mercoledì 30 dicembre 2020

The Monkees - The Birds, The Bees & The Monkees (1968) Recensione


I Monkees non hanno bisogno di presentazioni, dalle due stagioni della leggendaria sitcom fino alle svariate hit dei loro primi album, chiunque li conosce (forse meno in Italia tolte un paio di canzoni, ma la cosa non mi stupisce affatto...). Dopo una prima fase da "semplici" attori ed interpreti di canzoni composte e suonate da altri, dal terzo album, Headquarters, i Monkees hanno iniziato ad imporre le proprie idee con ottimi risultati. Dopo un altro ottimo album, Pisces, Acquarius, Capricorn & Jones Ltd. nel 1967, dove tra l'altro furono tra i primi ad usare un Moog, la serie TV viene cancellata e la band inizia a frammentarsi via via. Nel 1968 già si sta pensando al film Head, ideale conclusione della loro incredibile parabola (nonostante gli seguiranno altri album a nome Monkees, pur con il graduale abbandono di vari membri), ma nel frattempo uscì un altro album. The Birds, The Bees & The Monkees è quasi il White Album dei Monkees, dove tutti i membri lavorano spesso in solitudine (Chip Douglas, ex membro dei Turtles, produsse i due album precedenti, ma venne licenziato proprio in questo periodo), supervisionando e producendo individualmente le proprie, diversissime, canzoni, e di fatto spingendo il povero Peter Tork ai margini, non includendo nessuna delle sue canzoni. 
Micky Dolenz, dopo aver cantato gran parte delle canzoni dei primi album, fa qualche passo indietro cantando solamente tre brani, tra cui la curiosa e marziale Zoe and Zam, piazzata in chiusura dell'album, e la più psichedelica P.O. Box 9807. Davy Jones invece si conferma come interprete di ballate romantiche, oltre che di uno dei più grandi successi dei Monkees (risalente all'anno prima ma inserito in quest'album per qualche motivo), la bellissima Daydream Believer. 
Chi invece fa passi avanti enormi è Michael Nesmith, qui nel pieno della sua breve fase psichedelica più sperimentale, come testimoniato dalla pesante Writing Wrongs, con al suo interno un lungo intermezzo strumentale, o Magnolia Simms, brano stile anni '20 mixato in mono con svariati glitch sonori ad aumentare il feel "d'epoca" (curiosa la scelta, nelle versioni stereo dell'album, di piazzare la canzone esclusivamente nel canale sinistro). Che dire poi della sua Tapioca Tundra, bellissimo poema messo in musica, tra i suoi brani migliori in assoluto. Sono svariate le outtake dell'epoca, in quanto ci fu l'intenzione, ad un certo punto, di realizzare un album doppio, tra cui anche i brani di Tork, come Alvin (breve e divertente intermezzo parlato sullo stile di altri presenti in album precedenti) o Lady's Baby, mentre altre troveranno posto nel successivo Head, dove ben tre brani saranno ad opera sua, in un non dichiarato disperato tentativo di scongiurare un suo abbandono che comunque avverrà a fine '68.
Questo album è il primo a non raggiungere il primo posto in classifica, sicuramente penalizzato dalla mancata realizzazione della terza stagione della serie TV. Si tratta di un album schizofrenico, dalle diverse anime in totale contrasto tra loro, ed è difficile vederlo come un lavoro di una band, come invece fu per il precedente Pisces e, soprattutto, Headquarters, vero e proprio picco dei Monkees come vera e propria band. I brani di Nesmith elevano notevolmente il livello generale, ed è un peccato pensare che di lì a poco decise di dedicare il suo talento compositivo quasi esclusivamente al, pur ottimo, country, in quanto le sue idee in ambito psichedelico furono notevoli. 
Insomma, per chi vuole sentire i Monkees oltre alla celeberrima I'm A Believer, questo album è consigliatissimo, insieme ai due precedenti. 
Ma poi, chi critica i Monkees in quanto band costruita a tavolino che non suonava gli strumenti e non scriveva le canzoni (cosa comunque non vera dal terzo album in poi), riesce ad avere un minimo di coerenza e criticare, di conseguenza, TUTTI gli interpreti? No, perchè se un artista non è valido perchè non suona gli strumenti negli album e non scrive le canzoni, limitandosi a cantarle, allora dovreste demolire di critiche anche Elvis Presley, per dire... O perchè non i 5th Dimension, in quanto la loro celeberrima The Age Of Acquarius / Let The Sunshine In, tra le altre, fu scritta da compositori esterni e suonata dalla Wrecking Crew? Non mi pare che ciò succeda. Perchè?
I gusti sono una cosa, le critiche oggettive un'altra, impariamo a separare le due cose. 



