martedì 29 gennaio 2019

Styx - Cornerstone (1979) Recensione

Forse una delle parentesi più criticate della carriera degli Styx insieme al già affrontato Kilroy Was Here. Un album che sicuramente ha portato questa band alle orecchie di molte persone che prima ne ignoravano l'esistenza, e che ha contribuito pesantemente ad un'affermazione che avverrà definitivamente con il successivo Paradise Theatre. Ciò che però viene criticato a questo Cornerstone è la modalità con cui ha contribuito ad affermare la band, e cioè tramite "hit" da classifica tranquillamente definibili pop ed indubbiamente più leggere di gran parte della loro produzione precedente. Indubbiamente l'album fu trainato dall'enorme successo del brano Babe, ad opera di Dennis DeYoung. Questa smielata ballata romantica che fu un po' un prototipo di innumerevoli altri brani di simile natura che vedranno la luce nel decennio successivo (non solo degli Styx), si tratta in realtà di un demo che non fu inteso per gli Styx, ma realizzato da DeYoung come dedica alla moglie; ovviamente la casa discografica fiutò odor di danaro e costrinse la band a realizzarne una versione presentabile, che è poi ciò che tutt'ora è nell'album. Ciò spiega la peculiare minima presenza di chitarre ed i cori del solo DeYoung. Questo filone parve proseguire con la simile First Time, letteralmente odiata, ancor più di Babe, dai compagni di band e da alcuni fan, che però conferma la versatilità di una band all'epoca in grado di suonare veramente di tutto. Versatilità perfettamente dimostrata dall'unica altra "hit" dell'album, Boat On The River, ballata acustica con un che di est europeo dato dalla presenza di mandolino e fisarmonica. Un brano ad opera di Tommy Shaw che lo stesso DeYoung spinse per averlo nell'album, indipendentemente da quanto rappresentativo fosse dello stile tipico degli Styx.
Intuizione più che giusta visto l'enorme successo di questo brano, forse anche superiore a Babe. Il resto dell'album potrebbe scendere in secondo piano, ma in realtà combatte duramente per catturare l'attenzione, come dimostrato dall'efficace e solare apertura di Lights, altro perfetto esempio di come si possano combinare melodie e ritmi che più pop non si può con strutture e cambi che di solito non trovano spazio nella limitativa rappresentazione del suddetto genere nel mainstream. Why Me continua su simili approcci cantabili, dando però più spazio al funk e a continui stacchi che lo rendono un pezzo molto interessante e godibile. E se brani come Never Say Never e Borrowed Time si attestano su un più comune pop rock non lontano da ciò che stavano facendo i Boston nello stesso periodo, Eddie e la conclusiva Love In The Midnight sembrano essere quasi gli unici richiami allo stile tipico della band fino all'album precedente, con il loro andamento leggermente più pesante e le sempre ottime armonie vocali.
Insomma si può criticare quanto si vuole, si può certamente dire che non è all'altezza né dei precedenti e né del successivo Paradise Theatre, ma questo non nega il fatto che si tratti di un onesto album pop rock che se da un lato è facile additare come esempio della fine del "periodo d'oro" della musica e dell'inizio dei decadenti anni '80, dall'altro dimostra che gli Styx seppero reinventarsi e sopravvivere egregiamente al cambio dei tempi. Poi si può parlare di "svendersi" o di "tradire" un qualsivoglia ideale, cercando di convincersi che chi fa musica di professione non punti alla sopravvivenza sia artistica che economica\commerciale, sia che si tratti di grandi numeri o di piccole nicchie (vero cari gruppi prog che fate sempre le stesse cose che tanto sapete che i fan se le berranno?), ad ognuno il suo.
A me Cornerstone piace, e non poco, in quanto sono fermamente convinto che non ci sia nulla di male nel pop, anzi. Si merita un 7,5 come voto, non più alto solo perchè oggettivamente non raggiunge il livello dei loro lavori.

