sabato 18 settembre 2021

Elton John - Regimental Sgt. Zippo (2021 - Registrato nel 1967-68) Recensione

Storia alquanto particolare quella di REGIMENTAL SGT. ZIPPO, di fatto un album rimasto inedito per 53 anni. Già EMPTY SKY, effettivo esordio discografico di Elton John datato 1969, viene oggi poco considerato in favore del successivo ELTON JOHN del 1970, che con la hit Your Song diede il via alla sua carriera di successo, ma ora veniamo a sapere che esiste un album ancora precedente a quello! Per decenni si sono rincorse ipotesi e teorie a riguardo, ma solo il cofanetto JEWEL BOX nel 2020 ha confermato l'esistenza di alcuni brani datati 1967-'68, che a quanto pare furono anche preparati e messi in sequenza per un possibile album. Nel JEWEL BOX trovarono posto tre brani in versione "da band", ed altri otto in versione demo, mentre per il Record Store Day del 2021 ecco che l'intero album (con tutti gli 11 brani in versione definitiva ed un ulteriore inedito) vede la luce, seppur solo in vinile (perché viviamo in tempi intrisi di nonsense dove la musica è un accessorio e l'oggetto la cosa più importante). 

Le prime session ebbero luogo nel Novembre del 1967, periodo in cui venne registrato il brano Nina, e durarono fino ad Aprile dell'anno dopo, periodo in cui Elton fece i suoi primi concerti con il suo nuovo nome d'arte. I brani registrati furono ad un certo punto lasciati da parte, seppur si arrivò effettivamente alla realizzazione di un acetato (aggiudicato per circa 25000 sterline ad un'asta del 2015), preferendo realizzare da zero un altro album, probabilmente su spinta del manager di Elton e Bernie Taupin, che cercò di convincere Dick James (con cui il duo aveva da poco firmato un contratto di publishing) a dare loro la possibilità di affinare il loro nascente talento. Fu così che Elton e Bernie iniziarono a lavorare ad EMPTY SKY, e SGT. ZIPPO rimase negli archivi per più di mezzo secolo. 

Con un titolo che è un ovvio riferimento/tributo al SGT. PEPPER dei Beatles (oltre al vero nome di Elton, Reginald, ed il ruolo militare di suo padre), i dodici brani che compongono questo disco sono totalmente immersi nel sound psichedelico tipico del periodo, con giusto qualche traccia dello stile personale che caratterizzerà i suoi successivi lavori. Via quindi a grandiosi arrangiamenti di archi e fiati a decorare bei brani pop come When I Was Tealby Abbey, ed un stile che prende tanto dagli ovvi Beatles quanto, forse in modo ancora più evidente, dagli Hollies (specie nell'uso delle voci). Bellissima And The Clock Goes Round, specie il ritornello, mentre Turn To Me aveva del potenziale per essere un bel singolo. La title track è forse il brano più carico di cliché, con il suo andamento marziale, i cori sognanti ed effetti psichedelici vari, mentre You'll Be Sorry To See Me Go è uno strano ibrido tra il tipico rock and roll a la Elton John che incontreremo spesso negli anni '70 e lo stile dei Beatles di qualche anno prima. L'arrangiamento estremamente pesante di Nina stupisce per il suo totale contrasto con la natura sentimentale della canzone, ma è anche vero che quelli erano i tempi di McArthur Park, quindi è comprensibile. Non manca il gusto barocco nell'acustica Tartan Coloured Baby, mentre Watching The Planes Go By è una degna ed epica conclusione dell'album, con il suo arrangiamento orchestrale e l'incedere da inno sul finale. 

Forse non un lavoro che avrebbe cambiato la storia della musica se fosse uscito all'epoca, ed è difficile dire quanto avrebbe influito sulla carriera di Elton nel caso. Si nota qualche aspetto ancora acerbo nelle composizioni, ma il risultato non è così lontano da molti album di quel periodo, specialmente inglesi. Sulla produzione non mi esprimo definitivamente, in quanto attendo una versione su CD o perlomeno digitale, vista l'indubbia inferiorità del vinile in termini di resa sonora (ed infatti i brani ascoltati sul JEWEL BOX suonano mediamente meglio), ma l'impressione è di un sound un po' caotico tipico degli album inglesi del periodo (negli USA, tolte le band di natura garage, le produzioni erano tendenzialmente più pulite e curate ai tempi, ovviamente escludendo l'eccezione dei Beatles). Insomma, REGIMENTAL SGT. ZIPPO è una valida ed essenziale aggiunta alla già sostanziosa discografia di Elton John, che permette di comprendere ancora meglio la sua maturazione come compositore (oltre a quella di Bernie Taupin come paroliere), e di ascoltarlo alle prese con uno stile e delle sonorità che mai più toccherà nella sua carriera. Un ascolto consigliato sia ai fan di Elton che a coloro che amano il pop psichedelico anni '60, pur sapendo che ci si troverà per le mani un buon album e non un capolavoro. 






