mercoledì 27 novembre 2019

no-man - Love You To Bits (2019) Recensione

Leggendo svariate recensioni in giro mi rendo conto di essere costretto ad un approccio atipico a questo lavoro. Conosco poco o nulla dei no-man, e seguo Steven Wilson dai tempi di The Raven That Refused To Sing, preferendo la sua carriera solista (sì, anche To The Bone) ai Porcupine Tree, che trovo spesso noiosi, a parte qualche pezzo sparso nei vari album.
Insomma arrivo da un punto di vista decisamente diverso da quello più comune, e forse questo influenza la mia visione di questo lavoro, o forse no; io comunque ve l'ho detto.
Non serve che vi dica che i no-man sono sostanzialmente un duo formato da Wilson e Tim Bowness, in particolare qui il primo si occupa degli strumenti e della produzione ed il secondo della voce. Ci sono svariati ospiti come David Kollar alla chitarra, Adam Holtzman alle tastiere e Aviv Geffen alla batteria, tutti ad intervenire col contagocce dove necessario.
L'album in questione, a quanto pare, è il frutto di un'idea risalente agli anni '90 e mai ultimata, e di fatto affonda pesantemente le sue radici nell'electro-pop. Qui molti proggettari potrebbero rabbrividire (e ciò è sempre cosa buona e giusta), ma in realtà Love You To Bits si compone di due suite tra i 17 ed i 18 minuti, certamente caratterizzate da un ossessivo ritmo ripetitivo come tipico del genere, ma che in realtà si sviluppano e si evolvono in modo veramente interessante. Il tema principale ritorna in svariate vesti e contesti, circondato da sintetizzatori e drum machine, e quando entrano strumenti "veri" suonati dagli ospiti sopra citati (specialmente Holtzman e Kollar, che come loro solito sfoderano virtuosismi che però risultano decisamente interessanti visto il contesto), il tutto diventa ancora più interessante, complice anche una produzione meravigliosa.
Se proprio dovessi indicare un punto debole, ahimè, starebbe proprio nel ruolo di Bowness, la cui voce ed interpretazione, volutamente o meno, risulta piatta, ripetitiva, a tratti pericolosamente tendente alla noia. Mi rendo conto che questa considerazione sia strettamente personale, ma sono convinto che le stesse parti cantate invece da Wilson (che diciamocelo, negli ultimi anni è migliorato non poco come cantante) avrebbero fatto ben altra figura.
Detto questo, non si può negare il fatto che Love You To Bits tenti di fare qualcosa di genuinamente "nuovo" e originale, poi che ci riesca o meno sta al singolo ascoltatore deciderlo. Combinare queste sonorità con un formato tipico del progressive e pubblicarlo in questo 2019 in cui ancora c'è gente che viene idolatrata per aver messo un riff metallone su una base di mellotron cori (IQ ehm...), è una scelta quantomeno coraggiosa, anche più di quanto fu la tanto odiata (non da me) Permanating. Poi certo, molte scelte melodiche ed armoniche sanno pesantemente di già sentito, specialmente se si segue il signor Wilson da un po' di tempo, ma diciamo che tenterò di chiudere un occhio in questo caso.
Non sto a dilungarmi sulle varie sezioni delle due suite presenti nell'album, in quanto sono sicuramente meglio apprezzabili nel loro contesto; ma in generale mi sento di dire che la seconda metà, Love You To Pieces, si rivela essere un po' più interessante e varia, mentre la prima tende forse a "sedersi" un po' troppo sul tema principale, interrompendosi praticamente solo all'entrata di un bel riff di chitarra di Wilson e per l'assolo di Kollar.
Se però ci si lascia prendere da questi appena 35 minuti di musica senza troppi pregiudizi o aspettative, si potrebbe rimanere perlomeno sorpresi. E al giorno d'oggi non è poco.
In coda, aggiungo che se si è apprezzato l'album, potrà interessare il brano "bonus" uscito insieme al primo singolo estratto: Love You To Shreds (Shreds 1-3), più tendente all'ambient ma comunque coerente e piacevole espansione di un lavoro altrimenti piuttosto breve.