lunedì 28 dicembre 2020

Queen - Live in Long Beach (Dec. 20 1977) Mike Millard Master - Recensione


Mike Millard non ha bisogno di presentazioni per chi ha una vaga conoscenza del mondo dei bootleg, ma per chi non lo conoscesse, basti dire che è stato artefice di alcune delle registrazioni di concerti più leggendarie degli anni '70 e non solo, tutti registrati a grandi linee nell'area di Los Angeles. 
Basti nominare Listen To This Eddie dei Led Zeppelin, registrato il 21 Giugno 1977 al Forum di LA per avere un'idea dell'impressionante qualità sonora delle sue registrazioni. Lui è purtroppo venuto a mancare anni fa, ma nell'ultimo anno c'è chi è riuscito a metter mano, con il permesso della madre, su una gran quantità di suoi nastri rimasti inediti fino ad ora. Si va da concerti già noti di qualità migliore, avendo ora a disposizione i nastri originali (finora le versioni diffuse erano copie di copie, e si sa quanto cali la quantità ad ogni ulteriore copia di un nastro), a concerti effettivamente mai ascoltati prima. Ed è il caso di questo concerto del 20 Dicembre 1977 a Long Beach dei Queen, impegnati nel loro tour a supporto di News Of The World. Già avevamo a disposizione un'ottima registrazione di quel periodo, tra l'altro da mixer ed anche in video, quella di Houston dell'11 Dicembre, ma questo nuovo concerto ha parecchi punti di interesse anche per chi già conosce Houston. 

La scaletta è sostanzialmente la stessa, a sua volta purtroppo orfana di due nuovi brani suonati in quel periodo, Spread Your Wings e It's Late, ma con in più rispetto a Houston la reprise del finale di Prophet's Song, suonata dopo il canonico assolo di Brian dopo White Man (a Houston invece ci attaccarono subito Now I'm Here). Il resto della scaletta è sostanzialmente identica, con l'esordio dei classici We Will Rock You (suonata parziale all'inizio seguita dalla versione "rock" e poi di nuovo alla fine) e We Are The Champions, oltre alla magnifica My Melancholy Blues, una breve versione di Sheer Heart Attack ad introdurre le ultime apparizioni del medley rock n' roll come bis finale, e l'entrata della poi importantissima Love Of My Life suonata nel set acustico. 
Se da una parte Houston vanta una qualità sonora migliore, ci troviamo comunque di fronte ad una delle migliori registrazioni del pubblico in assoluto, con ogni strumento ben evidente ed una resa chiara, potente e piacevole all'ascolto. E se ad Houston Brian ebbe non pochi problemi tecnici (da corde rotte a veri e propri errori nel suonare alcune parti), qui ci regala un'ottima performance, così come le solite "rocce" Taylor e Deacon, ma chi brilla veramente di una luce accecante qui è Freddie. Se Houston ha una performance particolarmente solida e "pulita", a Long Beach viene tolto qualche freno in più, abbandonando più volte il suo noto approccio "conservatore" nella scelta delle note da cantare, e andando a tentare di raggiungere picchi vocali per lui rari in concerto. Purtroppo i suoi noti problemi con i noduli alle corde vocali portano la voce a rompersi in alcuni di questi casi, ma la carica e l'audacia rara dimostrata qui è abbastanza per rendere questo concerto uno dei più eccitanti e coinvolgenti in assoluto, non solo di quest'epoca. Se si vuole un esempio di ciò, basti ascoltare la prima sezione dei Bohemian Rhapsody, che vanta un'intensità che quasi supera la versione in studio, ma gli esempi sarebbero veramente tanti, in quanto ogni brano è suonato e cantato in modo magistrale. 
E chissà se Millard ha registrato anche la leggendaria ultima data di quell'anno di due giorni dopo?
Insomma è forse preoccupante se, per chi scrive, un bootleg del 1977 risulta essere una delle uscite più interessanti di questo 2020, ma che ci possiamo fare? 
Se siete fan dei Queen ascoltatevelo, non ve ne pentirete.
La scaletta è la seguente: 