lunedì 13 settembre 2021

The Olivia Tremor Control - Music from the Unrealized Film Script: Dusk at Cubist Castle (1996) Recensione


Gli Olivia Tremor Control furono uno dei gruppi di punta del collettivo di musicisti Elephant 6, oltre a coloro che, in appena due album, hanno forse più di ogni altro esplorato le possibilità del pop d'ispirazione psichedelica portandolo quasi al suo limite, se ne esiste uno. 

La band nasce nei primi anni '90 dall'incontro di Will Cullen Hart, Bill Doss e Jeff Mangum, tutti con alle spalle una serie di particolarissime registrazioni casalinghe sotto vari nomi. Trasferitisi da Ruston, Louisiana ad Athens, Georgia, iniziarono a suonare con il nome Synthetic Flying Machine, cestinando il precedente Cranberry Lifecycle. Inizialmente con Hart alla chitarra, Doss al basso e Mangum alla batteria, si inserirono nella scena locale differenziandosi dall'imperante grunge grazie al loro sound di ispirazione psichedelica, e ben presto, su suggerimento di Mangum, cambiarono ancora nome in The Olivia Tremor Control. Dopo un primo EP intitolato CALIFORNIA DEMISE pubblicato nel 1994, Jeff Mangum abbandona la band per dedicarsi ai suoi Neutral Milk Hotel (nome suggeritogli da Hart), ed entrano così in formazione John Fernandez, Pete Erchick ed Eric Harris. Hart e Doss lavorarono a molti brani in quel periodo, registrandone vari su cassetta con registratori a 4 tracce, e nel 1995 andarono a Denver, Colorado, ad ultimare le registrazioni del loro primo album, nel Pet Sounds Studio di Robert Schneider (produttore e membro fondatore degli Apples in Stereo, altra figura portante dell'Elephant 6), che poi in sostanza era uno studio casalingo dotato di un registratore ad 8 tracce. 

Il risultato uscì nel 1996 con il titolo MUSIC FROM THE UNREALIZED FILM SCRIPT: DUSK AT CUBIST CASTLE, con una bellissima copertina ad opera dello stesso Hart. Tecnicamente si tratta di un album doppio con i suoi ben 74 minuti di durata, ed al suo interno si può trovare una enorme varietà di sonorità, che vanno dal più classico pop beatlesiano alla pura avanguardia, con tutto ciò che ci passa in mezzo. Molti dei brani realizzati da Hart con metodi casalinghi finiranno nell'album con pochissime modifiche e, tenendo conto dei mezzi utilizzati per le registrazioni, la complessità e particolarità del sound finale è a dir poco incredibile. Il titolo suggerisce quella che fu effettivamente l'idea alla base del progetto: la realizzazione di un film, che purtroppo non vide mai la luce. Le canzoni dell'album avrebbero dovuto introdurre i protagonisti della storia, mentre una sequenza più "sperimentale" avrebbe rappresentato dei sogni dei suddetti personaggi. Quest'ultimo aspetto è rappresentato da EXPLANATION: INSTRUMENTAL THEMES AND DREAM SEQUENCES, un album definibile ambient di circa 70 minuti, allegato alle prime 2000 copie di DUSK AT CUBIST CASTLE (poi uscito anche individualmente nel 1998) e, secondo alcune teorie, alimentate anche da messaggi nell'artwork, da ascoltare in contemporanea a quest'ultimo. Personalmente posso dire di aver provato e, effettivamente, suona troppo bene per essere qualcosa di casuale o posticcio. Curiosamente, alcune tracce che fanno riferimento alla "trama" dell'album furono escluse (The Princess Turns The Key to the Cubist Castle, The Giant Day (Dawn) e The Giant Day (Dusk)), per poi trovare posto nell'EP THE GIANT DAY, sempre del 1996 (poi incluso in PRESENTS: SINGLES & BEYOND del 2000). I brani in questione venivano infatti suonati dal vivo in medley con altri dall'album, andando a formare due mini-suite. In tal senso consiglio l'ascolto dell'EP THOSE SESSIONS datato 2000, contenente una registrazione dal vivo realizzata per il programma di John Peel per la BBC, contenente anche le due suddette suite.