mercoledì 20 novembre 2019

Mikayel Abazyan - Westerlies (2019) Recensione

Siamo arrivati al secondo lavoro di musica inedita ad opera di Mikayel Abazyan, seguito dell'ottimo Something More uscito poco più di un anno fa. Nonostante il relativamente poco tempo passato tra le due uscite, e tenendo conto anche del fatto che le prime idee del lavoro in questione risalgono a prima dell'uscita di Something More, ci troviamo di fronte ad un album decisamente diverso, sia nelle intenzioni che nei risultati. Certamente ci sono degli elementi comuni, come è normale che sia, ma non a tal punto da condannare Westerlies al semplice destino di "secondo capitolo".
La prima differenza sta nelle premesse dietro i due lavori: se Something More è un album personale in tutto e per tutto, anche nei testi, Westerlies parte invece dalla letteratura inglese e, sostanzialmente, la "mette in musica". Ciò però non deve trarre in inganno e far pensare a questo album come ad una semplice raccolta di poemi musicati o un tributo alla poesia, in quanto tutte le opere presenti sono state scelte per motivi ben precisi. 
Ci si trovano opere di Byron, Shakespeare, Blake, fino ad arrivare al più antico esempio scritto di poesia inglese, Western Wynde, una canzone del sedicesimo secolo su cui ci si interroga da secoli sul significato. Ciò ha spinto Mikayel a creare lui stesso una storia da quel punto di partenza, utilizzando le suddette opere per raccontarla. 
Come se non bastasse, a ciò ci si aggiungono degli intermezzi recitati, che fanno a volte da introduzione, altre da intermezzo, e portano avanti la storia aggiungendo un tocco di teatro ad un lavoro che già contiene al suo interno poesia e musica. 
E cosa dire sulla musica? Ci sono indubbiamente punti in comune con Something More, soprattutto laddove le interpretazioni e le atmosfere guardano ai lavori dei Van Der Graaf Generator e Peter Hammill, come in Despondency; tuttavia però si aggiungono elementi inediti degni di nota, come la squisita resa acustica di The Divine Image o il totalmente inaspettato tuffo nel metal con violino di England in 1819, fino all'epica conclusione con la lunga title track, che parte da atmosfere non lontane da una Meurglys III di "Vandergraafiana" memoria per poi lasciarsi andare ad aperture degne di certe cose dei Pink Floyd. L'album è molto variegato in termini di sonorità e generi musicali presenti, proprio come lo era già Something More e forse ancor di più. Certamente la decisione di inserire intermezzi parlati può piacere o non piacere, specialmente perchè, di fatto, spezza il ritmo dell'album e lo rende un po' meno scorrevole, ma si tratta di una decisione audace che contribuisce a rendere il tutto un lavoro più "completo".
Non mi dilungo raccontando quella che è la mia personale interpretazione della storia raccontata in Westerlies, sia perchè la mia ignoranza in termini di poesia sicuramente non mi permette di cogliere ogni singolo particolare, sia perchè credo che il bello di quest'album stia proprio nel capire individualmente di cosa si tratta, del perchè sia stato scelto proprio quel poema e non un altro e così via.
Di certo quello che posso dire è che Westerlies è un lavoro ambizioso, completo nel suo approccio aperto a più discipline artistiche (musica, poesia e teatro), che richiede impegno nell'ascolto pur non essendo affatto ostico, e che sa ripagare dell'attenzione prestata. Ottimo poi il lavoro di tutti coloro coinvolti, dai musicisti agli attori, che non sto ad elencare in quanto potete trovare i crediti completi nel link a Bandcamp qui sotto.
Non posso fare a meno di consigliare questo lavoro a chiunque, specialmente se si ha un debole per la letteratura inglese; non ve ne pentirete.
https://mikayelabazyan.bandcamp.com/album/westerlies

