli scorsi decenni, ora un po' meno e vedremo perchè) vengono confezionate e vendute senza che un centesimo arrivi in tasca degli artisti presenti in quella registrazione.
Sono molti infatti i casi in cui un dato artista o una band ad un certo punto si appropri di un dato bootleg e lo pubblichi ufficialmente, magari in qualità audio migliore, di fatto annientando quel tipo di mercato. I Deep Purple non si sono mai trattenuti dal pubblicare live di varia qualità e di varie epoche, mentre i King Crimson sono andati ancora oltre pubblicando (singolarmente, in download o in cofanetto) sostanzialmente ogni loro concerto esistente (si, anche bootleg registrati dal pubblico che ha infranto un divieto, in quanto "concerti storici". Viva la coerenza). Dall'altra parte però ci sono band che hanno sempre pubblicato il minimo indispensabile con il contagocce, ed è proprio per queste band che il mercato dei bootleg è tutt'oggi attivo più che mai. Ad esempio è noto il caso dei Queen, dove si sa ormai che non sono disposti a pubblicare nulla che non esista in multitraccia, in modo da poter correggere gli errori.
Negli anni '60, '70 e '80 l'unico modo per diffondere i bootleg era effettivamente stamparli, produrli e venderli, spesso accanto ad altri dischi ufficiali nei negozi. Fino a pochi anni fa era ancora possibile trovare dei CD palesemente non ufficiali pure nei supermercati, per dire quanto era radicata la cosa. Oggi alcuni si trovano ancora su Amazon. Questo perchè di fatto legalmente è tutto fuorché chiaro se si tratti di un'azione consentita oppure no. Ovviamente, come per ogni ambito musicale e non solo, l'avvento di Internet ha cambiato le cose. Oggi infatti il principale mezzo di diffusione dei bootleg è proprio la condivisione gratis e il download. Questo sia per la natura di Internet, che incentiva questo tipo di condivisione, sia per lo stato attuale dei bootleg.
Mi spiego meglio: da una parte abbiamo delle etichette specializzate, come la Empress Valley dal Giappone, di fatto focalizzata sui Led Zeppelin (ed il motivo per cui ho voluto scrivere questo articolo), dall'altra abbiamo i fan. Soffermiamoci un attimo sui fan, tornerò dopo sulle etichette. I fan spesso non sono solo "consumatori", ma parte attiva di questo mondo; non è raro infatti che le versioni migliori di certi bootleg, magari creati combinando diverse fonti per fornire un concerto completo, oppure con una resa audio migliorata da una rimasterizzazione, siano proprio frutto del lavoro dei fan e della loro passione. Ed è ovvio che in questi casi il risultato venga distribuito gratuitamente su Internet, perchè appunto si tratta di un lavoro di appassionati per altri appassionati.
Dall'altro lato abbiamo le etichette, come ho detto. La Empress Valley non è nuova nell'ambiente, e pubblica regolarmente bootleg di ottima qualità sia audio che a livello di confezione ed oggetto fisico. Il problema qual è? Beh, il problema è quando un singolo da una canzone costa 50 Euro e un doppio CD, a seconda delle edizioni, va dai 150 ai 250 Euro. E se poi, il giorno stesso della pubblicazione di un dato bootleg, viene condiviso su Internet, si arrabbiano pure? Questo è successo in questi giorni, e qui c'è l'articolo in cui se ne parla (in Inglese, abbiate pazienza). Ora, io capisco che comunque ci sia del lavoro dietro, delle spese che vanno ripagate (pare infatti che certi nastri debbano essere acquistati, non si sa a che cifre, per poter poi essere usati), oltre magari a trarne un minimo di profitto; ma un poveraccio come il sottoscritto, a cui sicuramente non farebbe schifo una bella copia fisica di un bootleg (anzi), è disposto a spendere più di 100 Euro per 1 ora e mezza di bootleg? L'ovvia risposta è no, specialmente in un'epoca in cui, appunto, esiste Internet, nel bene e nel male. Che poi io 100 Euro non sia disposto a spenderli neanche per un biglietto di un concerto vale più di mille parole... Se costasse 20 o anche 30 Euro il discorso molto probabilmente cambierebbe, e non solo per me. Se poi a questo si aggiunge il fatto che il concerto in questione non è intero (si parla di circa la metà), che è più che certo che il nastro intero sia nelle loro mani, e che quindi in futuro spunterà magicamente una "parte 2" allo stesso prezzo o addirittura un cofanetto con il concerto intero a prezzi ancora più assurdi beh, traete le vostre conclusioni...  Il punto è: se oggi si tende a voler scaricare qualunque cosa, anche ufficiale, cosa vi fa pensare che per i bootleg sia diverso? C'è anche chi dice espressamente "non comprate questo bootleg, non è in vendita, va scambiato gratuitamente", allora chi ha ragione? Chi è nel giusto? Chi vende o chi scambia gratuitamente? Specialmente quando, appunto, la band in questione non vede un centesimo (che magari ne ha pure bisogno viste le continue accuse di plagio, fondate o meno, da parte di band morte e sepolte che si svegliano con 45 anni di ritardo in cerca di uno sprazzo di fama e qualche soldino). Poi diciamocelo, un'etichetta di bootleg che si lamenta di gente che condivide gratuitamente il loro lavoro è il colmo. A cosa si appellano, al copyright? Copyright sulle performance di artisti che vengono pubblicate senza il loro consenso? Si potrebbe parlare di karma in questo caso.
Detto questo, a quanto pare, nel caso specifico dei Led Zeppelin, pare sia in lavorazione un servizio streaming dedicato ai concerti, e sarà interessante vedere se e come si realizzerà, oltre alle eventuali ripercussioni sul mercato dei bootleg.
Nel frattempo, i bootleg dovrebbero essere a pagamento o gratuiti? Non ho una risposta chiara e definitiva, ma posso dire che se io registrassi un concerto (e l'ho fatto) e decidessi di diffonderlo (e non l'ho fatto perchè non fregherebbe a molti), personalmente non vorrei un soldo.
Ah, qui sotto trovate il bootleg che ha scatenato le discussioni.