  

Il surrealismo stava alla base di molte idee della band, dal magnifico artwork che non si limita alla copertina, alle particolarissime esibizioni dal vivo dell'epoca intrise di dadaismo, fino ai testi. E proprio sui testi ci sarebbe molto da dire, in quanto se si guarda agli anni '90 si nota molta negatività, sarcasmo, disillusione in gran parte della musica tipica dell'epoca, specialmente nella prima metà, mentre con gli Olivia Tremor si ha l'esatto opposto. La gioia e positività dei testi di questo album in particolare (ma non solo) lo distingue da molta musica del periodo, ma anche oggi sarebbe alquanto fuori posto, seppur ce ne sarebbe necessità. Parlavamo delle esibizioni dal vivo poco sopra, ed in questa fase iniziale della band più che successivamente, l'imprevedibilità faceva da padrone. Andare ad un loro concerto poteva significare tanto assistere ad una relativamente "normale" esibizione, quanto trovarsi la band alle prese con quartetti vocali a cappella, interi set fatti di sperimentazioni sonore con nastri, a volte coinvolgendo anche il pubblico.

Doveroso citare ad esempio l'idea di chiedere ai fan di raccontare dei loro sogni, le cui registrazioni venivano poi utilizzate e manipolate dal vivo. L'idea di utilizzare i sogni dei loro fan si dimostrerà poi essere ricorrente in questa fase, in quanto spunterà poi una richiesta analoga tramite un messaggio nell'artwork di CUBIST CASTLE; su ciò si baserà poi il primo album dei Black Swan Network (progetto di natura ambient degli stessi Olivia Tremor), THE LATE MUSIC VOLUME ONE del 1997, mentre ulteriori piccole tracce di ciò si avranno poi nel secondo album degli Olivia Tremor, BLACK FOLIAGE: ANIMATION MUSIC VOLUME ONE del 1999. Tra l'altro, già nell'EP del 1997 THE OLIVIA TREMOR CONTROL / BLACK SWAN NETWORK (conosciuto anche come THE TOUR EP) c'erano tracce che poi sarebbero finite in THE LATE MUSIC (tra cui le suddette registrazioni dei sogni dei fan), intervallate però da momenti più "musicali", che si concludono con Dusk At Cubist Castle Closing Theme, quasi a voler chiudere definitivamente questo capitolo.

Il furore punk di The Opera House apre l'album con energia, e già mette ben in mostra come gli arrangiamenti, anche di canzoni relativamente semplici come questa, siano densi di suoni di ogni tipo, da effettive parti strumentali, a cori, fino a suoni elettronici, percussioni, a creare un sound orchestrale tendente al caos controllato, tendenza questa che verrà affinata ulteriormente nei loro successivi lavori. Frosted Ambassador deve invece molto a certi brani strumentali dei Beach Boys, con però quell'alone di lo-fi a decorare, quasi come se Let's Go Away For Awhile da PET SOUNDS fosse stata registrata nelle session di SMILEY SMILE. Jumping Fences è il trionfo del pop beatlesiano tanto caro al compianto Bill Doss, un magnifico brano che strizza l'occhio anche a My Sweet Lord di George Harrison. E così, senza neanche accorgersene (i brani sono tutti brevi e densi di idee), eccoci nel pieno di un sound a la REVOLVER con Define A Transparent Dream. La cosa innegabile è che queste ovvie ispirazioni mai finiscono con lo scadere in palesi imitazioni da due soldi (come invece succedeva con i sopravvalutati e contemporanei Oasis), ma anzi sembrano quasi estendere quell'idea iniziale verso nuovi territori, più "storti", onirici, imprevedibili. Già dall'album successivo i riferimenti al passato si faranno decisamente meno evidenti. No Growing (Exegesis) è un perfetto quadretto pop con bellissime armonie vocali con ben poco da invidiare al miglior sunshine pop, mentre la successiva Holiday Surprise è il primo brano suddiviso in parti, in questo caso tre. La prima è un altro spettacolare pezzo pop, la seconda è più atmosferica e sperimentale, mentre il finale è più ritmato ed estremamente coinvolgente, la cui coda strumentale finisce nel totale caos di effetti sonori. 