venerdì 25 gennaio 2019

Toto - Live at Estathè Market Sound, Milano, 03/07/2015 - Recensione

Tempo fa iniziai una sorta di "serie" con l'intenzione di recensire tutti i concerti a cui ho assistito, ed ero pian piano arrivato al 2011. Ora, leggendo il titolo qui sopra uno si potrebbe chiedere se io non abbia visto alcun concerto tra il 2011 ed il 2015, ed in effetti ne ho visti. Recentemente però mi è capitato di ascoltare un bootleg di questo specifico concerto, e ciò ha finito per risvegliare in me svariati ricordi di quella serata, portandomi alla decisione di fare un salto temporale e di parlarne ora.
L'Estathè Market Sound era un bel posto attrezzato per i concerti a Milano, con due palchi, uno grande ed uno piccolo, e varie bancarelle e stand per cibo e bevande. Purtroppo oggi non esiste più, in quanto in Italia ogni cosa che abbia a che fare con ambiti artistici e/o culturali è destinata inevitabilmente a soccombere alla morente cultura che ormai caratterizza il nostro "Bel (una volta forse) Paese".
Inutile dire che le ore di attesa in piedi sull'asfalto ad inizio Luglio non sono certo un'esperienza piacevole, ma per fortuna passarono abbastanza velocemente, grazie anche al soundcheck che ci intratteneva (ricordo distintamente una Hydra, all'epoca non in scaletta). Il caos per entrare fu memorabile, vista la decisione di mettere in vendita biglietti a due fasce di prezzo, di cui la più alta permetteva l'entrata mezz'ora prima degli altri; vi lascio immaginare il casino creato nell'unica entrata disponibile. Ovviamente noi avevamo i biglietti più economici, ma pur essendo entrati dopo, grazie anche all'indole poco agguerrita di coloro che erano entrati prima, ci siamo aggiudicati una posizione tutto sommato buona. La polverosa ghiaia ci impediva di passare le altre ore di attesa seduti senza diventare più grigi di un alessandrino, ma decisi di correre comunque il rischio. Ricordo poi che in una sorta di palazzo a lato della zona del concerto ad un certo punto si affacciarono proprio i Toto, che ci salutarono mentre un non riconosciuto Lenny Castro era sul palco a mettere a posto le percussioni (seriamente, penso di esser stato l'unico a riconoscerlo).
L'attesa passa, e la musica introduttiva accompagna la loro salita sul palco, prima dell'assalto iniziale con l'allora nuova Running Out Of Time. Il suono è perfetto, ed oserei dire senza alcun dubbio che sia stata la miglior resa audio tra tutti i concerti a cui ho assistito (e anche il bootleg e i video della serata lo testimoniano). La band è particolarmente numerosa, e tra i consueti coristi Mabvuto Carpenter e Jenny Douglas (ora non più in formazione) e l'allora new entry Shannon Forest alla batteria (più affine a Jeff Porcaro che a Simon Phillips), ci sono Steve Lukather, David Paich, Steve Porcaro, Joseph Williams, Lenny Castro e David Hungate, bassista nei primi quattro album dei Toto. Segue I'll Supply The Love in cui Joseph non fa troppo rimpiangere Bobby Kimball, specialmente se si considera come canta ultimamente quest'ultimo. Sono vari i brani dell'allora nuovo album Toto XIV sparsi nella scaletta: una potentissima Burn, Holy War, la puntatine in territori prog di Great Expectations, ed una versione mozzafiato di Orphan, estesa da un ottimo assolo di Lukather ed una coda in cui Joseph Williams dà il suo meglio: nettamente superiore alla versione in studio. Non mancano ovviamente i brani più famosi come I Won't Hold You Back, Hold The Line trasformata in duetto tra Williams e Jenny Douglas, Rosanna e Pamela con le lunghe jam finali e l'onnipresente Africa in chiusura. Quest'ultima poi ha "vantato" la presenza di George Clooney sul palco per un breve momento, invitato dall'amico Lukather: il bello è che sul momento ben pochi si sono accorti di chi fosse quando si è avvicinato al microfono insieme ad un altro tizio, ed io stesso l'ho poi scoperto il giorno dopo leggendo ovunque la notizia. Personalmente ho poi apprezzato la presenza di brani meno noti in scaletta, come la potente Never Enough, l'emozionante The Road Goes On, la coinvolgente Stranger In Town, con un Paich che guadagna i riflettori andando avanti e indietro per il palco lontano dalle sue tastiere, Takin' It Back con Steve Porcaro alla voce, il riuscitissimo medley On The Run/Child's Anthem/Goodbye Elenore come primo bis... Indubbiamente però l'highlight della serata è stato un altro medley, quello con la ballata Without Your Love e la hendrixiana Little Wing. Ok, quest'ultima è forse uno dei brani più abusati da ogni chitarrista che voglia mettersi un minimo in mostra, ma qui stiamo parlando di Steve Lukather, non di uno qualunque. Cinque minuti abbondanti di assolo che hanno lasciato praticamente tutti a bocca aperta.
In definitiva, la scaletta fu la seguente:
Running Out of Time
I'll Supply the Love
Burn
Stranger in Town
I Won't Hold You Back
Hold the Line
Takin' It Back
Never Enough
Pamela
Great Expectations
Without Your Love/Little Wing
Holy War
The Road Goes On
Orphan
Rosanna
On the Run/Goodbye Elenore
Africa