1. We Will Rock You (Slow) 
2. We Will Rock You (Fast) 
3. Brighton Rock 
4. Somebody to Love 
5. Death On Two Legs 
6. Killer Queen 
7. Good Old-Fashioned Lover Boy 
8. I'm In Love With My Car 
9. Get Down, Make Love 
10. The Millionaire Waltz 
11. You're My Best Friend 
12. Liar 
13. Love of My Life 
14. '39 
15. My Melancholy Blues 
16. White Man 
17. Vocal Improv 
18. Guitar Solo 
19. The Prophet's Song (Reprise) 
20. Now I'm Here 
21. Stone Cold Crazy 
22. Bohemian Rhapsody 
23. Keep Yourself Alive 
24. Tie Your Mother Down 
25. We Will Rock You
26. We Are the Champions 
27. Sheer Heart Attack 
28. Jailhouse Rock 
29. God Save the Queen 


martedì 22 dicembre 2020

Paul McCartney - McCartney III (2020) Recensione


Inaspettatamente, dopo soli due anni dal precedente, ecco che Paul McCartney torna a regalarci nuova musica. Comprensibilmente il lockdown (o meglio, la mancanza di altri impegni come i tour) ha "aiutato", ed infatti ciò che ne è uscito è un lavoro sostanzialmente casalingo, realizzato in grandissima parte in solitudine. Con i due precedenti volumi della "serie" McCartney condivide l'anima DIY, la maggiore libertà rispetto agli altri suoi album canonici, e probabilmente l'esser nato in una situazione particolarmente traumatica (il primo dopo lo scioglimento dei Beatles, il secondo dopo quello dei Wings, ed il terzo durante una pandemia), ma anche delle sostanziali differenze. Se nei due precedenti la totale libertà ha portato ad una serie di brani a volte azzardati, con il loro fascino ma forse non così memorabili, in McCartney III sembra che il tutto sia meglio sviluppato, più solido ed in grado di combinare in modo equilibrato libertà, sperimentazione e puro e semplice piacere d'ascolto. Certo, la sua voce non è più quella di una volta, e vorrei ben vedere, ma il puro e semplice senso di divertimento che sta alle spalle della creazione di questi brani è qualcosa che tanto mancava nei suoi ultimi lavori, comunque ottimi ma sempre filtrati attraverso il lavoro di questo o quel produttore "in" del momento. Qui è lui stesso a produrre, ed infatti per fortuna non ci sono bizzarri tentativi di brani da classifica (tipo l'orrida Fuh You del precedente, altrimenti ottimo, Egypt Station). 

Già iniziare l'album con una estesa jam quasi totalmente strumentale è forse una delle scelte più audaci mai fatte da Paul in un suo album e, nonostante la sua ripetitività, Long Tailed Winter Bird cattura in modo totalmente inaspettato. Ovviamente ci sono i brani più "convenzionali", come il singolo Find My Way o l'ottima Seize The Day, quest'ultimo in particolare uno dei suoi brani puramente pop migliori degli ultimi anni (lassù con New e Queenie Eye), intervallati da bei brani acustici (la discreta Pretty Boy e l'ottima The Kiss Of Venus, oltre alla conclusiva When Winter Comes, che in realtà risale al 1992). L'anima più sperimentale dell'album è perfettamente rappresentata da Deep Deep Feeling, inaspettato mantra da oltre 8 minuti che se dapprima lascia perplessi, pian piano con il suo mirabile svolgimento non può lasciare indifferenti. Qui torna il Paul più audace, quello di Electric Arguments del progetto Fireman, e lo fa con una classe inarrivabile. Ci sono poi parentesi più vivaci come l'acida Lavatory Lil o la distorta Slidin', quest'ultima l'unica ad avere altri musicisti aggiunti (Rusty Anderson alla chitarra e Abe Laboriel Jr. alla batteria). Deep Down scarta un'ultima carta più sperimentale, e forse non raggiunge i livelli di Deep Deep Feeling, ma si lascia apprezzare, mentre la particolare Women And Wives ha un fascino tutto suo.


Ma dunque è meglio o peggio dei suoi ultimi album? E dei primi due capitoli della trilogia "McCartney"? Beh, meglio dei primi due McCartney in generale direi senza dubbio di sì, che se da un lato mancano pezzi forti come Maybe I'm Amazed o Coming Up, dall'altro c'è una generale solidità e coerenza che nei primi due manca totalmente. Se invece lo rapportiamo a Egypt Station o a New il discorso si fa più complesso. Si tratta di un lavoro diverso nella natura e nei risultati; è un album che non cerca di essere nulla se non il risultato del puro divertimento nel proprio studio casalingo, laddove nei precedenti album convivevano anime diverse, dalla legittima autocitazione alla ricerca della hit radiofonica. Egypt Station mi ha colpito all'uscita, ma a posteriori si è "sgonfiato" molto (complice la discutibile produzione), a differenza di New che, pur mantenendo gli stessi punti deboli che ho notato all'uscita, sembra reggere generalmente meglio. Questo McCartney III rappresenta forse la direzione su cui vorrei si mantenesse in eventuali futuri lavori, in quanto in questa fase "matura" della sua carriera sembra funzionare particolarmente bene. Non necessariamente senza un produttore, ma comunque con più libertà, più DIY, e non per nulla credo che, in generale, possa essere il suo album che preferisco da Chaos And Creation In The Backyard, forse il suo ultimo vero capolavoro (che infatti fu suonato in gran parte da Paul stesso). 

In definitiva l'ennesima conferma di come certi personaggi non ne vogliano proprio sapere di fermarsi, anche se ormai non hanno più nulla da dover dimostrare (vedasi i Deep Purple o gli Sparks). Ed è proprio questa voglia di fare, questo continuo sgorgare di idee, indipendentemente dal fatto che siano o meno altrettanto buone di quelle avute cinquant'anni fa, che ci dovrebbe render felici a prescindere di assistere alla pubblicazione di questo genere di album. Che poi sia anche ottimo è solamente un valore aggiunto.   




martedì 15 dicembre 2020

Harry Nilsson - Tutti gli album dal "peggiore" al migliore


La discografia di Harry Nilsson è probabilmente una delle più interessanti e piacevoli che mi sia capitato di ascoltare, sia per qualità che per varietà (in questo l'ottimo cofanetto The RCA Album Collection ha aiutato parecchio). Indubbiamente ci sono stati periodi particolarmente floridi ed altri più aridi, ma in generale c'è sempre qualche punto degno di nota in ogni suo lavoro. Dal fascinoso pop barocco tra il music hall ed il vaudeville degli esordi alla pura e semplice goliardia degli anni '70, ce n'è per tutti i gusti. Quindi, per puro divertimento, o come semplice pretesto per parlarne un po', ho pensato di raccogliere tutti i suoi album e di organizzarli in una personalissima classifica di gradimento. Il tutto è ovviamente discutibilissimo, ma non è affatto una gara, e soprattutto non ci sono album "brutti". 

Detto ciò, iniziamo:

  • Flash Harry (1980)

Ed iniziamo proprio dalla fine della sua carriera discografica vera e propria mentre era ancora in vita (se si escludono canzoni sparse per varie colonne sonore ed il non ultimato ultimo album, uscito poi postumo). Dopo il fallito tentativo di "ritorno" con l'ottimo Knnilssonn nel 1977, Harry viene scaricato dalla RCA, di fatto finendo per affidare un ultimo album alla Mercury, che però lo pubblicò solo in alcuni Paesi. Flash Harry è una strana raccolta di canzoni curiosamente aperta dalla divertente Harry, cantata da Eric Idle. Nonostante l'ottima produzione e qualche buon brano (come la cover di Old Dirt Road dell'amico John Lennon), l'album lascia un po' il tempo che trova, finendo nella categoria "curiosità" strettamente per i fan.