Si torna in pieno in territori sunshine pop con Courtyard, con il suo andamento tra il music hall ed il vaudeville, per poi fare i primi passi verso quella che sarà la sezione più "sperimentale" dell'album con Memories of Jaqueline 1908, che dopo un inizio piuttosto canonico finisce in un mare di kazoo e nastri manipolati, scivolando così in Tropical Bells, trionfo di basso fuzz, percussioni, effetti sonori e chitarre slide degne del miglior Syd Barrett. Tutto ciò porta a Can You Come Down To Us?, brano già presente nelle vecchie cassette dei primi progetti di Will Hart (The Always Red Society), poi notevolmente esteso dal vivo, sede in cui guadagnerà anche un coinvolgente quanto inaspettato beat quasi "disco", qui nell'album appena accennato. Marking Time è un altro bel brano che idealmente chiude la prima parte dell'album in modo sereno e pacato. A questo punto entra la prima delle dieci (!!) parti di Green Typewriters, brano che nella sua totalità supera i 23 minuti ed al suo interno mostra la faccia più avanguardistica degli Olivia Tremor. Attenzione, non siamo di fronte a quasi mezz'ora di suoni e rumori, in quanto le prime parti sono altri frammenti pop di una bellezza assoluta, in particolare la prima parte e la quarta, successivamente il brano inizia gradualmente a discendere verso il puro collage sonoro, il cui picco si ha nei 9 minuti dell'ottava sezione. Con un colpo di genio la nona parte entra senza preavviso con Hart a chiedere "how much longer can I wait?", per poi lasciar spazio ad un bell'assolo di chitarra liberatorio sfociante in altri nastri manipolati ad introdurre il finale acustico. 

Un brano che sicuramente va ascoltato essendo nel giusto "mood", ma la cui costruzione risulta a dir poco magistrale, mettendo anche ben in mostra, forse più di ogni altro brano in questo album, la natura lo-fi di molte delle canzoni qui presenti. Una suite nel vero senso del termine, tra il pop e l'avanguardia, squisitamente psichedelica.

Difficile dar seguito ad un brano del genere, ma l'album è ancora lontano dal concludersi, ed ecco di nuovo Bill Doss con Spring Succeeds, quasi una rassicurazione dopo la follia a cui si è appena assistito, il cui sbarazzino ritmo shuffle sfocia ben presto in una inaspettata sezione più ritmata con fiati ed incroci corali veramente ben realizzati. Dopo l'intermezzo di Theme for A Delicious Grand Piano c'è I Can Smell The Leaves, gran bel pezzo acustico piuttosto breve e sottovalutato che introduce un'ultima sezione di natura, perlomeno parzialmente, sperimentale: Dusk At Cubist Castle. Dopo un'introduzione fatta di suoni, rumori e percussioni, prende spazio una sezione piuttosto ritmata con solamente batteria, basso e voce di Hart, per poi sfociare in un altro collage sonoro non lontano da certe parti di Revolution 9 dei Beatles, forse giusto un pelo meno inquietante. Il trionfo di fiati di The Gravity Car ci riporta sulla terra ed introduce una bellissima sezione cantata con cori che entrano ed escono, mentre l'onore di chiudere l'album spetta a NYC - 25. Uno spettacolare brano pop tra i Beatles ed i migliori ELO, trionfo dello stile tipico di Bill Doss, che con la sua relativa normalità chiude questo lungo album nel migliore dei modi. 

La creatività contenuta in questi 74 minuti di musica e suoni, uniti a tutto ciò che sta intorno e completa l'esperienza di ascolto, è qualcosa di raro se non unico. Il pop nella sua più alta espressione, quella della fine degli anni '60, sia inglese che americano, qui è alla base di una visione allargata, quasi totale della musica, senza però alcun senso di serietà, superiorità, ma anzi con tanta istintività e pura gioia. Gli aspetti più sperimentali verranno senza dubbio meglio implementati nel loro successivo album, ma già qui si incastrano nel contesto sonoro in modo inaspettatamente naturale e non troppo forzato, quasi come se l'anima pop di gran parte dei brani fosse già nativamente pronta ad accogliere certe "derive", a conferma delle possibilità sostanzialmente illimitate di certa musica, mai intrappolata in esibizioni tecniche fine a se stesse e totalmente scevra da ogni forma di ego. Il modo in cui le melodie memorabili dei brani iniziali catturano l'attenzione dell'ascoltatore per poi, molto gradualmente, trasportarlo in sezioni d'avanguardia è magistrale, tanto che l'unico altro esempio che mi viene in mente è il WHITE ALBUM dei Beatles, nel modo in cui si arriva alla già citata Revolution 9, ma anche lì non era così graduale e naturale. Un album che 25 anni dopo la sua uscita è ancora in grado di ispirare ed insegnare molte cose, e che chiunque dovrebbe ascoltare almeno una volta nella vita, perché in fondo tutti avremmo bisogno di positività, di mondi alternativi, di dar peso ai nostri sogni, di prendersi un po' meno sul serio; questo album offre tutto ciò, e anche di più.