I Toto li vidi in concerto già nel 2011, in una formazione leggermente diversa (con Simon Phillips e Nathan East al posto di Shannon Forest, Lenny Castro e David Hungate), e seppure già allora avessi apprezzato molto il concerto, qui la band si è dimostrata in una fase di continua crescita. I brani nuovi non sfiguravano affatto in scaletta, pur significando l'esclusione di altri ben più noti, Stop Loving You su tutti, ed in quanto a performance e resa audio credo fermamente che, ad oggi, sia il miglior concerto che io abbia mai visto. Altri hanno magari potuto vantare una miglior presenza scenica, qualche effetto visivo in più, ma se parliamo strettamente di musica loro per me rimangono imbattibili.



mercoledì 23 gennaio 2019

Styx - Kilroy Was Here (1983) Recensione

 Quale miglior passatempo in una giornata nevosa se non quello di parlare di uno degli album più controversi mai usciti? Sì certo, l'alternativa sarebbe andare a spalare la suddetta neve, ma quello può aspettare. Dicevamo album controverso, perchè effettivamente di questo si tratta, tanto da portare una band come gli Styx ad un primo scioglimento, oltre che alla fine di una serie di album uno più bello dell'altro. Che dire su Kilroy Was Here? Personalmente credo che sulla carta non si trattasse di un'idea totalmente folle od insensata ai tempi, e che anzi il suo problema più grande stia nella sua realizzazione più che nella sua natura, come invece più volte sostenuto da chiunque negli Styx che non si chiami Dennis DeYoung. L'intento era ovvio: produrre un concept album ambizioso a cui avrebbe seguito una rappresentazione teatrale. Non sarebbe stata la prima volta, basterebbe pensare ai Genesis di The Lamb Lies Down On Broadway o, in tempi allora più recenti, ai Pink Floyd di The Wall; insomma avrebbe avuto senso. Il problema è che l'idea fu di DeYoung, che già stava combattendo contro il resto della band che l'ultima cosa che voleva fare era proprio un concept album, dopo il precedente Paradise Theatre (che però guarda caso rimane il loro album più venduto), e che quindi si è ritrovato quasi in completa solitudine a sviluppare un'idea, con i contributi degli altri che spaziavano dall'appena accettabile al totalmente fuori tema. Questo ha portato l'effettivo album ad essere un prodotto confuso, tanto da arrivare a chiedersi se effettivamente la storia sia anche solo minimamente rilevante ai fini di esso, attestandosi su livelli non dissimili da Paradise Theatre, in cui la "storia" affiorava solo a tratti ed in alcuni brani, non in tutti.   
L'idea di base era di basare l'album in un futuro di profonda crisi, in cui l'ascesa di tale Dr. Righteous (ispirato ai tipici predicatori religiosi americani ed interpretato da James Young), leader del MMM (Majority for Musical Morality) ha portato all'arresto di tutte le rockstar con l'accusa di essere la causa di tutto il degrado, morale e sociale. Ovvio il riferimento all'accusa da parte di certe associazioni religiose nei confronti degli Styx per dei supposti messaggi satanici nascosti nel brano Snowblind del precedente album. Tra le rockstar arrestate c'è Kilroy, interpretato da DeYoung, e tutti questi personaggi vengono rinchiusi in carceri controllate da robot giapponesi. Kilroy riesce a fuggire travestendosi da robot, ed incontra un ribelle chiamato Jonathan Chance (interpretato da Tommy Shaw) con cui trama di riportare alla ribalta il rock. Insomma una trama semplice che però non viene raccontata nel migliore dei modi, lasciando tra l'altro anche un finale non chiarissimo in cui non si capisce se il rock trionfa o semplicemente è un modo di dire "continueremo a lottare"; di fatto facendo intendere che la storia si sia fermata subito dopo la presentazione dei personaggi, non avendo altri elementi narrativi veri e proprio oltre alla fuga di Kilroy dal carcere e all'incontro con Chance.
Volendo c'è un elemento più riflessivo sul come la storia si ripeta, in Haven't We Been Here Before, appena prima del finale, ma a parte questo il resto lascia un po' il tempo che trova, guadagnando giusto un po' in sede live grazie ad un filmato introduttivo e alla rappresentazione visiva di alcuni brani. Spettacoli, quelli live, con un forte elemento teatrale che portò la band ad una crisi interna ed il pubblico a non comprendere né tanto meno apprezzare ciò che si trovavano davanti. 
Ma la musica com'è? Beh, non è il loro album più riuscito senza dubbio. L'apertura di Mr. Roboto, checché se ne dica, la trovo ottima, rivelandosi una delle cose migliori dell'album. Un synth pop con un tono teatrale ed una cantabilità invidiabile e contagiosa: un piccolo capolavoro del pop anni '80. Discorso simile anche se ridimensionato per Don't Let It End, che seppur piacevole rimane in quel terreno più consueto delle ballate tipiche da Cornerstone in poi. Divertente poi la teatrale Heavy Metal Poisoning, il pezzo del Dr. Righteous con tanto di perculante introduzione al contrario in latino ed il magnifico duetto tra DeYoung e Shaw in Haven't We Been Here Before. Il resto effettivamente lascia un po' il tempo che trova, con una Cold War che nonostante il potenziale sembra non andare da nessuna parte (migliorerà nella versione estesa in concerto), e due brani più trascurabili come High Time e Double Life e la pur divertente reprise di Don't Let It End. Nel mezzo c'è Just Get Through This Night, che si trova idealmente in bilico tra le due categorie di brani visti finora, risultando comunque un brano atmosferico ed apprezzabile.
Insomma un bel tonfo dopo l'altissima qualità di Paradise Theatre, che dimostra come la band a quel punto manchi di una direzione generale e condivisa, con DeYoung che tira da una parte e gli altri che tentano di tirare dall'altra senza però offrire valide alternative. Della serie: "non mi piace questa cosa che stiamo facendo" "ok, cosa proponi di fare?" "eh non lo so".
Insomma, non un album brutto, ma un prodotto ben al di sotto delle aspettative, oltre che lontano da quello che avrebbe potuto essere viste le idee messe sul tavolo. Risulta quindi essere un piacevole album pop e niente di più, con i suoi alti e bassi, meritandosi quindi un 6,5 come voto. 

