sabato 6 giugno 2020

Dennis DeYoung - 26 East, Vol. 1 (2020) Recensione

Ricordato da molti come la cristallina voce di alcuni dei più grandi successi degli Styx, Dennis DeYoung ritorna dopo più di un decennio con un nuovo album.
Ormai lontano dagli Styx da più di vent'anni, nelle sue intenzioni iniziali 26 East avrebbe dovuto essere il suo ultimo album, almeno finchè la Frontiers non vide la quantità di canzoni scritte da DeYoung e consigliò di dividere il tutto in due parti. Quello che ci troviamo di fronte è quindi il primo dei due "volumi", a cui verosimilmente seguirà il secondo il prossimo anno.
La prima cosa che colpisce è come la voce di DeYoung sia rimasta pressoché identica nonostante il passare del tempo. Certo, si è persa un po' della sottigliezza nel timbro, sostituita da un maggiore calore e spessore, ma la voce di Babe è ancora praticamente intatta nel 2020, e non è cosa da poco.
Le canzoni stilisticamente non sorprendono più di tanto, oscillando tra timidi richiami agli Styx di fine anni '70 e le tipiche tendenze alla ballata e alla teatralità che tanto fecero infuriare i suoi ex compagni di band. L'apertura con East Of Midnight sembra riportarci direttamente ai tempi di The Grand Illusion, salvo poi essere un vecchio brano inedito scritto da Jim Peterik, ricordato principalmente nei Survivor di Eye Of The Tiger, e che suona un po' in tutto l'album. Chitarroni, tastiere e cori cristallini creano in questo brano quel sound epico tipico di fine '70 - inizio '80, quello che giustifica l'appellativo "pomp rock", e apre l'album nel migliore dei modi. L'energia si mantiene alta con l'acida critica di With All Due Respect, per poi tingersi di toni più oscuri in A Kingdom Ablaze, che ricorda certe cose di Pictures Of Eight. Le più lente e melodiche You My Love e Run For The Roses ci riportano il DeYoung da ballatona, la prima richiamando certe cose dei tardi anni '50 e la seconda dai toni più rock: entrambe hanno poco da invidiare ad episodi in un certo senso analoghi del passato. 
Damn That Dream accelera il ritmo e ci regala melodie memorabili, così come Unbroken, ed il tutto ci riporta ai bei vecchi tempi in cui praticamente ogni brano di un album era in grado di stare in piedi da solo e di essere estrapolato come singolo.
La mini-suite The Promise Of This Land si conferma probabilmente come punto più alto dell'album, con un inizio spudoratamente da musical e molteplici cambi di ritmo e di stile che passano dal rock al gospel in appena 5 minuti. Veramente spettacolare.
Come se non bastasse ecco un magnifico duetto con Julian Lennon in The Good Old Days, in cui le due voci si intrecciano e si accompagnano perfettamente, e ci portano alla chiusura dell'album con il colpo al cuore di A.D. 2020, che con testo diverso riprende la familiare melodia di apertura e chiusura di Paradise Theatre degli Styx. Il tutto sembra prepararci alla fine di qualcosa, alla contemplazione di ciò che è stato e l'accettazione del punto di arrivo finale. Per fortuna però non è proprio così, ed il sottoscritto ora aspetta con ansia la seconda parte di questo ottimo lavoro.
Un album che non aggiunge molto alla carriera di Dennis DeYoung, ma che è il benvenuto in tempi di musica particolarmente deprimente (e se già lo era prima della situazione che stiamo vivendo, figuriamoci nel futuro prossimo), e ci regala un raggio di luce di cui tutti abbiamo ogni tanto bisogno. L'unico appunto è sulla copertina, che sembra fatta in 10 minuti da uno che ha appena aperto il suo primo programma di grafica; non che mi aspettassi di meglio dalla Frontiers, ma insomma...