Vi lascio il loro sito ufficiale, che vi consiglio caldamente di visitare per capire ancora meglio la filosofia della band. 

What I need is space

And lots of it

Tons and tons of rooms

And lots of them

I'll paint them green and red

And thirty six colors to custom mix

A collection of rugs with tons of tiny tassles

Sharp lines decorative designs

A place to harmonize away from conventional life

A place to radiate

A place to be just me

Return again and again to the giant day inside of my head

Tons and tons of ideas that never take off

It causes the untime

It's all on a different level

And there's so many

The stages are set

Everything is ready

Let the future come

Let the future linger on


Da Green Typewriters

 


lunedì 6 settembre 2021

The Beach Boys - Feel Flows - The Sunflower & Surf's Up Sessions 1969-1971 (2021) Recensione

Dopo un'odissea durata due anni fatta di ritardi, dubbi e chissà quant'altro, finalmente uno dei cofanetti più attesi da molti ha visto la luce. Quando si parla dei Beach Boys di solito si tende a pensare alla loro prima fase surf, magari a PET SOUNDS, al massimo a SMILE, ma il periodo immediatamente successivo tende ad essere ignorato, a torto, dalla stragrande maggioranza della gente. La fase, in un certo senso, DIY formata da SMILEY SMILE, WILD HONEY e FRIENDS dimostra come la band stesse tentando altre vie in modo estremamente personale e, sotto vari aspetti, innovativo. Brian Wilson era tutt'altro che un eremita in quegli anni, ma è anche vero che il crescente contributo dei compagni di band ha fatto sì che il leader indiscusso fino a quel momento diventasse quasi semplicemente "un altro membro dei Beach Boys". Dennis Wilson sbocciò inaspettatamente come compositore, lo stesso, seppur in misura minore, successe per il fratello Carl, che contribuì molto anche come produttore, più spazio venne dato a Bruce Johnston, e anche Al Jardine e Mike Love non rimasero indietro. 20/20 nel 1969 fu un album di gruppo più di ogni altro prima, e questa tendenza proseguì, con risultati ancora migliori, in SUNFLOWER.

Dopo un complicato periodo caratterizzato dal passaggio dalla Capitol alla Warner, da un cambio di manager, da una serie di album rifiutati e da chissà quant'altro, questa fase della band è forse la più sottovalutata in assoluto (consiglio, se interessati, la lettura del mio libro The Beach Boys & Brian Wilson - Le Opere Perdute, in cui scendo più nel dettaglio anche su questo periodo, seppur parte del contenuto risulti ora un po' obsoleto alla luce delle rivelazioni di questo boxset). SUNFLOWER fu un fallimento commerciale, mentre il successivo SURF'S UP suscitò un po' più di interesse, se non altro per l'inclusione dell'omonimo brano proveniente dalle session di SMILE; ma ciò non toglie il fatto che questi due album furono irreperibili per interi decenni, in quanto non considerati degni d'interesse abbastanza da esser tenuti in vendita. 

Questo criminale errore di valutazione, per fortuna, è stato rettificato negli anni, fino ad oggi, con questo FEEL FLOWS che celebra degnamente questa fase della storia dei Beach Boys. 

Premessa: non posseggo il cofanetto fisico, quindi parlerò del contenuto musicale così come appare nei siti di streaming.

Ulteriore premessa: non recensirò gli album SUNFLOWER e SURF'S UP in quanto presumo che chi legge questo articolo già li conosca e, soprattutto, perché meriterebbero eventualmente più spazio individualmente. 

Dunque, il contenuto è suddiviso in cinque dischi, andiamo a vederli ad uno ad uno.