sabato 19 gennaio 2019

George Harrison - Living In The Material World (1973) Recensione

Ufficialmente il secondo album solista di George Harrison se escludiamo il live benefico per il Bangladesh del 1971, arriva ben tre anni dopo il primo All Things Must Pass. Per forza di cose è facile trovarsi a fare paragoni fra questi due lavori, e alla luce di ciò li tolgo subito di mezzo dicendo che sì, ovviamente All Things Must Pass è nettamente superiore a Living In The Material World. Anche vero però che nessun altro album di Harrison raggiunse le vette del suo primo lavoro, quindi si tratta di un discorso di poco senso alla fine. Living In The Material World, così come altri suoi album, si tratta infatti di un lavoro più che buono al di là dei paragoni, che forse ha il suo unico possibile "difetto" o, per meglio dire, aspetto controverso, nella costante tendenza alla predicazione. L'album infatti è in un costante equilibrio tra la critica alla vita materialistica sotto vari aspetti, e l'importante presenza di brani dai toni particolarmente spirituali. Quest'ultimo aspetto in particolare può non essere adatto a tutti i palati, ma personalmente non mi disturba affatto.
L'album inizia con Give Me Love (Give Me Peace On Earth), che oltre ad essere senza dubbio uno dei brani migliori dell'album grazie alla chitarra slide tipica di Harrison ed una serenità che scalda il cuore, fa subito notare quella che è la più grande differenza con All Things Must Pass: la produzione. Se escludiamo un brano a cui arriveremo più avanti, infatti, la produzione non è più opera di Phil Spector, ma di Harrison stesso che, seppur mantenendo un suono caldo ed avvolgente e la presenza di ben due batteristi, si rivela essere senza dubbio più asciutta ed essenziale. Via quindi il wall of sound e spazio ad arrangiamenti più stringati e, spesso, acustici.
Questo finisce per caratterizzare gran parte dell'album, pieno di brani anche più "tranquilli" di Give Me Love. The Light That Has Lighted The World, Who Can See It, Be Here Now, The Day The World Gets Round e That Is All sono tutte canzoni distese che fanno delle pacate melodie tipiche di Harrison il loro punto forte. Questo dona all'album un tono, secondo alcuni, quasi soporifero se confrontato con praticamente tutti gli altri suoi album, e quindi diciamo che bisogna essere nel "mood" adatto per apprezzare queste canzoni, anche per via dei messaggi spirituali di cui si è parlato più su. Non mancano però esempi di brani più vivaci, come la divertente e blueseggiante Sue Me Sue You Blues, ovvio commento alla situazione del suo ex gruppo e la decisione di Paul McCartney di andare in tribunale per sciogliere la band come entità di business. Discorso simile per la title track, altro bel brano vivace il cui titolo spiega più che bene il contenuto, e Don't Let Me Wait Too Long, brano che inaugura una formula che Harrison riproporrà più e più volte in molti suoi pezzi, fatta di melodie cantabili, audaci cambi di accordi e onnipresente melodia di chitarra slide. Nel mezzo c'è Try Some Buy Some, curioso brano inizialmente destinato ad un abortito album di Ronnie Spector, oltre che unico pezzo effettivamente prodotto da Phil Spector. Interessanti poi le bonus track della versione CD in mio possesso, che oltre alla trascurabile Deep Blue può vantare la bella Miss O' Dell, che non avrebbe affatto sfigurato nell'album, ed il singolo Bangladesh, pezzo bandiera del concerto benefico citato poco sopra.
Insomma Living In The Material World non è un album per tutti, ed è facile capire come molti trovino quasi irritanti i brani più spirituali o semplicemente che reputino noioso l'album per via del suo ritmo prevalentemente lento; ma se si sorvola su questi aspetti ci si ritrova davanti un lavoro incredibilmente ben suonato e cantato (forse la migliore prova canora di Harrison), con arrangiamenti mai banali ed una serenità di fondo di cui tutti avremmo molto bisogno ogni tanto.
Come detto, non è il migliore della carriera di Harrison, che rimane All Things Must Pass, ma si tratta senza dubbio di uno dei lavori più solidi e coerenti di una discografia indubbiamente piuttosto altalenante. Un 7,5 come voto.