venerdì 15 novembre 2019

The Deviants - Ptooff! (1967) Recensione

In un periodo storico pieno di capolavori frutto di una continua spinta e progressione in quello che era il pop di quegli anni, si può letteralmente pescare album a caso e rimanere stupiti ogni singola volta. Ovviamente l'album in questione ha negli anni raggiunto uno status di lavoro essenziale e di culto, prodotto da quella cultura underground dedita alla psichedelia e alle più folli sperimentazioni, però diciamo che le premesse non è che ci fossero state. I Deviants infatti realizzarono il loro album d'esordio in modo indipendente, finanziati da tale Nigel Samuel, all'epoca milionario ventunenne (anche se pare che la cifra in questione fu di circa 700 sterline), e lo pubblicarono tramite la propria etichetta Underground Impresarios, rendendolo però disponibile solamente su ordinazione tramite le varie testate giornalistiche underground inglesi, come l'International Times e OZ. Poco dopo però la Decca intervenne, ne acquistò i diritti e lo pubblicò in modo più convenzionale. Di fatto però fu palese l'intenzione dei Deviants di rimanere una realtà underground, come anche indicato per iscritto all'interno dell'album originale ("the deviants underground l.p.").
L'album in questione è un capolavoro di Pop art, con i piedi ben affondati nella psichedelica underground di quel magico 1967. Sia la magnifica copertina che il titolo pescano ovviamente dall'arte fumettistica, ed il tutto rappresenta quasi perfettamente il conglomerato esplosivo di colori e suoni che si possono trovare all'interno dell'album.
Album che alla musica affianca sezioni parlate, come la vera e propria introduzione accolta da comicamente sporadici e pacati applausi, e che più volte ricorre al blues come veicolo del proprio suono. Non si tratta però del blues classico, e neanche si anticipano i riarrangiamenti futuri dei Led Zeppelin, bensì lo si sfrutta come scheletrica base per le derive più inquietanti ed acide, non distanti da certe cose di Captain Beefheart. Scariche elettriche improvvise e voce urlata di Mick Farren non possono lasciare indifferenti in I'm Coming Home, e sono in totale contrasto con la folkeggiante Child Of The Sky, che però ben spezza il ritmo prima del ritorno al blues in Charlie. Con Nothing Man e Garbage si raggiunge il cuore di questo lavoro, fatto di musica imprevedibile, filastrocche, sezioni recitate, parti volutamente sgradevoli che anticipano il punk di un decennio, regalandoci una perfetta rappresentazione della cultura freak di quegli anni. La breve e gradevole strumentale Bun ci prepara all'apoteosi di Deviation Street. Quasi un brano-manifesto per i Deviants e perfetta conclusione dell'album, Deviation Street sembra essere uno spettacolo teatrale in preda all'anarchia messo in musica con voci, suoni e rumori di contorno: se si dovesse indicare una perfetta rappresentazione della psichedelia più "malata", questo pezzo sarebbe certamente in cima ad una ipotetica lista.
Ptooff! è molto più di un album: è un'esperienza di ascolto. In giro si sprecano i commenti su quanto sia bello ascoltarlo sotto effetti di droghe di vario tipo, ma sarebbe ingiusto limitare il fascino dell'album a quelle precise condizioni, in quanto al suo interno ci sono molti punti oggettivamente validi, interessanti ed originali. Al di là degli aspetti strettamente musicali, poi, non ci si può dimenticare delle premesse dietro la sua pubblicazione, che in un certo senso anticipano quello che sarà l'indie di lì a qualche decennio, oltre alle già citate tendenze proto-punk che in realtà erano piuttosto diffuse in quegli anni.
Di fatto però Ptooff! è uno dei principali e più riusciti lavori della psichedelia underground inglese di fine anni '60; un ascolto essenziale per chiunque sia interessato a quel periodo storico, sia dal punto di vista musicale che anche, più ampiamente, da quello di esponente di una cultura ed un periodo storico ben preciso. Un'opera d'arte imperfetta, sporca, a tratti anche sgradevole, ma che proprio per questo va ascoltata. 