DISCO 1

Subito troviamo una nuova rimasterizzazione di SUNFLOWER, che se da un lato non si può dire che suoni male, dall'altro si ha come l'impressione che pecchi un po' di una sovrabbondanza di frequenze alte, fruscii, insomma è un pelo troppo brillante. "Difetto" questo che si estende un po' a tutto il contenuto del cofanetto, seppur in misura minore, ma è particolarmente evidente qui. Subito dopo la fine dell'album, curiosamente, troviamo una selezione di performance live di brani estratti da esso, seguita da una manciata di tracce bonus. Personalmente avrei invertito le due cose, se non altro per non ascoltare prima una versione dal vivo di un brano poi presente in versione studio successivamente (Susie Cincinnati, ad esempio), ma sono piccolezze. I brani live sono presi da varie epoche, e segnalo in particolare una carichissima versione di This Whole World del 1988, seppure il resto non sia da meno. (It's About Time del 1971 con i fiati è veramente spettacolare). Le altre tracce bonus sono di varia provenienza, tra singoli, lati b e scarti: dalla bellissima Breakaway al piccolo capolavoro di Dennis San Miguel, fino alla divertente Loop De Loop, per anni ascoltata in bootleg in pessima qualità, ora finalmente in una veste degna. 

DISCO 2

Come nel primo, troviamo innanzitutto la versione rimasterizzata di SURF'S UP, poi qualche traccia live e altre bonus. In questo caso il nuovo master non è brillante come quello di SUNFLOWER, ed il che è un'ottima cosa. Le tracce live sono di nuovo ottime, e spiccano senza dubbio una energica versione di Long Promised Road datata 1972 ed una inaspettatamente fedele Surf's Up datata 1973 (a riprova della spettacolare veste live della band in quegli anni, che speriamo venga adeguatamente celebrata nel prossimo cofanetto). Tra le bonus è benvenuta la prima versione di Big Sur (poi rielaborata in HOLLAND) finalmente in ottima qualità, la particolare Sweet And Bitter, la esilarante ed oscura My Solution, e poi il trittico di composizioni di Dennis Wilson 4th of July, Sound Of Free e Lady (Fallin' In Love), primo esempio del suo sottovalutatissimo (in questa fase) talento. Su questo ultimo punto vorrei far notare che in SUNFLOWER ci sono quattro brani di Dennis, in SURF'S UP nessuno, ma come iniziamo a vedere qui e vedremo anche più avanti, il materiale non mancava affatto.

DISCO 3

In questo CD troviamo una lunga serie di estratti dalle session di SUNFLOWER e relative tracce bonus. Quindi via a versioni alternative, strumentali, a cappella, primordiali, false partenze, e chi più ne ha più ne metta. Impossibile scendere nel dettaglio, ma basti dire che il disco offre un affascinante ed inedito punto di vista sull'album. Le session di Forever, la sezione archi isolata di Our Sweet Love, la versione estesa di This Whole World, tutti gli estratti delle armonie vocali, c'è veramente tanto di cui gioire. 

DISCO 4

Stesso discorso, questa volta per SURF'S UP. Particolarmente interessante rivalutare brani come Don't Go Near The Water e Take A Load Off Your Feet grazie a queste versioni dove si possono apprezzare strumenti e voci separatamente, mentre la versione estesa di 'Till I Die, seppur non raggiunga l'originale, è uno spettacolo, e vanta oltretutto anche un inedito testo alternativo. In questo disco trovano spazio anche una manciata di ulteriori tracce bonus, come il capolavoro (Wouldn't It Be Nice To) Live Again in versione estesa a quasi 7 minuti, brano di Dennis che inizialmente avrebbe dovuto chiudere l'album, poi scartato in favore di Surf's Up, la curiosa e briosa I Just Got My Pay, Walkin' (uno dei primi esempi della fissazione di Brian Wilson per il brano Shortenin' Bread) e la bellissima Awake

DISCO 5

Forse il CD più interessante dell'intero cofanetto, in quanto quasi interamente dedicato a brani inediti. La versione con finale alternativo e take vocale diversa di This Whole World apre degnamente il tutto, mentre si fa notare un nuovo mix di Soulful Old Man Sunshine, brano meritevole di maggior fortuna, la bella Where Is She (quasi la versione di Brian di She's Leaving Home dei Beatles), il demo e poi la versione "di gruppo" di Won't You Tell Me, perla inaspettata con un Brian Wilson in formissima (divertente quanto amaro sentire suo padre Murry dire durante la session che è la cosa migliore che abbiano fatto negli ultimi 5 anni, conoscendo la storia della band). Gran parte del disco è però occupato da brani di Dennis Wilson, a volte quasi completi, a volte appena accennati, ma tutti carichi di quel suo istintivo ed innegabile talento. Il medley All My Love/Ecology è a dir poco spettacolare, seguito a ruota da Old Movie, versione primordiale senza parole di Cuddle Up, poi nel successivo CARL & THE PASSIONS, con commoventi armonie vocali a riempire. Ci sono poi l'intensa Barbara, Behold The Night, il tutto in una sorta di lungo medley dedicato a Dennis, a riprova del suo a lungo ignorato talento, qui finalmente libero di brillare, seppur a distanza di decenni. 

Insomma la carne sul fuoco è tanta, e posso solo immaginare il contenuto del libro allegato al cofanetto fisico, ma si sa, ormai la musica passa dall'essere gratuita all'esser bene di lusso senza  praticamente nulla nel mezzo. Detto ciò, veder finalmente degnamente celebrate fasi da sempre ignorate e terribilmente sottovalutate della carriera dai Beach Boys non può che render felice un fan come il sottoscritto, e se da un lato ho comunque la certezza che ad interessarsi saranno principalmente gli appassionati che già conoscono molte di queste cose, dall'altro una piccola parte di me spera che qualcun altro possa finalmente scoprire quanto questa band aveva da offrire ai tempi. Quindi, non posso che consigliare l'ascolto a chiunque, fan e non; e ora aspettiamo di vedere cosa accadrà con la fase successiva. 

giovedì 2 settembre 2021

Micky Dolenz - Dolenz Sings Nesmith (2021) Recensione


Uno dei due Monkees superstiti alle prese con un album di cover di brani composti dall'unico altro membro dei Monkees superstite? Sì, avete letto bene, e sì, si tratta della migliore uscita discografica Monkees-related da molti anni a questa parte. Ma andiamo con ordine.

Micky Dolenz è da sempre dotato di una voce spettacolare, criminalmente sottovalutata nel panorama musicale pop-rock, incredibilmente versatile e potente ancora oggi; Michael Nesmith invece, nonostante ancora oggi c'è chi vede i Monkees come dei semplici attori che facevano finta di suonare, è da sempre un compositore con i contro-cosiddetti, sia all'interno della suddetta band che nella sua sottovalutata carriera solista più di stampo country. L'idea è quindi stata quella di selezionare una manciata di brani ad opera di Nesmith, riarrangiarli (a volte anche pesantemente, grazie al contributo di Christian Nesmith, produttore e figlio di Michael), e riproporli con la voce di Dolenz. Il tutto con un titolo ed una copertina che rimanda a quel capolavoro di NILSSON SINGS NEWMAN di Harry Nilsson, quest'ultimo grande amico di Dolenz. Se a ciò aggiungiamo una spettacolare produzione che sfodera grande dinamica ed assenza di autotune (sì, guardo proprio te, GOOD TIMES!), ed il che oggi è una rarità in qualunque genere, le premesse per un piccolo capolavoro ci sono tutte!

Certo, non aspettatevi le hit dei Monkees riproposte in diversa veste, qui solo una manciata di brani dell'epoca trovano posto, e sono relativi "deep cuts", il resto proviene dalla carriera solista di Nesmith. Ad aprire tocca a Carlisle Wheeling, brano del 1967 scartato da THE BIRDS, THE BEES & THE MONKEES, che mantiene il suo andamento country, ma viene arricchito da un'introduzione di quartetto d'archi ed intermezzi psichedelici tanto inaspettati quanto benvenuti. Tocca poi a Different Drum, brano storico di Nesmith reso famoso da Linda Ronstadt, rirpoposto abbastanza fedelmente, giusto un po' più ritmato, mentre Don't Wait For Me, dall'album INSTANT REPLAY dei Monkees, è qui riarrangiata solo per chitarra e voce con ritmo più sostenuto. Con Keep On facciamo un salto nel pieno degli anni '70, dall'album AND THE HITS JUST KEEP ON COMING, tipico brano country qui con un arrangiamento ben più potente e grandioso, più rock, con un organo Hammond in evidenza ed il bell'effetto Leslie sulla voce nei ritornelli: una grande versione. Discorso al rovescio per Marie's Theme, dal successivo album PRETTY MUCH YOUR STANDARD RANCH STASH, che qui perde l'Hammond, si colora di strumenti acustici, un ritmo diverso ed una spettacolare lap steel ben in evidenza. La bellissima Nine Times Blue, scarto dei Monkees datato 1968 poi riproposto da Mike nel suo album MAGNETIC SOUTH, qui è stata riarrangiata solo per piano e voce, con una spettacolare performance di Dolenz, e messa in totale contrasto, senza alcuna pausa, con la successiva Little Red Rider, tratta dallo stesso album e qui indurita non poco, trasformata quasi in un brano hard rock con tanto di assolo di Hammond a la Deep Purple. Con questi due brani, senza nulla togliere ai precedenti, l'album inizia a prendere quota verso livelli altissimi. Tomorrow And Me, di nuovo da AND THE HITS..., è una gradita pausa per tirare il fiato, rallentata e con un bellissimi interventi di violino, prima dell'entrata di Circle Sky. Uno dei brani di punta del controverso e folle HEAD dei Monkees, qui è pesantemente stravolto e trasformato in una sorta di raga indiano, scelta tanto coraggiosa quanto incredibilmente riuscita, che oltretutto aggiunge ulteriore varietà e colore sonoro ad un album la cui produzione ed arrangiamenti già fin qui erano stati da applausi. Propinquity (I've Just Begun To Care), altro scarto dei Monkees di stampo country del 1968, poi riproposto da Nesmith nell'album NEVADA FIGHTER  del 1971, qui si guadagna un andamento più pop-rock radiofonico, ed è un'altra gradita pausa prima dell'altro indiscutibile capolavoro dell'album. Tapioca Tundra è sempre stato uno dei più bei brani composti da Nesmith, presente in THE BIRDS, THE BEES & THE MONKEES del 1968, qui viene riproposto in un arrangiamento che definire eclettico sarebbe riduttivo. Dopo un inizio sospeso con tanto di theremin il brano decolla cambiando continuamente tempo tra 3/4 e 4/4, con un Dolenz in formissima, bellissimi cori che entrano ed escono in continuazione, ed un finale epico che sembra quasi uscire da ABBEY ROAD dei Beatles. Difficile dare seguito ad un brano del genere, ma ci prova Only Bound, di nuovo da NEVADA FIGHTER, altro bellissimo brano country qui rallentato e disteso, quasi come la calma dopo la tempesta, seppur a sua volta vanti inaspettati interventi corali (colorati di Leslie), che accompagnano il brano alla chiusura sfumando tra fiumi di phaser, per poi trasformarsi in You Are My One (l'originale, da TANTAMOUNT TO TREASON, VOLUME ONE del 1972, era a sua volta immersa nel phaser), qui solamente citata per poco più di un minuto quasi come una ripresa dopo il falso fade-out di Only Bound. Un'altra inaspettata trovata che chiude un altrettanto inaspettato piccolo capolavoro di album.

Devo ammettere che gli album di cover raramente mi interessano: devo essere fissato con l'interprete che decide di farlo, mi devono perlomeno piacere o interessare le canzoni reinterpretate, devono avere qualcosa in più da offrire nella loro nuova veste, insomma non è un'operazione facile. LONG WAVE di Jeff Lynne, nella sua estrema brevità, rimane uno dei miei preferiti, mentre il recente IN TRANSLATION di Peter Hammill, con tutto il rispetto, personalmente l'ho trovato di una tristezza tanto di moda di sti tempi quanto odiata dal sottoscritto (abbiamo veramente bisogno di altra negatività di sti tempi?). Limiti miei, senza dubbio, ma DOLENZ SINGS NESMITH è una gioia dal primo ascolto, ed una volta ultimato viene immediatamente voglia di rimetterlo da capo. Si dimostra in grado sia di ribadire le doti compositive di Michael Nesmith, sia quelle interpretative di Micky Dolenz, tutt'altro che intaccate dall'età. Un album passato enormemente in sordina anche per via della perdurante (e falsa) fama di "non musicisti" che ancora oggi grava sulla musica ed i membri dei Monkees. Un plauso va poi fatto a Christian Nesmith, la cui produzione e gli arrangiamenti "fanno" l'album tanto quanto la voce di Dolenz, e gli regalano un suono caldo, potente e vario che pochissimi album di nuova uscita possono vantare. 

Probabilmente una delle più inaspettate e gradite sorprese discografiche di quest'anno. Consigliatissimo a chiunque ami la musica in generale.