martedì 15 gennaio 2019

Styx - Pieces Of Eight (1978) Recensione

Spesso visto come l'ultimo album degli Styx con una qualche tendenza "progressiva", si tratta senza dubbio di uno dei loro lavori più solidi e riusciti. Certamente il successivo Cornerstone, specialmente grazie a Babe, proietterà una diversa immagine della band, criticata da molti, apprezzata ugualmente dal sottoscritto.
In Pieces Of Eight regna sovrana senza dubbio l'epicità, sia in termini di scrittura dei brani che negli arrangiamenti, spesso di una pomposità magari difficile da digerire per l'ascoltatore più intellettuale-snob, ma che di fatto ha sempre caratterizzato tanto gli Styx quanto quasi ogni altra band americana dalla simile natura, dai Kansas ai Boston.
Fin dall'apertura con Great White Hope, ritmi martellanti, chitarroni e misurati assoli di synth fanno da corollario alle consuete impeccabili e altissime parti vocali. I'm O.K. sembra quasi essere un mancato inno da stadio, ed è particolarmente efficace la seconda metà, con l'entrata dell'organo a canne che dona maggior epicità ad un brano che effettivamente la "chiamava". Sing For The Day invece, con il suo cantilenante e contagioso ritornello corale ed i suoi squillanti interventi di sintetizzatore, strizza l'occhio ai brani più melodici degli Yes anni '70, cercando al contempo di essere la "nuova" Fooling Yourself (dal precedente The Grand Illusion), senza però riuscirci appieno.
A questo punto ci troviamo di fronte forse alla rappresentazione maestra degli anni '70: una breve introduzione di sintetizzatore, The Message, che lascia poi spazio all'ennesimo brano epico, titolato Lords Of The Ring. Nonostante le premesse per licenziare un brano memorabile ci fossero tutte, a mio parere si tratta del pezzo più debole dell'album, che promette tanto ma, se escludiamo il bell'intermezzo strumentale con tanto di coro, sembra quasi un lampadario barocco che non fa luce. Certo è che in un qualunque altro album, che magari non vanta altri brani di qualità come questo, avrebbe probabilmente fatto tutt'altra impressione.
Infatti è proprio nel secondo lato che, secondo me, l'album decolla in modo veramente incredibile. Fin da subito veniamo spazzati via dall'Hammond distorto di Blue Collar Man, uno dei brani più celebri degli Styx. Sicuramente una delle migliori composizioni di Tommy Shaw, è curioso come il sincopato riff principale, a sua detta, gli sia venuto in mente sentendo il rumore del motore di una barca che non riusciva a partire. Il testimone passa poi di nuovo a Dennis DeYoung con quello che è forse uno dei suoi brani più validi nel suo incontro tra introduzione acustica, impennate elettriche e solite tendenze teatrali: Queen Of Spades. Difficile il compito di seguire Blue Collar Man, ma questo brano ci riesce più che bene, risultando uno dei pezzi più riusciti dell'album. E quando si pensa di aver ormai raggiunto la vetta, ritorna Shaw con la sua Renegade, che con la sua bellissima introduzione a cappella e l'iconico riff funkeggiante a seguire, riesce quasi a superare Blue Collar Man, ed è tutto dire. L'album si chiude con la magnifica title track e la sua coda strumentale, Aku Aku, e sebbene trovi abbastanza inutile quest'ultima, Pieces Of Eight invece chiude l'album nel migliore dei modi, con anche un bell'intermezzo strumentale dal profumo progressivo.
Sebbene molto probabilmente il mio album preferito a firma Styx rimanga Paradise Theatre, questo Pieces Of Eight ha velocemente scavalcato Cornerstone e The Grand Illusion piazzandosi alle spalle del suddetto. Qui il suono Styx raggiunge forse il suo miglior equilibrio tra tutti gli elementi che lo compongono, in un'opera di affinamento dei risultati raggiunti dal precedente "..Illusion" prima di semplificare, in un certo senso, il sound e regalare una manciata di perle pop di lì a poco.
Credo che come voto sia sull'8,5, ma con una seconda facciata che rasenta la perfezione.


sabato 12 gennaio 2019

The Kinks - Lola versus Powerman and the Moneygoround, Part One (1970) Recensione

Dopo due album tranquillamente definibili come "concept", questo Lola (abbreviato per comodità) del 1970 è un'uscita piuttosto particolare. Intendiamoci, il calo generale di qualità nelle composizioni che colpirà la produzione targata Kinks da lì a poco non si è ancora rivelato, però ascoltando questo album in generale sembra non capirsi dove voglia andare a parare.
Gran parte dei brani sembrano focalizzarsi sul mondo dell'industria musicale, come Denmark Street, Get Back In Line, Top Of The Pops, The Moneygoround e This Time Tomorrow, mentre il resto affronta altri svariati argomenti. Il senso all'ascolto è quindi quello di un concept album parziale, non aiutato dal fatto che questi brani siano sparsi nella tracklist e non raggruppati in un lato come invece ad esempio in Ogdens Nut Gone Flake degli Small Faces. Se proprio si volesse trovare una sorta di trait d'union potrebbe essere quello del non voler essere incasellati, o dell'eterno conflitto tra buono e cattivo, in ogni caso temi molto generali che possono finire per sembrare forzati.
Ciò comunque non intacca la generale qualità e godibilità di quello che si rivela essere uno degli album più solidi e maturi ad opera dei Kinks. La prima cosa che si può notare è un parziale distacco da quel pop psichedelico tipicamente inglese che tanto ha caratterizzato gli album da Face To Face ad Arthur. Quindi, con l'esclusione di giusto un paio di brani, le composizioni sono più "serie", mature, più affini ad un certo rock quando non folk, senza barocchismi con clavicembali e ottoni, e con un occhio teso all'America, fuori dal confortevole, anche se spesso più interessante, giardino inglese. Tendenza questa che prenderà definitivamente piede nel successivo Muswell Hillbillies.
C'è da dire che sembra non esserci un singolo brano debole in questo album, sin dall'inizio con The Contenders, brano dalla doppia faccia acustica ed elettrica, il cui tema viene ripreso poi alla fine in Got To Be Free, fino ai brani più spinti e distorti come Rats e Powerman.
I pezzi forti però sono senza dubbio le simili musicalmente Lola e Apeman: entrambi brani tanto noti quanto geniali nell'affrontare temi sicuramente controversi, specialmente per il 1970, e che non dimostrano affatto i quasi cinquant'anni sulle spalle. Uno dei brani che più adoro poi è Strangers, forse il mio preferito ad opera di un Dave Davies sempre più maturo come compositore, che ha dedicato il brano ad un amico d'infanzia morto per overdose. Discorso simile per This Time Tomorrow, brano ad opera di Ray dedicato alla vita in tour, che pur essendo, come Strangers, molto semplice sia come struttura che come arrangiamento, trovo essere molto efficace e memorabile, più di tante altre cose dei Kinks, per tanto che io possa adorarle ugualmente. Bellissime ed emozionanti poi le più lente Get Back In Line e A Long Way From Home, mentre Denmark Street e The Moneygoround portano strenuamente avanti da sole quella linea compositiva di Ray squisitamente inglese fatta di testi affannosamente densi ed una inconfondibile musica dal tono canzonatorio.
Insomma questo Lola sembra quasi essere un album di transizione, perfettamente caduto a cavallo tra due decenni molto diversi, e spesso viene indicato come l'ultimo grande album dei Kinks. Non so se essere d'accordo su quest'ultima affermazione, ma sul fatto che si tratti di un grande album, in grado di stare al passo con la precedente ed incredibile serie di lavori da Face To Face ad Arthur, questo sì. Tristemente, nonostante la presenza di un enigmatico "part one" nel titolo, non ne sarà mai realizzata una seconda parte, che chissà come sarebbe stata nel caso...
Concludendo, se dovessi dare un voto a Lola, penso che si attesterebbe sull'8.


martedì 8 gennaio 2019

Styx - Paradise Theatre (1981) Recensione

Paradise Theatre è il penultimo album prima del primo scioglimento degli Styx, oltre che uno dei miei preferiti. Si tratta a grandi linee di un concept album, formato molto a cuore a Dennis DeYoung, un po' meno agli altri e fonte quindi di vari screzi, pur avendo brani che faticano ad allinearsi con la storia di fondo, e si basa intorno al Paradise Theatre di Chicago, dalla sua fondazione nel 1928 alla chiusura e demolizione del 1958. Tutto questo come metafora del cambio dei tempi, specialmente in America. A quanto pare è anche dell'album più famoso degli Styx, e a mio parere si tratta di un successo più che meritato. L'album infatti scorre in modo pressoché perfetto dall'inizio alla fine, inanellando uno dopo l'altro pezzi diversi fra loro ma di costante qualità. Certamente si tratta di un album quasi interamente votato al pop, tendenza già evidente, e anzi forse ancora più spiccata, nel precedente Cornerstone, ma senza mai cadere nella più totale e zuccherina banalità di molti altri lavori di quei tempi e, specialmente, successivamente. L'inizio con A.D. 1928 introduce l'album con il suo bel tema ricorrente, che fa da introduzione all'energica Rockin' In Paradise, perfetto brano di matrice rock che fa ingranare la marcia giusta all'album. La successiva, e famosissima  Too Much Time On My Hands ammetto che non è tra le mie preferite, pur vantando un arrangiamento piuttosto interessante e delle consuete performance vocali da applausi.
Diverso il discorso per Nothing Ever Goes As Planned, a mio parere una delle vette dell'album con il suo continuo oscillare fra rock, funk, percussioni al limite del reggae e dei bellissimi assoli di chitarra e sax. A mio parere un perfetto esempio di cosa può essere un brano pop, senza comunque mai uscire dai binari dell'ascoltabilità più universale. The Best Of Times è un altro brano di grande fama, che riprende per la prima volta il tema di inizio album e lo espande in una gran bella ballata che sicuramente non brilla per originalità, ma neanche è quella la sua intenzione. Lonely People è un altro gran bel pezzo coinvolgente con un bell'intermezzo inaspettato e ben funziona contestualizzato nell'album. She Cares invece, pur potendo sembrare a prima vista un innocuo brano leggero, sarà per la disarmante sincerità del testo, sarà per le spettacolari armonie vocali di fine ritornello o per quella patina di positivismo che dona al brano una qualità che gli anglofoni definirebbero "uplifting", si rivela essere uno dei miei preferiti dell'album. La qualità si mantiene poi molto alta con la successiva Snowblind, accusata ai tempi di contenere messaggi satanici quando invece altro non è che una canzone contro la cocaina, con i suoi contrasti fra chiaro e scuro ed il suo consueto ottimo assolo centrale.
Altro apice poi con Half-Penny, Two-Penny, che oltre ad essere un brano molto ben costruito e potente, contiene di nuovo un assolo da applausi, e vanta uno dei finali più belli e riusciti che io abbia mai ascoltato. Pian piano il tutto sfuma e ci riporta alla terza reprise del tema principale in A.D. 1958. Il teatro è stato demolito, ma può rimanere vivo finché i ricordi rimarranno con noi. La musichetta di State Street Sadie ci saluta sfumando e congeda questo gran lavoro definitivamente.
Indubbiamente molti reputano decisamente più interessanti gli Styx del "pre-Cornerstone", e posso anche capire il perchè, adorando a mia volta anche quegli album; ma c'è qualcosa in questo Paradise Theatre, nelle singole canzoni, nella produzione, nell'atmosfera, in come l'album è costruito e si evolve nella usa durata, che me lo fa amare più di ogni loro altro lavoro. Che poi si tratti di un album pop, commerciale, o qualunque aggettivo vi venga in mente, poco importa. Certe definizioni lasciano il tempo che trovano di fronte ad un lavoro che semplicemente sa colpire ed emozionare, e questa è la cosa più importante.
Per me si merita un 9 come voto.

domenica 6 gennaio 2019

Syd Barrett - The Madcap Laughs (1970) Recensione

Frutto di svariate session spalmate nell'arco di un anno abbondante, The Madcap Laughs rimane probabilmente una delle più nude e sincere rappresentazioni di Syd Barrett in tutta la sua pura fragilità. Quanto di questa immagine sia vera o creata ad hoc non ci è dato sapere per certo, quel che però traspare dai brani di Madcap è in un certo senso diverso dal più rifinito Barrett o la raccolta postuma Opel. Si tratta di un album piuttosto eterogeneo, non tanto come composizioni, che bene o male si rifanno tutte allo stile scarno tipico Barrettiano, quanto a livello di produzione e arrangiamenti.
Ci furono infatti tre fasi con produttori diversi tra il 1968 ed il 1969: la prima con Peter Jenner, una seconda più sostanziosa con Malcolm Jones, ed una finale più frettolosa con i "vecchi amici" David Gilmour e Roger Waters, impegnati ai tempi con Ummagumma.

Le prime fasi diedero luce ai brani più rifiniti dell'album, quelli in cui l'erraticità di Barrett è meno evidente, anche grazie a musicisti aggiunti, tra cui i Soft Machine. Quando invece subentrarono Gilmour e Waters, sembra quasi che abbiano avuto l'intenzione di alimentare l'immagine di Barrett come "pazzo" o addirittura di penalizzarlo, mettendo su nastro brani scarni, poco rifiniti, take tutt'altro che valide, false partenze e via dicendo.
E questo è sicuramente uno degli aspetti che ha finito per contraddistinguere e caratterizzare più di ogni altra cosa The Madcap Laughs, senza però, a mio parere, essere necessario. I brani meglio rifiniti sono infatti più che buoni quando non ottimi, pur mantenendo la loro natura scarna. Terrapin ad esempio, pur essendo troppo lunga a mio parere, dimostra come una buona take e poche aggiunte possano fare la differenza. Così come i brani "di gruppo" come No Man's Land o No Good Trying, in cui la presenza di un supporto ritmico rende interessante un brano, il secondo in particolare, dalla natura monocorde che avrebbe rischiato di esser quasi noioso altrimenti. Non manca il Barrett più scanzonato in piccoli capolavori come Love You e, specialmente, Octopus, brano il cui testo particolarmente colorato e complesso diede il titolo all'album. E su quest'ultimo in particolare si può notare come l'istintività pura di Barrett lo porti spesso a cambi audaci, specialmente a livello ritmico, che possono sembrare casuali quando non addirittura frutto di errori, ma che ascoltando take alternative si mostrano sempre presenti, e quindi per forza di cose intenzionali. Altro brano particolare è Here I Go, che si distingue da tutti gli altri grazie all'uso di accordi un pelo più complessi del solito, mostrando quindi uno sprazzo di lucidità fuori dal comune. Ho parlato di come la produzione della coppia Gilmour-Waters abbia penalizzato alcuni brani, ed è infatti il caso di She Took A Long Cold Look At Me, Feel e If It's In You, brani palesemente incompiuti che sicuramente mostrano potenziale, annientato però da stecche, rumori di pagine sfogliate, false partenze e conversazioni in studio. Insomma, se tutto l'album fosse stato così avrebbero potuto anche avere senso, ma questo trio di brani messo in coda così dà un po' un senso di fretta che, a mio parere, poco si addice all'album.
Discorso simile per uno dei pezzi forti di Madcap, Dark Globe, la cui scelta della take con Barrett alle prese con una linea vocale troppo alta per lui ha portato sicuramente ad un risultato efficace e struggente, ma ha causato poi vari dubbi a riguardo anni dopo, una volta ascoltata la versione titolata Wouldn't You Miss Me in Opel, cantata più bassa ed in modo molto più preciso. C'è però da dire che la mano dei due Floyd ha comunque contribuito a quelle che a mio parere sono altre due vette importanti dell'album: la fascinosa Golden Hair e la bellissima Long Gone. Late Night, brano strumentale a cui fu aggiunta la voce successivamente, chiude l'album in modo piuttosto efficace.

Un album che rimane comunque il miglior prodotto di Barrett solista, ma che finisce per lasciare un po' di amaro in bocca sia per il discorso della produzione Gilmour-Waters (tra l'altro criticata anche da Malcolm Jones), sia per la scelta di lasciar fuori un brano come Opel, che con un po' di rifiniture avrebbe potuto essere il capolavoro assoluto che solo si intravede nella scarna take acustica uscita nel 1988 nell'album omonimo. 
Madcap è correlato da una delle più iconiche copertine di sempre, ad opera dell'infallibile Mick Rock, con Barrett che decise di pitturare l'intero pavimento del suo appartamento a strisce, dimenticandosi sia di pulirlo prima che di organizzarsi per non rimanere chiuso in un angolo una volta finito di dipingere.
Un album imperfetto, ma che siccome la perfezione, oltre a non esistere in natura, è noiosa, si merita un 8,5.