martedì 12 novembre 2019

Jeff Lynne's ELO - From Out Of Nowhere (2019) Recensione

A quattro anni dal precedente Alone In The Universe, Jeff Lynne, ormai accompagnato dalla sigla ELO in quanto oggi proprietario unico del nome, ci regala un altro piccolo gioiellino pop.
Sono lontani i tempi dei vecchi ELO, quelli grandiosi ed orchestrali che sfornavano capolavori come Eldorado e Out Of The Blue; oggi di quella band è rimasto letteralmente solo Jeff Lynne. E dico letteralmente in quanto questo album ed il precedente sono opere realizzate in quasi completa solitudine, con Lynne ad occuparsi di ogni voce ed ogni strumento su disco, oltre alla composizione e produzione. C'è chi critica questo approccio, in quanto convinti che un classico scambio di idee tra più membri e qualche contributo in più da parte di diversi musicisti possa giovare alla sua musica, soprattutto vista l'essenzialità del suo stile esecutivo, specialmente alla batteria. Ci si chiede come mai non coinvolga qualche membro della sua attuale, magnifica, live band ad esempio.
Personalmente invece posso capire il suo punto di vista, e credo che sia difficile per una persona perfezionista come lui, per di più alla sua età, scendere a compromessi.
L'album in questione si tratta in sostanza di una breve, forse troppo, raccolta di dieci canzoni una più contagiosa dell'altra. Se al primo ascolto il tutto può sembrare, come direbbero gli anglofoni, "underwhelming", specie se ci si aspetta un altro Out Of The Blue, al secondo ed al terzo giro già canticchierete ogni singolo ritornello.
In generale From Out Of Nowhere sembra essere un po' più vivace e meno nostalgico del precedente Alone In The Universe, risultando forse un po' meno vario ma certamente più coinvolgente e "vivo".
Se la title track e la auto-celebrativa Time Of Our Lives (con una geniale citazione a Telephone Line), uscite come singoli, anticipavano in modo eloquente l'album, è anche vero che al suo interno ci sono chicche inaspettate. In mezzo a brani relativamente tipici come Help Yourself e Sci-Fi Woman, ci sono cose come la commovente Losing You, lento brano dai toni sinfonici tra i migliori di Lynne dai tempi della A Love So Beautiful scritta per Roy Orbison, o il frenetico rock and roll di One More Time, con un inaspettato intermezzo prima di archi sintetizzati e poi di piano alla Jerry Lee Lewis suonato dall'unico ospite dell'album: lo storico tastierista degli ELO Richard Tandy. Nel mezzo c'è la stranamente quasi caraibica All My Love, interessante ma forse un pelo troppo ripetitiva, la bellissima Down Came The Rain, che non avrebbe sfigurato in una delle collaborazioni tra Lynne e Tom Petty, e la conclusiva Songbird, forse l'unica sua incursione in territori quasi gospel.
Particolarmente piacevoli sono poi i numerosi interventi chitarristici presenti in ogni canzone, spesso suonati con tecnica slide, in uno stile decisamente melodico ed apertamente reminiscente del lavoro di George Harrison. Per non parlare poi della sua voce praticamente intatta nonostante il passare dei decenni.
Si leggono in giro molte critiche al lavoro di produzione e, specialmente, di mastering sia di questo album che di quelli immediatamente precedenti ad opera di Lynne. É palese che negli anni il suo stile si sia spostato verso un suono più "chiuso", compresso all'inverosimile, caldo, non lontano da certi album indie anni '90, senza però mai sfociare nel lo-fi. Si tratta di un suo trademark ormai, di cui le prime tracce risalgono ai suoi lavori di fine anni '80, e che ovviamente può piacere o irritare: è il prezzo da pagare quando si ha uno stile personale.
In definitiva, From Out Of Nowhere sembra quasi essere una perfetta seconda parte di Alone In The Universe, e con esso condivide lo stesso difetto: la brevità. L'album dice quello che deve dire senza perder tempo e, semplicemente, finisce. Senza neanche arrivare a 33 minuti.
La memoria torna agli anni '60, ai Beatles e ai Beach Boys, con l'unica differenza nel fatto che allora la brevità degli album era mitigata da uscite multiple annuali. Se si sorvola su questo ci si trova al cospetto di un piccolo gioiellino come ne escono veramente troppi pochi al giorno d'oggi; di un pop semplice, positivo, universale, gioioso, semplicemente bello e sempre piacevole all'ascolto. Un album che è riuscito a scalare la classifica britannica fino a fermarsi al primo posto (non male per un quasi settantaduenne), e che nonostante questo sembra non esistere nel nostro "bel Paese", dove proprio non se ne parla.
Ciò credo valga più di mille parole sulla nostra cultura musicale, specie nell'ambito del pop.
Ascoltatelo subito se non l'avete già fatto!

lunedì 11 novembre 2019

9th National Jazz & Blues Festival - Plumpton (8 - 9 - 10 Agosto 1969)

Tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 ci furono innumerevoli festival che definire leggendari è fin riduttivo. Da Monterey a Woodstock, dalle varie edizioni del free festival all'Hyde Park fino all'isola di Wight, molti hanno indubbiamente fatto la storia diventando un simbolo di un preciso periodo storico. Questi grossi festival non furono però gli unici di quei tempi, e non si contano infatti quelli che, magari per via di budget ed organizzazioni più modeste, vengono ricordati un po' meno. Si può dire che sia il caso di questa nona edizione del National Jazz & Blues Festival. Eppure i nomi importanti c'erano, così come il pubblico, presente in gran numero, ma in ogni caso non ha avuto l'impatto di altri eventi contemporanei.
Fondato nel 1961 da Harold Pendleton, creatore del Marquee Club, questo festival negli anni subì una forte evoluzione, di pari passo con i grandi cambiamenti nel mondo musicale in atto negli anni '60. Nonostante i due generi presenti nella sua denominazione, non è difficile immaginare la presenza di band che allora venivano inserite nel calderone del "Pop" (non per niente in alcuni cartelloni del festival a blues e jazz venivano aggiunti pop e ballads), in un destino in un certo senso analogo ad altri festival anche di questi giorni, come quelli jazz di Montreux e Lugano.
Ma perchè proprio questa nona edizione e non, ad esempio, la decima con nomi come Black Sabbath, Deep Purple e Van Der Graaf Generator? Beh, perchè una decisione bisognava prenderla, e magari a quella ci si torna in un altro articolo in futuro.
Nella nona edizione, svoltasi nell'arco di tre giorni tra l'8 ed il 10 Agosto 1969, la lineup fu molto variegata, ma fu anche un'edizione segnata da problemi di vario tipo. L'idea iniziale era infatti quella di far svolgere il festival a West Dreyon, nel Middlesex, ma a causa del mancato rilascio del permesso da parte del Consiglio Comunale, fu presa la decisione di spostarsi nell'East Sussex, a Plumpton , nell'ippodromo. Ciò causò un po' di confusione nei poster rilasciati, che infatti sono reperibili in due versioni con entrambi i luoghi suddetti indicati come sede del festival.
Quello che si può notare guardando la locandina è l'enorme quantità di artisti e band presenti in un tempo relativamente esiguo. Chi suonò di più infatti arrivò ad un'ora o poco più, ma furono in molti ad avere dai 20 ai 40 minuti. In aggiunta furono allestite due aree per le esibizioni, una denominata "village" ed un'altra "arena", con varie sovrapposizioni di band che si sono esibite in contemporanea. Questo obbligava il pubblico a scegliere chi ascoltare perdendosi di conseguenza qualcun altro, cosa difficile da concepire al giorno d'oggi.

Il Venerdì prevedeva solamente esibizioni serali, a differenza degli altri due giorni in cui si partiva già dal pomeriggio. Da alcune recensioni definito come il giorno meno interessante, ha potuto comunque vantare nomi particolari come gli East Of Eden e la band di Keith Tippett, culminando con la doppietta formata dai Soft Machine e dai Pink Floyd. I primi però furono piuttosto sfortunati, in quanto la loro esibizione si interruppe per un'ora a causa di un guasto tecnico, tra le proteste del pubblico. Proteste che pare durarono relativamente poco visto che, stando ad alcuni report, quando arrivarono i Pink Floyd molti si erano ormai addormentati. All'epoca i Soft Machine erano reduci dall'ottimo Volume 2, e da poco in formazione a 4 con l'aggiunta di Brian Hopper al sax; a quanto pare però l'unico brano suonato fu l'allora inedita Moon In June, interrotta per ben due volte per i già citati problemi tecnici. Chi era presente racconta di come Robert Wyatt, preso dalla rabbia e dalla frustrazione alla realizzazione di ciò che era successo iniziò ad agitarsi, lanciò in giro parti della sua batteria e collassò sul palco.

Fortunatamente esiste una registrazione:

Dopo un'ora di buio, e dopo aver risolto i problemi tecnici, ecco arrivare i Pink Floyd. All'epoca erano nel pieno del loro periodo tra Ummagumma e The Man & The Journey, forse la loro fase più sperimentale in assoluto; ed infatti la scaletta, seppur più breve del solito vista l'occasione, ben rappresenta questa fase. Dopo un inizio con Set The Controls For The Heart Of The Sun e Cymbaline si tuffano nell'intera The Journey, tornando poi per i due bis A Saucerful Of Secrets ed Interstellar Overdrive.
Anche di questa esibizione esiste una registrazione bootleg:


Interessante però citare un estratto di una recensione dell'epoca:
"Avendo ascoltato l'Azimuth coordinator all'opera più volte quest'anno, l'effetto novità sta iniziando a svanire e anche i Floyd stanno diventando un po' "blasé" con i gabbiani registrati! Ma hanno suonato bene, soprattutto "Cymbaline" e "The Journey" sono state efficaci, con altoparlanti stereo che rimbombavano sul campo."
L'Azimuth Coordinator era un aggeggio comandato da Wright con un joystick che permetteva di spostare il suono in giro per la platea, spesso con sistemi quadrifonici. Ora, al di là dei pareri personali espressi qui sopra, condivisibili o meno, è interessante notare come, all'epoca, qualcosa che era stato visto già qualche volta nell'arco di un anno iniziasse a suscitare meno interesse e a perdere fascino. Se pensiamo che oggi in media un semplice tour di un qualunque artista dura almeno due anni e gli album escono ogni 4-5, certamente i tempi sono cambiati parecchio!

Il Sabato fu la prima delle due giornate più "sostanziose", con esibizioni fin dal primo pomeriggio. Il primo nome fu nientemeno che Peter Hammill, con appena venti minuti di tempo per la sua esibizione. Interessante leggere le parole di alcuni report dell'epoca, soprattutto questo di tale Lon Goddard: "La voce di Peter ricordava Roy Harper e Al Stewart, che spesso si assomigliano a vicenda nella pronuncia, aveva un buon controllo della voce che sembrava andare alla deriva proprio al di sotto di quel grado di allenamento che caratterizza un cantante abile. Testi e melodie tendono al folk, e sembra essere uno dei talenti del futuro".
Seguirono poi altri nomi come quello di Roy Harper, penalizzato anche lui da problemi tecnici, che aggiunti al cambio di programma che lo fece suonare prima e solamente per venti minuti anziché i quaranta pattuiti, finirono per farlo suonare appena per dieci minuti.
Di certo la parte del leone quel pomeriggio fu della Bonzo Dog Band che, nonostante il loro iniziale rifiuto vista la difficoltà di trasmettere il loro umorismo ad un ampio pubblico da festival, fecero un figurone. Valore aggiunto fu la presenza a sorpresa di Keith Moon, che salì sul palco inizialmente mascherato e si unì a loro suonando la batteria in I'm The Urban Spaceman, salvo poi fermarsi anche per il bis di Monster Mash. Altre fonti parlano anche di Breathalyzer Baby tra i brani suonati con Moon.

Uno dei nomi che certamente merita menzione tra coloro che si esibirono la sera sono gli allora neonati Yes (in cartellone riportati con un punto esclamativo). Tra paragoni con i ben più famosi, allora, Nice e apprezzamenti per la peculiare voce di Jon Anderson e l'interessante approccio nelle molte cover allora in scaletta, di certo un piccolo segno lo lasciarono. In particolare si può trovare online il racconto di Richard Thomas, allora membro dei Breakthru, altra band in cartellone nel festival, che fu molto colpito da Bill Bruford, tanto da smettere di seguire la band nel momento in cui se ne andò nei King Crimson.
E parlando di King Crimson: mentre tutto ciò si stava svolgendo sul palco principale, nel "village", insieme ad altre band, si esibivano proprio Fripp e soci, senza ancora aver pubblicato il primo album. La scaletta comprese solamente due brani dall'allora inedito In The Court Of The Crimson King, insieme alla cover di Get Thy Bearings di Donovan, notevolmente estesa dalle improvvisazioni, altri inediti come Mantra e Travel Weary Capricorn, alcune improvvisazioni ed il riarrangiamento di Mars di Hostl.
Di questa esibizione esiste un bootleg registrato dal pubblico, pubblicato poi dalla DGM come CD aggiuntivo nel cofanetto Epitaph. Perchè "niente foto e registrazioni ai nostri concerti però poi i bootleg li vendiamo".
Curioso poi notare come nel primo manifesto dell'evento fossero presenti anche gli Idle Race, primissima band di Jeff Lynne che avrebbe meritato molta più fortuna, appena prima dei King Crimson, salvo poi sparire dal manifesto definitivo per motivi ignoti a chi scrive. Secondo alcune fonti, però, si esibirono comunque in quello che fu il concerto di più alto profilo in assoluto per loro, anche se non ci è dato sapere quando di preciso.
Tornando al palco principale, nonostante svariati ritardi che portarono uno dei gruppi più alti in cartellone, i Fat Mattress, a non esibirsi, la chiusura è affidata agli Who. Nel pieno del tour di supporto a Tommy ed appena una settimana prima della loro leggendaria esibizione a Woodstock, la band sfoggiò la tipica scaletta dell'epoca, comprendente una manciata di singoli, un paio di cover ed una selezione di brani da Tommy, in versione ridotta per via del contesto. Il finale del concerto è ben raccontato di nuovo dalle parole di Lon Goddard:
"Dopo Substitute e Shakin' All Over Townshend ha detto:"Non ci piace arrivare, andarcene e poi tornare di nuovo, quindi avrete un bis che vi piaccia o no, ho. ho." Detto questo, Roger si lanciò in urla folli, le bacchette di Keith volarono per miglia nella notte, Pete attaccò letteralmente la sua chitarra e la tipica distruzione "a la Who" nacque di nuovo per l'occasione. Pete sbatté la sua chitarra contro il suo corpo, il pavimento e alla fine la fece schioccare a metà sopra la sua testa mentre un applauso di proporzioni senza pari partì dalla folla catturata. Un  finale che semplicemente non poteva essere seguito da niente o nessuno. Forse il più grande set che gli Who hanno fatto, non ha lasciato un'anima senza ispirazione e tutti e quattro i loro volti sono stati irradiati da puro godimento, dalla prima nota dinamica ai resti sfilacciati della chitarra di Townshend."