  • Spotlight on Nilsson (1966)
Considerato come il suo album d'esordio, in realtà altro non è che una breve raccolta di singoli, in gran parte cover, registrati nella primissima fase della sua carriera a metà anni '60. C'è molto r&b, e la sua iconica voce si sta ancora formando, ma si tratta comunque di un ascolto perlomeno interessante. Uno di questi brani, Good Times, verrà coverizzato dai due rimanenti Monkees (Micky Dolenz e Michael Nesmith) nel loro omonimo album del 2016, mantenendo anche un intervento vocale del giovanissimo Harry. 

  • Skidoo (1968) 
Colonna sonora dell'omonimo film, interamente composta da Harry ed arrangiata da George Tipton, già collaboratore per i due album che lo precedettero, è in gran parte strumentale, ma il punto di interesse sono i tre brani cantati. I Will Take You There sarebbe potuta esser parte di un qualunque altro suo album dell'epoca senza sfigurare, così come la vivace Garbage Can Ballet, mentre The Cast and the Crew, brano d'apertura in cui Harry canta i crediti del film, è semplicemente geniale. Purtroppo, vista la sua natura, è difficile che si ascolti il resto dell'album. Motivo per cui è così basso in classifica.

  • ...That's the Way It Is (1976)
Dopo il fallimento commerciale dei due album precedenti, la RCA spinse Harry a tirare fuori un album di cover, forse memori del successo di inizio anni '70 con la cover di Without You, e stranamente lui non si oppose. Il risultato è un album un po' atipico, dove l'eleganza di brani come That Is All di George Harrison si contrappone alla voce evidentemente ancora danneggiata (se ne parlerà meglio quando si arriverà all'album Pussy Cats) nella non riuscitissima versione di I Need You degli America. Ritorna un brano di Newman, Sail Away, piuttosto riuscito, mentre non manca lo spazio goliardico con il tradizionale Zombie Jamboree (Back To Back), inizialmente nota come Jumbie Jamberee (i jumbee sono spiriti malvagi che si diceva facessero ballare la gente in modo selvaggio). Bella la copertina, comunque piacevole l'ascolto, ma non uno dei suoi migliori lavori.

  • Son of Dracula (1974) 
Colonna sonora dell'omonimo film (con Harry, Ringo Starr e altri ospiti illustri come Keith Moon, Peter Frampton, John Bonham, Klaus Voorman e così via), che di fatto contiene una selezione di brani da Nilsson Schmilsson e Son Of Shmilsson, aggiungendo solamente qualche interludio orchestrale ad opera di Paul Buckmaster (già collaboratore di Elton John) ed il nuovo brano Daybreak. Insomma la musica al suo interno è di ottima qualità, forse meglio anche del particolare film (comunque consigliatissimo anche solo per farsi due risate), ma il fatto che sia in gran parte materiale già edito non permette all'album un posizionamento più in alto in classifica. 

  • Duit on Mon Dei (1975)
In un certo senso la conferma della fase discendente della carriera di Harry partita con Pussy Cats e caratterizzata dal suo declino vocale. Qui non c'è più Lennon a produrre, e se si esclude la folle idea di aprire l'album con un demo poi ultimato nell'album successivo (Jesus Christ You're Tall), Duit On Mon Dei (storpiatura del motto della monarchia britannica "Dieu et mon droit", God and my right) è un sorta di "mardi gras" con una sovrabbondanza di steel drums, probabilmente vista l'influenza dell'amico Van Dyke Parks. C'è tanto divertimento, spezzato solamente da un paio di inaspettate canzoni che, ironicamente, sollevano non di poco il livello generale. Sto parlando dell'orchestrale Easier For Me, degna degli album precedenti, e di Salmon Falls, in cui gli steel drums sono usati in modo perlomeno originale. Per il resto, un divertente e divertito album poco impegnato, ma ben lontano dai suoi migliori.

  • Sandman (1976)
Vero e proprio seguito spirituale e stilistico di Duit on Mon Dei, con cui condivide gran parte dei pregi e dei difetti. C'è un po' più di varietà, e la voce di Harry a tratti sembra riprendersi qualche tono più cristallino, come nello spettacolare barbershop di The Ivy Covered Walls, senza dubbio tra le cose migliori del periodo. Ci sono altri bei brani, come Something True e la follia orchestrale di Will She Miss Me, e mediamente il tutto scorre meglio che nel precedente, ma in generale stiamo là.

  • Losst and Founnd (2019)
Nei primi anni '90, dopo più di 10 anni dal suo ultimo album, Harry tentò di registrarne uno nuovo, nonostante un disastroso incontro con la Warner Bros. Le sue condizioni di salute però si aggravarono, e dopo un infarto nel 1993, morì il 15 Gennaio 1994, a soli 52 anni. Fece giusto in tempo a registrare le tracce vocali per il suo allora nuovo album, che però rimase nei cassetti fino al 2019, escluso qualche demo in bootleg ed un paio di pezzi in qualche raccolta. Con la benedizione della sua famiglia, l'album è stato ultimato dal produttore Mark Hudson. Comprensibilmente il giovane Harry è un ricordo lontano, e qui troviamo una serie di mature interpretazioni di buoni brani, in generale sullo stile dei suoi ultimi album, ma mediamente migliori. Lullaby ha una sua magnifica interpretazione, ma i bei brani sono svariati, da Try a Woman Oh Woman, fino a What Does A Woman See in a Man di Jimmy Webb. A tratti è come ritrovare un vecchio amico dopo anni, con tutte le sue imprefezioni che accompagnano il suo fascino.  

  • Popeye (1980) 
Curiosa colonna sonora di un altrettanto curioso film, vero e proprio esordio cinematografico di Robin Williams. I brani di Harry vengono interpretati dagli attori del film, ma nelle riedizioni recenti possiamo trovare, come bonus, i demo realizzati da lui stesso. Ascoltando entrambe le versioni si nota come stilisticamente ci siano svariati richiami anche ai primi suoi album, come Blow Me Down, che sembra uscire dall'album Harry, o nella splendida Everybody's Got To Eat. I demo si ascoltano molto volentieri anche grazie ad un ritrovato tono pulito nella sua voce, mentre le interpretazioni degli attori sono comunque piacevoli. Insomma uno strano lavoro con però un Harry Nilsson mediamente più ispirato che nei suoi ultimi veri e propri album. 

  • Pussy Cats (1974)
Le premesse per un album leggendario c'erano tutte, a partire dalla produzione affidata a nientemeno che John Lennon (all'epoca nel bel mezzo del suo "lost weekend") ed il lungo elenco di ottimi musicisti coinvolti, ma il destino decise diversamente. L'anima spericolata e festaiola di Harry raggiunse l'apice nella Los Angeles di metà anni '70, e ciò gli costò la voce. Con un danno alle corde vocali non indifferente, affrontò le session senza rivelare nulla a Lennon, il quale si arrabbiò non poco quando venne a sapere dell'accaduto. Il risultato è un album di difficile definizione, a tratti una sofferenza all'ascolto, e a tratti divertente. La collaborazione tra Nilsson e Lennon in Many Rivers To Cross vale da sola l'album, mentre il meglio Harry lo da in brani come Don't Forget Me e Black Sails, oltre a sfoderare un magnifico ed inaspettato brano come All My Life. Il resto va da curiose cover di brani come Loop De Loop, Rock Around The Clock e Subterranean Homesick Blues, fino alla pura sofferenza sia emotiva che fisica nella performance di Old Forgotten Soldier. Uno curioso album ed un'esperienza d'ascolto quantomeno curiosa. La copertina ed il relativo gioco di parole vale quasi da sola l'album. 

  • Knnillssonn (1977)
Nelle intenzioni iniziali questo avrebbe dovuto essere l'album del gran ritorno per Harry, con brani composti da lui, ottimi arrangiamenti orchestrali, una ritrovata forma vocale... Si trattò del suo miglior album dai tempi di A Little Touch Of Schmilsson In The Night, ma a guastare la festa ci fu la morte di Elvis Presley, che di fatto spinse la RCA ad investire il più possibile sul suo catalogo per capitalizzare sull'evento, finendo per uccidere ogni possibilità promozionale di Knnilssonn. E fu un gran peccato, perchè oltre ad essere uno dei pochissimi lavori interamente composti da lui (insieme a The Point!), è effettivamente un ottimo lavoro. Con la sua voce matura ed orchestrazioni sempre appropriate, brani come All I Think About is You, Perfect Day, o parentesi più divertenti come Who Done It? o Goin' Down rappresentano il meglio del Nilsson della seconda metà degli anni '70. Rimane quel retrogusto di grande occasione sprecata, ma per il resto è uno dei suoi migliori lavori.

  • Aerial Pandemonium Ballet (1971) 
Un album molto particolare, che chiude in modo ideale la prima fase della carriera di Harry, raccogliendo una selezione di brani dagli album Pandemonium Shadow Show e Aerial Ballet leggermente modificati. Si va dai semplici remix a vere e proprie nuove versioni, alcune riarrangiate, altre rallentate, e così via. Nulla da dire sulla selezione di canzoni, così come sulle modifiche effettuate, che seppur forse non necessarie offrono un nuovo punto di vista, ma proprio per la sua natura non può stare più in alto in classifica. Ci sono piccoli tocchi di classe come l'inserimento di una citazione a One in Mr. Richland Favorite Song, oppure in generale tutta la sequenza conclusiva composta da Don't Leave Me, Without Her (con nuove bellissime armonie vocali), Together e One (stavolta intera), quasi senza alcuna pausa: da brividi. 


  • Pandemonium Shadow Show (1967)
Da qui in poi si inizia a fare sul serio, e le differenze in qualità tra i vari album si assottigliano quasi del tutto. Insomma, l'ordine dei prossimi titoli è relativo e facilmente variabile. Dunque, il suo primo vero e proprio album ha tutte le caratteristiche tipiche della sua prima fase di carriera, oltre a quelle dei suoi migliori lavori. Già partire con 1941 mette in chiaro le cose, mostrando fin da subito la personalissima tendenza di Harry a concludere i brani con assoli vocali in scat che lasciano a bocca aperta. Il resto non è da meno, da Cuddly Toy alla pacata Without Her fino ad uno dei primi mashup musicali della storia del pop, You Can't Do That, cover dell'omonimo brano dei Beatles in cui Harry inserisce innumerevoli citazioni ad altri brani dei fab four. Insomma uno spettacolare inizio di carriera che forse manca solo di un po' di convinzione in più, che arriverà di lì a poco. 

  • Son of Schmilsson (1972)
Dopo il grande successo di Nilsson Schmilsson tutti si aspettavano un bis, a partire dal produttore Richard Perry. Harry però volle fare di testa sua, pubblicando un lavoro eterogeneo, divertente, strano, ma senza la tanto agognata "nuova Without You". Non mancano brani dall'enorme fascino, come la balata Remember (Christmas), Spaceman o Turn On The Radio, ma lo spirito goliardico tipico di Harry fa prepotentemente capolino più e più volte, dalla country Joy alla spassosa ed amara I'd Rather Be Dead, fino al singolo You're Breaking My Heart. Forse uno degli album che meglio raccolgono tutte le anime di Harry, spesso suddivise in album anche diversissimi fra loro, ma che proprio in questa schizofrenia trova l'unico punto "debole" che non gli permette di arrivare ai vertici della classifica. 


  • A Little Touch of Schmilsson in the Night (1973)
In tempi più recenti non è raro vedere l'interprete di turno alle prese con un album di cover di standard, ma nel 1973 ciò era tutt'altro che usuale. Forse conscio del fatto che con il suo stile di vita spericolato la sua voce cristallina non sarebbe durata per sempre, Harry decise di reinterpretare, accompagnato dall'orchestra, una serie di brani a cui era particolarmente legato. Il risultato è spettacolare: si va da Always a As Time Goes By passando per Makin' Whoopee, con arrangiamenti sempre perfetti ed un Nilsson al massimo delle sue doti interpretative. Ci furono anche varie outtake, poi aggiunte nelle riedizioni in CD, ovviamente consigliatissime, se non altro per la sua versione di Over The Rainbow. Questo album è come un tè caldo in una fredda serata nevosa. Ironicamente è effettivamente l'ultimo album in cui si può ascoltare la voce di Harry ancora intatta. 

  • The Point! (1971) 
Dalla geniale idea di Harry di basare un cartone animato sul concetto di "have a point" (avere una punta, ma anche avere uno scopo) nacque la storia di Oblio, raccontata in un film d'animazione narrato da Ringo Starr (in altre edizioni fu Dustin Hoffman a fare da narratore). Il film è molto carino nella sua semplicità, mentre la colonna sonora è letteralmente perfetta. Nonostante la discutibile scelta di includere nell'album sezioni narrate (qui dallo stesso Harry), il tutto scorre magnificamente, e brani come Me And My Arrow, Poly High, Think About Your Troubles, Lifeline, Are You Sleeping? sono tra i migliori della sua carriera.  

  • Nilsson Sings Newman (1970)
Non un tributo, come può sembrare dal titolo, quanto una vera e propria collaborazione. Harry ammirava moltissimo Randy Newman come compositore, e da lì nacque l'idea di realizzare un album insieme. Con Harry alle voci e Newman al piano, in poco meno di mezz'ora viene data nuova vita ad una selezione di brani di quest'ultimo, con un uso delle sovraincisioni vocali ed un'atmosfera difficilmente descrivibili a parole. Le versioni di Vine Street, Love Story e Cowboy sono da pelle d'oca. Uno dei migliori esempi delle doti da interprete di Harry, all'epoca una delle migliori voci in assoluto.

  • Nilsson Schmilsson (1971)
Indubbiamente il suo album più celebre grazie alla versione definitiva di Without You dei Badfinger (non me ne vogliano i fan di Mariah Carey...o dei Badfinger... o degli Air Supply) e alla spassosa Coconut, si può dire che Nilsson Schmilsson sia l'album della sua maturità. Una maturità che arriva non solo nelle due citate canzoni, ma anche nell'ultimo richiamo agli esordi della saltellante Gotta Get Up (che effettivamente risale al 1968), o nell'esteso rock graffiante di Jump Into The Fire (in cui Herbie Flowers si esibisce in un "assolo" di basso scordandolo e riaccordandolo), ma anche nell'apoteosi drammatica di I'll Never Leave You, o nella devastante carica interpretativa di Goin' Down. Un album che rasenta la perfezione, e forse il migliore per iniziare a scoprire la sua discografia. 

  • Harry (1969)
In un certo senso il punto di arrivo della prima fase della sua carriera, il culmine del periodo tra il pop barocco ed il music hall, oltre che una delle sue più incredibili performance vocali. I brani degni di nota non si contano, da Puppy Song, scritta per Mary Hopkin, a Maybe, dalla magnifica Rainmaker fino al primo segno dell'interesse nei confronti di Newman in Simon Smith and The Amazing Dancing Bear, passando per piccoli capolavori come Nobody Cares About The Railroads Anymore o I Guess The Lord Must Be In New York City (scritta da Harry apposta per il film Midnight Cowboy, salvo poi essere scartata in favore della sua cover di Everybody's Talkin'). Indubbiamente uno dei suoi album più densi e carichi di fascino. 


  • Aerial Ballet (1968)
Praticamente qualunque album nella top 5 è perfettamente in grado di aggiudicarsi il primo posto a seconda del periodo e dell'umore di chi scrive, ma questo Aerial Ballet ha una piccola marcia in più che è difficile da razionalizzare. Tutti gli ingredienti del precedente Pandemonium Shadow Show sono qui riproposti con più convinzione, sfoderando una serie di brani uno più bello dell'altro. Ovviamente la già citata cover di Everybody's Talkin' fa da padrone, confermandosi uno dei brani più celebri della sua intera carriera, ma come si può non citare One, che con la sua frase "one is the loneliest number that you'll ever do" ha fatto nascere un modo di dire ancora in uso? Nonostante altri brani non godano della stessa fama, poco hanno da invidiare ai suddetti, a partire da Daddy's Song (resa famosa anche dai Monkees) per arrivare a Good Old Desk, da  Mr. Tinker a Together, ogni singola canzone qui presente è una perla dalla accecante luminosità. Il trionfo di tutto ciò che l'arte di Harry Nilsson ha da offrire.