Tra le band più note che si esibirono la Domenica sul palco principale (escludendone molte che si esibirono al "village" di cui non esistono testimonianze, tra cui gli Affinity e i Julian's Treatment), oltre all'apertura di Ron Geesin, ci furono i Family, che stando ai racconti regalarono una magnifica esibizione, tanto da esser richiamati per un bis. Mentre ancora il pubblico richiedeva ulteriori bis ai Family, prese posto sul palco il cast del musical Hair. Scelta questa molto particolare ed audace visto il contesto, ed infatti il pubblico parve non apprezzare molto, a giudicare dagli oggetti volanti diretti verso il palco, almeno ad inizio esibizione. Le cose migliorarono, per fortuna, man mano che brani certamente più noti come Acquarius e Let The Sunshine In vennero eseguiti.

Una lunga preparazione precedette l'esibizione dei Nice di Keith Emerson, piazzata in chiusura. In questa occasione la band decise di esibirsi con l'orchestra, in linea con una tendenza che proprio in quel periodo si faceva sempre più predominante. Solamente quattro ore di prove precedettero l'esibizione, che fu martoriata da grosse differenze di volume tra la band e l'orchestra, ed una gran difficoltà per i tre dei Nice di sentirsi sul palco. Diversamente da quanto si possa credere, nonostante la presenza dell'orchestra, non fu eseguita la Five Bridges Suite, che di fatto ebbe la sua premiere qualche mese dopo, ad Ottobre. Ci fu invece un primo set con l'orchestra introdotto dal Brandenburg Concerto di Bach, un breve set centrale con solamente la band, ed una ripresa finale con band e orchestra in Rondo ed un brano di Prokofiev. Nonostante tutte le difficoltà, stando ai report dell'epoca, l'esperimento sembrò funzionare e piacque molto al pubblico presente.

Insomma, pur con tutti gli imprevisti e le difficoltà, questo festival ebbe ben poco da invidiare ai ben più blasonati eventi più o meno contemporanei (ricordiamoci che giusto una settimana dopo ci fu Woodstock e, a fine mese, l'edizione del '69 dell'isola di Wight, che non fu l'edizione più celebrata ma comunque fu molto importante), ed è un peccato che non esistano molte testimonianze. L'album live dei King Crimson ed il bootleg dei Pink Floyd linkato poco sopra sono le testimonianze più "sostanziose" ed interessanti, specialmente per i primi viste le poche registrazioni dell'epoca (mentre per quanto riguarda i Pink Floyd i bootleg di quell'anno non si contano).
Il festival mantenne questo formato eclettico e variegato ancora per un paio di anni, fino a quando si trasferì definitivamente a Reading e finì per dare spazio principalmente a musica rock, tanto da diventare, nel 1976 "Reading Rock", ed affermarsi come uno dei maggiori festival hard rock e metal nei successivi decenni.

Qui sotto qualche breve testimonianza video dell'evento: