lunedì 30 ottobre 2017

Roger Waters - Is This The Life We Really Want? (recensione)

25 anni senza un album "canonico" sono tanti per chiunque. I tour e i vari album e video live ricavati da essi lasciano il tempo che trovano quando entra in gioco la possibilità di ascoltare nuova musica dal "cervello dei Pink Floyd". La sua carriera è stata quantomeno altalenante... Pros And Cons è un album che ho adorato così come Radio Kaos, ma tra ripetitività e sonorità plasticose anni '80 sono album lontani dall'esser perfetti. Con Amused To Death sembrava invece aver trovato un equilibrio tra passato e presente, sfornando un album che se non è un capolavoro poco ci manca. Se proprio vogliamo, soffre solo della "sindrome anni '90", che si può riassumere in "wow ora abbiamo i cd, non facciamo più album da 40/50 minuti! Buttiamo dentro di tutto e di più fino a 80 minuti", risultando in album eccessivamente lunghi e farciti di riempitivi poco più che inutili. Dopodiché il nulla per anni a parte l'opera Ça ira. Quindi all'annuncio di Is This The Life We Really Want? quasi non ci si credeva! E invece eccolo fra noi, ormai da qualche mese. Un album che ho visto amare e odiare, spesso per gli stessi motivi. Non tenterò neanche di fare un track by track, premetto.
Innanzitutto è un album permeato dalla sensazione di deja vu. Si, perchè sostanzialmente potete prendere una Mother, una Pigs On The Wings, qualche spruzzatina di Sheep, testi di critica sociale e politica ed ecco l'album! Si ok, ho semplificato, è vero, però siamo lì.. E alla fine tutto si riduce a quanto ci disturba l'auto-plagio e quando ci troviamo in linea con i testi. Per quanto riguarda i testi ovviamente sono una componente fondamentale e beh, si spiegherebbe il perchè delle critiche all'album diffuse in Italia (non ce la fanno a capire l'inglese, neanche nel 2017), mentre all'estero ovviamente dipende dall'orientamento politico suppongo. Perchè è ovvia la posizione anti-Trump di Waters, ma c'è anche molto altro. C'è un finale positivo, si guarda all'importanza dell'Amore, il che rimanda un po' a Radio Kaos con il suo finale di speranza, una luce in fondo al tunnel? Ma per il resto è un album molto oscuro, tetro, con un Waters sempre carico di rabbia nonostante l'età, sincero, a tratti commovente se ci si trova in linea con i concetti espressi. E la musica aiuta, perchè è vero che guarda tanto al passato, ma con una produzione più moderna in contrasto con l'uso di synth tipicamente "settantiani" (che rimandano tanto ad Animals). Insomma un album rischioso, di cui non è quasi possibile dare giudizi oggettivi. Perchè insomma, è roba già sentita, ma se questa roba già sentita ti colpisce beh, poco da fare; così come nel caso contrario. E poi personalmente credo che pezzi come Deja Vu (titolo ironico?), Picture That, Broken Bones, la title track, Bird In A Gale, siano ottimamente concepiti ed arrangiati. C'è chi ha criticato il cantato, ma probabilmente non ha mai ascoltato altre sue cose soliste. Altri hanno criticato la mancanza di assoli di chitarra; io invece ho adorato questa scelta coraggiosa. Volete gli assoli? Mettete su Rattle That Lock di Davidone amico suo.
A me personalmente Is This The Life... piace, e sono contento di poter risentire Waters fare ciò che è "suo" per natura e concezione. E personalmente, preferisco un artista che plagia cose sue (per di più a 74 anni, dategli tregua!) piuttosto che uno stuolo di gruppi giovani che si appoggia totalmente sul passato. Non sarà il capolavoro che, dopo tutto questo tempo, era quasi lecito aspettarsi; non sarà ai livelli di Amused To Death (poche cose lo sono); ma per me è un album più che rispettabile. Spero che non sia l'ultimo... Se dovessi dargli un voto saremmo sul 7-7,5.
Ah, e sulla questione "copertina-Isgrò" di cui tanto si era parlato, personalmente io ci vedo l'ennesima figura da poveracci tipica di noi italiani. Che ovviamente di roba nostra a livello artistico negli ultimi 100 anni ne abbiam fatta ben poca senza "prendere ispirazione" da altri, quindi appena notiamo mezza cagata che altri magari hanno copiato senza neanche conoscere l'originale alè, apriti cielo. Che poi Isgrò stesso non sia stato l'inventore di questa "tecnica" aggiunge solo alla ridicolaggine della questione. Viva l'Italia.

giovedì 26 ottobre 2017

Chicago - Chicago Transit Authority (recensione)

So benissimo che molti, specialmente in Italia, conoscono i Chicago grazie alla loro fase anni anni '80 (anche se iniziò un po' prima) piena di cose smielatissime. Però nei primi anni erano uno dei gruppi più originali d'oltreoceano grazie al loro misto tra pop, rock\blues e l'uso estensivo di fiati. All'inizio pubblicavano album doppi a raffica (si, doppi!), uno all'anno, e almeno i primi 5 sono davvero ottimi.
Oggi però voglio parlare del loro primo album, Chicago Transit Authority, del 1969.
Introduction mette subito in chiaro il sound che caratterizza i primi Chicago, tanti fiati usati in modo assolutamente originale su una base spudoratamente americana, enfatizzata oltretutto dalla voce "nera" di Terry Kath, uno dei migliori chitarristi della sua generazione, tristemente poco celebrato. Il brano si districa poi calmandosi fino al bellissimo assolo del già citato Kath che ci porta alla ripresa della parte cantata: un inizio a dir poco spettacolare. Segue uno dei loro primi successi, Does Anybody Really Know What Time It Is?, che si differenzia dalla versione del singolo grazie all'introduzione di piano. Uno squisito brano che potrebbe essere cantato da Frank Sinatra, tanto da rendere l'idea. Un bel contrasto insomma! Ammetto che non si tratta proprio del "mio genere", ma in questo contesto non fa altro che evidenziare l'originalità di questa band. Beginnings è un altro pezzo celebrato e molto rappresentativo grazie anche ai cori in cui si nota la squillante voce di Peter Cetera (che in futuro guadagnerà molto più spazio). Uno dei miei pezzi preferiti è Question 67 And 68: magnifico pezzo rock con passaggi mozzafiato di Terry Kath alla chitarra, intrecci di fiati e Cetera finalmente come voce solista. Un bellissimo pop beatlesiano. Listen è un'altra canzone ben riuscita ma un po' persa in mezzo al resto, soprattutto in vista della successiva Poem 58, primo vero e proprio "showcase" per l'estro di Terry Kath nella prima metà (davvero spettacolare) per poi lasciare spazio ad una sorta di inquietante riff ad introdurre la parte cantata, sempre però coronata da intermezzi chitarristici riuscitissimi. E se ancora non ne avete avuto abbastanza, ecco Free Form Guitar: quasi 7 minuti in cui Kath tira fuori ogni suono possibile dalla sua Stratocaster. Un esperimento cacofonico che è la perfetta dimostrazione di come ottima composizione, arrangiamenti interessanti, effettive idee e sperimentazione fine a sé stessa potessero tranquillamente convivere in un solo album nel lontano 1969. South California Purples è il bluesaccio di rito (dai, sono pur sempre americani), e pur non essendo un grande fan del blues, ammetto che questo è davvero ben concepito ed ottimamente suonato. A questo punto è ora di alleggerire un po' dai; ecco quindi una cover di I'm A Man dello Spencer Davis Group. Ok, da un lato non c'è Winwood, ma in tutto il resto questa versione è nettamente superiore all'originale a mio parere: dalle percussioni ai lick di chitarra indescrivibili, si può anche perdonare loro qualche parola sbagliata nel testo, no? 8 minuti spettacolari. Seguono 2 pezzi collegati fra loro: Prologue e Someday (August 29, 1968), dove la prima è una registrazione tratta dalla protesta contro la guerra effettuata fuori l'hotel Hilton di Chicago ("The whole world is watching"). Facile poi immaginare di cosa tratti la successiva Someday, che per me è uno dei pezzi migliori dell'album e mostra quasi la direzione che seguiranno negli album successivi. L'album si chiude con i 15 minuti di Liberation, che alla fine altro non è che un brano in gran parte improvvisato e un'altra occasione per "mostrare i muscoli". Pesantuccio forse ma estremamente godibile, uno dei punti più alti dell'album.

Insomma, per molti è il loro album migliore, io gli preferisco il successivo Chicago II: lo trovo più a fuoco, con più canzoni nel vero senso del termine e meno divagazioni. Chicago Transit Authority è però un perfetto biglietto da visita per la loro primissima fase, stranezze e sperimentazioni comprese. E per essere un primo album, chapeau!
Un 8 per me.

martedì 24 ottobre 2017

Beggar's Opera - Act One (recensione)

Tempo fa fui ben felice di trovare i primi 2 album dei Beggar's Opera in un'unica confezione: quello di cui parlerò oggi, Act One, ed il successivo Time Machine. Due album molto diversi che non potrei mai raggruppare in un'unica recensione. Quindi magari prossimamente passerò al secondo, ma per ora soffermiamoci su Act One, che è oltretutto il loro album più "celebrato".
Dunque che dire, la cosa che subito colpisce della prima Poet And Peasant è un suono molto in linea con ovvi nomi “quasi contemporanei” (il quasi lo spiego dopo) come i Nice e i primissimi Deep Purple (la mark 1 dei primi 3 album); quindi aspettiamoci sostanzialmente quintalate di organo Hammond (a cura di Alan Park) e citazioni classiche a go-go. Ma siccome io adoro letteralmente queste cose, non posso che esserne felice! Poet And Peasant scorre bene con cambi di tempo, assoli davvero molto sullo stile dei Deep Purple grazie anche alla presenza anche di Ricky Gardiner alla chitarra (che collaborò anche con Bowie in Low). Da notare anche la notevole voce di Martin Griffiths. Anche il secondo Passacaglia procede sugli stessi binari, tra atmosfere classiche e assoli spesso più di circostanza che altro, ma indubbiamente ben suonati e raramente noiosi. Memory sembra essere la traccia più “normale” nei suoi 4 minuti scarsi di durata e l’assenza di citazioni classiche. Insomma un brano più “straight forward rock” che alleggerisce i toni prima dell’infinita cavalcata del secondo lato dell’album. Secondo lato occupato per metà da Raymond’s Road, che sta ai Beggar’s Opera come Rondo sta ai Nice e successivamente agli ELP: sostanzialmente è un calderone in gran parte improvvisato pieno di citazioni classiche a raffica (che da Rondo prende anche palesemente il ritmo). A sto punto o si adorano queste cose e ci si ritrova a sbavare letteralmente, o si aspetta impazienti la sua fine, a seconda dei nostri gusti; io tendo più al primo caso. La successiva Light Cavalry pare partire su binari simili alla precedente, con tanto di citazioni al can-can e altre cose belle, ma poi prende vie diverse con l’entrata della voce e numerosi cambi: a mio parere uno dei punti più alti del’album.

Un album che soffre un po’ del fatto di essere arrivato secondo me un po’ in ritardo, essendo stato pubblicato nel 1970. Insomma quando i già citati Nice e Deep Purple avevano già esplorato territori affini 2 o 3 anni prima (ecco spiegato il "quasi contemporanei" di inizio recensione), e si erano quindi già allontanati da lì, o addirittura sciolti. Ma chi ama quel tipo di sonorità grezze, le citazioni classiche, le improvvisazioni e l’organo Hammond (e magari è già fan delle band sopra citate) non potrà non amare quest’album. Un 7,5 per me.


lunedì 23 ottobre 2017

Genesis - Abacab (recensione)

Ho deciso di parlare di quest'album principalmente perchè lo vedo criticato ovunque, specialmente nel "mondo prog", mentre secondo me dei meriti li ha, e l'idea che se ne fa la gente è filtrata attraverso l'ottica del "tradimento del prog, colpa di Phil Collins, si sono svenduti" e via discorrendo. Cerchiamo di contestualizzare un attimo: siamo nel 1981, il prog è "roba superata", chiunque ne è rimasto ancorato si è visto il gruppo sciogliersi come ghiaccioli al sole sotto i colpi di punk e new wave. E fu così che gruppi come Gentle Giant, e ELP, fra chi tentò invano la strada della semplificazione e chi rinunciò prima, la morte fu comunque inevitabile. In sostanza, non è mai facile reinventarsi, ed è ancora più difficile farlo e acquistare nuovo pubblico! Si perchè anche i già citati Gentle Giant ci hanno provato a fare alcune cose pop, ma non hanno fatto certo i soldi (a dimostrazione del fatto che, a differenza di come molta gente ignorante crede, semplificare la propria musica non equivale ad avere facile successo). E poi ci furono i Genesis, orfani di coloro che, a torto, vengono tutt'ora definiti come i principali artefici del "suono Genesis" (Gabriel e Hackett), che già stavano mietendo ben più successo che in passato, e che ora si preparano a fare il grande salto. Ma quale sarebbe questo grande salto? No cari miei, non si tratta di lasciare carta bianca al signor Collins dalla brillante carriera solista nascente, quanto piuttosto di consolidare i loro metodi democratici (assenti negli anni '70 ironicamente), e di fare un conscio passo avanti stilisticamente. Quindi, come è ben documentato, via tutte le cose che "suonano come i vecchi Genesis", via i lunghi strumentali atmosferici e romantici, e spazio a ritmi squadrati e composizioni più concise in linea con i tempi. E sfido chiunque a fare un passo del genere e riuscirci. E fu così che l'unica suite, composta (nelle intenzioni iniziali) da Dodo, Lurker, Submarine e Naminanu, rimane orfana delle ultime 2 parti (uscite nei vari singoli) e si trasforma in un pur ottimo compromesso tra epicità genesiana e sonorità moderne. Tendenza evidente anche nella lunga Abacab, in cui la struttura e le sonorità spigolose fanno da padrone. Entrano i fiati in No Reply At All, cosa che molti progsters trovano insopportabile, ma andate a sentirvi le parti di basso del buon Rutherford in quel pezzo. Poi altri pezzi solidi come Me And Sarah Jane, Like It Or Not... Ovvio che una volta arrivati a Keep It Dark e, soprattutto, Who Dunnit? il vecchio fan toglie definitivamente il disco. Ma una volta il progressive non significava progredire? No perchè mentre i celebrati Marillion e IQ (che ovviamente adoro in ogni caso) facevano evidenti passi indietro segnando il primo revival della storia prog (creando in sostanza un genere che è un ossimoro vivente), i tanto odiati Genesis NON guidati da Phil Collins (ci torno dopo su questo) tentavano strade nuove. Ma poi dai, per una volta, riuscite a farvela una risata? A togliervi un po' la scopa dal deretano e godervi l'assurdità voluta di Who Dunnit? No? Volete il mellotron e la suite? Ok, contenti voi... Per me gli unici pezzi un po' debolucci sono Man On The Corner e Another Record, sopratutto quest'ultima. Quindi insomma, 2 pezzi su 9 non è poi malaccio no?
Altra cosa importante, visto che leggo ovunque che è colpa di Phil Collins, che è artefice del cambio di direzione e altre amenità simili; leggetevi i crediti dell'album. Anzi sai cosa? Visto che siete pigri, ve li copio io qui sotto:

Abacab (Banks/Collins/Rutherford) - 6:56
No Reply at All (Banks/Collins/Rutherford) - 4:37
Me and Sarah Jane (Banks) - 5:58
Keep It Dark (Banks/Collins/Rutherford) - 4:29
Dodo / Lurker (Banks/Collins/Rutherford) - 7:27
Who Dunnit? (Banks/Collins/Rutherford)- 3:23
Man on the Corner (Collins) - 4:23
Like It or Not (Rutherford) - 4:51
Another Record (Banks/Collins/Rutherford) - 4:20

Solo io noto una perfetta divisione in 3 parti? Tutti pezzi "di gruppo" e uno a testa individuale. Dai, dite ancora che sono la Phil Collins band!
Per me Abacab è un discreto album, non un capolavoro ovviamente, ma comunque più che valido se contestualizzato nei tempi in cui uscì (e oltretutto se preso come album pop ed affiancato ad uno qualunque considerabile pop oggi beh, sapete cosa voglio dire...). Ed in tal senso anche la copertina la trovo perfetta. Rappresentativa, riconoscibile, sicuramente più originale di molte copertine di album prog degli ultimi 20 anni.
Aggiungo che fu proprio grazie a Phil Collins che io scoprii il prog. Si, avete letto bene! Avevo delle cassette di album suoi solisti da piccolo, che mi portarono a scoprire i Genesis con lui alla voce e poi, di conseguenza, a quelli con Gabriel. Ironico vero? O forse ha fatto si che io veda in modo diverso certi album. Il che spiegherebbe molte cose. Certamente ha contribuito al fatto che io ammiri gli artisti che si sanno rinnovare e trovi noioso e ridondante chi va avanti a "more of the same", che è un po' ciò che è diventato negli anni il prog (motivo per cui ascolto ben più volentieri un Abacab di un Genesis Revisited del buon Hackett di cui sono fan, quando però fa album nuovi e non cover). Quindi è ovvio che chi apprezza quel tipo di cose odierà tutt'ora Abacab, così come i loro album successivi, ed è un gran peccato a mio modesto parere. Ma immagino che il mondo sia bello in quanto vario. L'importante è non permettere a limiti mentali auto-imposti di condizionare i nostri gusti.
Per me un solido 7.

domenica 22 ottobre 2017

Van Der Graaf Generator - Do Not Disturb (recensione)

Si sa che il signor Hammill non sa stare fermo, raramente passa un anno senza una sua pubblicazione con i VDGG o da solista. La cosa assurda è che nel peggiore dei casi ci si trova di fronte un lavoro di poco meno valido di altri, magari con elementi che non stupiscono, "già sentiti", ma mai un lavoro brutto. E quest'album non è da meno! Si perchè i VDGG dopo l'abbandono di David Jackson nel 2005 hanno deciso di continuare in 3, e questo comporta un aggiustamento del suono ovviamente. Aggiustamento che, a mio parere, arriva finalmente a compimento qui, dopo 2 album validissimi ma un po' meno a fuoco. Siamo di fronte ad un album che rappresenta perfettamente la band ora, con tanto di testi che riflettono la loro età. Ed ovviamente questo si ripercuote anche sulla musica, intensa, oscura, triste e malinconica a tratti, ma assolutamente matura (ed è forse ciò che differenzia questi VDGG da quelli di Pawn Hearts). Aloft dà perfettamente l'idea di ciò che la seguirà: atmosfere oscure tipiche seguite da cambi che li riporta in territori più progressive. E se la produzione è forse inferiore ai precedenti lavori e a tratti confusa, la costruzione dei pezzi segna un deciso passo avanti; tanto che gran parte dei pezzi possono essere visti come mini-suite, sempre segnati da cambi inaspettati. Bellissimi anche i pezzi più "lineari" come Alfa Berlina, in ricordo dei loro viaggi per i concerti in Italia negli anni '70, la più "pesante" Forever Falling che sembra riprendere The Hurlyburly da Trisector aggiungendoci testo e variazioni per renderla una vera e propria perla che sembra uscita da Nadir's Big Chance. Discorso simile per la devastante (Oh No I Must Have Said) Yes, malatissimo pezzo che poi si evolve in un intermezzo jazz veramente inedito per loro (riuscito o meno è difficile da dire, certo è originale). Poi Brought To Book, Almost The World e Room 1210 sono accomunate da atmosfere fosche e malinconiche come anticipavo prima, e sembrano quasi pezzi presi da un album solista di Hammill degli ultimi anni ed ampliati grazie al "trattamento VDGG" che li rende semplicemente sublimi, non saprei veramente trovare altre parole. Ed il tutto si conclude con Go, che alla luce dell'ipotesi che questo possa essere il loro ultimo album, è tanto appropriata quando commovente.
Non mi aspettavo molto da quest'album dopo gli ultimi 2 (seppur belli non erano capolavori), ma dopo qualche ascolto ho iniziato ad adorarlo quasi quanto i loro album classici. La cosa curiosa è che se si passa da un qualunque album anni '70 a questo, se non fosse per la voce di Hammill, sembra di sentire 2 band completamente diverse. Questo perchè, complice anche l'abbandono di Jackson, i VDGG sono uno dei pochissimi gruppi che non si è mai guardato indietro, che ha continuato per la sua strada imperterrito. Ed alla luce di questo per me sono l'ultimo grande gruppo progressive storico. Una volta lo dicevo anche dei King Crimson, ma ormai sono un'orchestra percussiva itinerante...
Ma comunque, un bellissimo album che forse colpirà più le persone avanti con gli anni viste le tematiche, che sicuramente si troveranno in linea con concetti e sentimenti espressi; ma che può piacere anche a tanti gggiovani sensibili a certe sonorità ed atmosfere, ne sono sicuro. Un 8,5 per me. Vi lascio il link a Spotify per ascoltarlo, ma per chi non è iscritto qui sotto trovate un paio di pezzi da Youtube.
P.S. A quanto pare il vinile ha meno canzoni ed in ordine diverso, siete avvisati. Per fortuna che io non seguo le mode e rimango fedele ai cd eheh.


sabato 21 ottobre 2017

Small Faces - Ogdens' Nut Gone Flake (recensione)

Terzo album di questa band inglese oltre che l'unico in mio possesso (per ora). Gli Small Faces sono una scoperta recente per me, e per puro caso oltretutto! Si perchè ho sempre pensato che fossero l'ennesimo gruppo pop-rock di fine anni '60 con cose carine ma non imprescindibili. Mi sbagliavo. Perchè se questa definizione si può applicare ai loro precedenti album, qui siamo su ben altri livelli! Non per niente la band si sciolse dopo questo lavoro, quasi a voler dire "ok, oltre non si può andare", e non avrebbero poi tutti i torti. Ogdens' Nut Gone Flake ricade in quel calderone di album in lizza per il titolo di "primo concept album della storia", anche se di concept c'è solo il secondo lato... Ma poco importa perchè tutto l'album è tanto figlio dei suoi tempi quanto incredibilmente godibile e pieno di trovate originali. Già l'apertura con la title track strumentale mette in chiaro che non si è di fronte ad un semplice album pop, grazie all'uso intelligente dell'orchestra su una base spudoratamente psichedelica (parola che userò molto, vi avviso). Il primo lato scorre bene con due picchi in particolare per quanto mi riguarda: la spettacolare Afterglow (Of Our Love) in cui svetta il cantato molto intenso di Steve Marriott, e l'inglesissima Lazy Sunday (con tanto di accento marcatissimo e modi di dire difficilmente comprensibili a chiunque non sia dell'est di Londra). Long Agos and Worlds Apart e Song Of A Baker riprendono un po' il loro tipico suono grezzo tinto di psichedelia che affiora qua e là in tutto l'album, mentre Rene è un po' la sorella di Lazy Sunday. Già a sto punto l'album mette in fila un pezzo più riuscito dell'altro (si perchè anche se non ho molto da dire su alcuni, sempre gran bei pezzi sono), ma ecco che arriva il secondo lato, quello "concept".

La voce di Stanley Unwin introduce la storia tra il fantasy e il surreale di Happiness Stan: "Are you all sitting comfy-bold two-square on your botty? Then I'll begin". Geniale. La storia racconta del viaggio di Stan alla ricerca della metà mancante della luna, a causa del fatto che vide solo metà luna una notte. In viaggio incontra una mosca che stava morendo di fame e la salva, in cambio la mosca dice a Stan di conoscere qualcuno in grado di aiutarlo e anche di dirgli il senso della vita! Così Stan, con una formula magica, fa ingrandire la mosca così da farsi trasportare in un viaggio alla caverna di Mad John, il quale rivela a Stan che la parte mancante della luna è solo un fatto temporaneo, indicando in cielo verso la luna piena. Stan aveva speso così tanto tempo nel suo viaggio che ora la luna era di nuovo piena! Dopodiché Mad John canta una gioiosa canzone sul senso della vita che chiude l'album.

Se c'è una cosa che adoro di certe cose psichedeliche inglesi di fine anni '60 è quella sorta di infantilismo innocente, presente anche in molte cose di Syd Barrett. Parlando della musica invece, questa seconda metà di album si apre con Happiness Stan, un bellissimo pezzo che introduce il tutto con tanto di clavicembalo per poi virare su sonorità più spinte e voce con il leslie: uno spettacolo. Tutti i pezzi sono intervallati da parti narrate dal già citato Unwin, anch'esse in uno stupendo slang che rende il tutto ancora più surreale. Tra il rock spinto di Rolling Over, le sonorità acustiche di The Hungry Intruder, la psichedelia che riaffiora in The Journey e il magnifico folk di Mad John si arriva alla gioiosa HappyDaysToyTown, perfetta chiusura di un magnifico album.

Album che consiglio a chiunque, come me, ami questo periodo storico musicalmente parlando. Un periodo in cui l'inventiva era su livelli mai più raggiunti, la musica prodotta riusciva ad essere sperimentale ma non ostica, godibile ma mai banale. Un equilibrio che non è mai più stato raggiunto. Oltre all'importanza dell'arte visiva, che in questo caso si concretizzava con un vinile in una confezione rotonda basata su una confezione di tabacco!
Un album che meriterebbe un 10 tondo per quanto mi riguarda, ma siccome oggettivamente ci sono album ancora più riusciti, mi toccherà stare sul 9, anche se abbondante!

venerdì 13 ottobre 2017

The Darkness

Allora, l'intenzione era di fare una normale recensione dell'ultimo lavoro di questa band, Pinewood Smile, ma poi ho pensato di fare qualcosa di un po' più complesso. Nel dettaglio, di fare una sorta di riassunto della loro carriera dal mio punto di vista, essendo loro una delle pochissime band (se non l'unica) che ho avuto il piacere di seguire dall'inizio della loro carriera.
Quindi, salto indietro nel 2003, con un me undicenne malato di Queen e di pochissimo altro. Ecco che all'improvviso un po' tutti i canali musicali (ebbene si, ancora c'erano ed erano rilevanti) trasmettono questo strano video di una nuova rock band con questo cantante dal falsetto incredibile. Subito non hanno propriamente attirato la mia attenzione, certo il pezzo era gradevole (I Believe in A Thing Called Love) ma non da farmi impazzire. Così come il loro secondo singolo Growing On Me, molto carino certamente. Poi esce Love Is Only A Feeling ed ecco che tra me ed i miei genitori, non so se per colpa del pezzo in questione o per quello che stavano facendo in generale, decidiamo di comprare il loro primo album: Permission To Land.

Un album rock, duro, compatto, solido, forse troppo rock per il me undicenne (che ancora non era entrato nella fase Zeppelin Purple), ma c'era qualcosa. Black Shuck e Love On The Rocks With No Ice parlano da sole sulla durezza dell'album, mitigata ogni tanto da pezzi come Friday Night e i singoli già citati. Sicuramente la voce di Justin Hawkins ha un ruolo importante in tutto ciò, e tutt'ora sono convinto che sia uno dei migliori cantanti in giro, ma le canzoni riuscivano a farsi piacere! Ciò che però mi convinse al 100% del loro valore in relazione ai miei gusti fu il singolo natalizio Christmas Time (Don't let The Bells End), secondo me l'ultima grande canzone natalizia partorita da una rock band. E già allora i parallelismi con i Queen da parte della stampa e dei critici si sprecavano, e forse anche quello mi ha spinto verso di loro. Però sinceramente non c'era molto a sostenere questo paragone, se non una sorta di (allora) leggero eclettismo un po' raro negli ambienti rock.


Ed infatti con il secondo album One Way Ticket To Hell ecco che il paragone con i Queen sembrava acquistare un senso. Non solo per la presenza di Roy Thomas Baker in sede di produttore, ma anche perchè quest'album è un bel casino in senso buono. Insomma balzano dal loro classico hard rock ad arie scozzesi in Hazel Eyes, pop in Girlfriend, cose che possono tranquillamente trovare posto in Queeen II come English Country Garden, tanti cori, arrangiamenti complessi, produzione variegata. Ho ADORATO quest'album dal momento che lo acquistai, ed indovinate un po'? Demolito dalla critica con tanto di effettivo scioglimento del gruppo l'anno dopo (anche per altri motivi certo, ma tant'è). One Way Ticket rimane per molti uno dei loro lavori più "deboli", mentre per me sta tranquillamente sul podio, direi anche al secondo posto. Molti metterebbero Permission To Land al primo, ma io no. Proseguiamo!

Salto in avanti abbastanza sostanzioso, arriviamo al 2013 con la reunion ed un nuovo album! Hot Cakes è un lavoro più che dignitoso, accolto benissimo da tutti, me compreso. Anche perchè simbolo di un ritorno in cui quasi non si sperava più. A distanza di anni ha perso un po' secondo me. Cioè, è un album più che buono, senza cadute di stile, ma anche senza pezzi epocali e particolarmente memorabili. Certo, la cover di Street Spirit dei Radiohead è uno spettacolo, Nothing's Gonna Stop Us, Every Inch Of You, Concrete, Forobidden Love, With A Woman e She's Just A Girl Eddie sono pezzi davvero molto belli, ma che non colpiscono e/o stupiscono quanto altre loro cose.



Ed infatti con Last Of Our Kind nel 2015
dimostrano di essere ancora in grado di far volare la gente dalla sedia con pezzi come Barbarian, Open Fire, Roaring Waters (un concentrato di riff da infarto), Mighty Wings e Mudslide. Alcuni dei loro migliori in assoluto. Il problema è che, tolta la title track, il resto inevitabilmente sfigura, ed è un gran peccato. Perchè pezzi come Sarah Oh Sarah, Hammer And Thongs e Conquerors sono carini, anche se non capirò mai la scelta di mettere quest'ultima (cantata dal bassista Poullain) alla fine dell'album. Insomma, con i suoi alti(ssimi) e bassi rimane una dimostrazione dell'aver finalmente riacquistato, con gli interessi, tutto il loro smalto.
Smalto che ritroviamo intatto in Pinewood Smile, il loro ultimo album. Quello che decreta l'entrata in formazione di Rufus Taylor, figlio di Roger (altri collegamenti con i Queen). Qui troviamo brani che spettinerebbero anche un calvo, come Buccaneers Of Hispaniola, Southern Trains (dai, un pezzo che insulta i treni e la loro inefficienza, hanno vinto tutto), Japanese Prisoner Of Love (capolavoro in tutti i sensi), ed il tutto senza pezzi troppo deboli. Basti dire che si sono permessi il lusso di mettere un pezzo come Uniball come bonus track nella versione deluxe, quando una qualunque band non so cosa non darebbe per essere in grado di sfornare un pezzo del genere. Ma poi l'apertura di All The Pretty Girls, inizio perfetto per l'album, la strana Stampede Of Love, le indefinibili Lay Down With Me Barbara e I Wish I Was In Heaven, che lasciano un po' così ai primi ascolti ma creano dipendenza dopo il secondo o il terzo. Insomma, lo dico, è il mio album preferito dei Darkness. Ebbene si. Una band che riesce sempre a sfornare album che nella peggiore delle ipotesi sono più che godibili. Un rock che fa dei clichè un punto di forza, lasciando di sasso nel momento in cui prendono quello stesso clichè e lo distruggono con una qualche trovata che puntualmente funziona. Una versione "seria" degli Spinal Tap. Insomma, la mia band preferita del dopo 2000, e non è poco!
Niente voti stavolta, sono mainstream, oggi gira così.
Ascoltate Pinewood Smile che è bello.

giovedì 5 ottobre 2017

Deep Purple - The Surprising (analisi video con immagini)

Oggi è uscito il quarto estratto dall'ultimo album de Deep Purple, Infinite. Trattasi di The Surprising, forse uno de picchi di quest'album (che tra l'altro ho recensito qui). Ma la cosa interessante è che ne è stato fatto un video molto carino ed interessante. In particolar modo perchè pieno zeppo di riferimenti al passato della band! Ho pensato quindi di prendermi qualche minuto e di raccogliere almeno quelli che sono riuscito a cogliere.
Quindi, qui vi metto il link al video, mentre qui sotto parlerò di ciò che ho notato.

Tralasciamo i ripetuti riferimenti agli ultimi album Now What?! ed Infinite (rispettivamente il punto interrogativo ed esclamativo e il simbolo dp a formare l'infinito), che nel video ricorrono più volte ed in più ambiti; li citerò solamente alla fine perchè, come noterete, quasi tutti i riferimenti sono in ordine cronologico.

Ed infatti il primo che ho notato si rifà al primo album della band, Shades Of Deep Purple. Nello specifico al pezzo lì contenuto Mandrake Root, titolo scritto sulla cassa alla spalle di Glover.







Poco dopo alle spalle invece di Don Airey appare nientemeno che un libro con su scritto "Taliesyn". Quindi The Book Of Taliesyn, secondo album della band. Dopodiché non ho notato riferimenti all'album "Deep Purple", terzo della band ed ultimo della Mark 1. Probabile che mi sia sfuggito, o che sia stato tralasciato in mancanza di riferimenti visivi semplici e memorabili (la copertina era un estratto di un quadro di Bosch).

Segue quindi una versione "attualizzata" della mitica copertina di In Rock, ricavata questa volta dalla rottura dei ghiacci. Ovviamente ci sarà chi si lamenterà con frasi del tipo "eh ma rifare la copertina senza Blackmore e Lord è blasfemia gne gne". Ma apprezzate una buona volta quel che avete piuttosto di rimpiangere un passato comunque abbondantemente documentato.



Ovviamente a seguire ecco un riferimento a Fireball, in questo caso un asteroide avvistato dai nostri che cade non lontano da loro.








Questa ammetto che ci ho messo un po' a notarla! Ma mentre il nostro Don Airey si appresta a guardare col cannocchiale il punto in cui è atterrato l'asteroide (ci torno dopo su questo), si può notare che il suo cannocchiale a quanto pare è stato fatto in Giappone! Chissà a cosa si riferisce quel fantomatico "Made In Japan"?
Ed ovviamente l'asteroide cadendo lascia il segno. Quindi fuoco.. E fumo... Fumo che va a formarsi sull'acqua. Ebbene si. Smoke On The Water! Effettivamente era difficile estrarre qualche particolare dalla copertina di Machine Head se ci si pensa...
Ad un certo punto la nave rompighiaccio dei nostri beniamini porporati si scontra contro qualcosa che rilascia nell'aria delle bolle colorate. Ovvio e ben studiato riferimento a Who Do We Think We Are?








In corrispondenza allo scoppio della tempesta nel video, ecco che vengono inquadrate 5 candele (che poco dopo si spegneranno). Non avranno i volti al loro interno, ma sempre un riferimento a Burn è!






Ma chi la porta questa tempesta? Beh, ovviamente il Portatore Di Tempeste (bleh, come suona poco epico in italiano)! O Stormbringer che dir si voglia. Rappresentato come un cavallo alato in cima ad una tromba d'aria, proprio come nella copertina dell'omonimo album.





Ad un certo punto ecco un bicchiere sporco di rossetto appoggiato su una cassa. Bicchiere che poco dopo, a causa della suddetta tempesta, cadrà. Anche qui, niente volti all'interno, ma ovvio riferimento a Come Taste The Band.






 Qui accade qualcosa di particolare, perchè ad un certo punto in cielo appare il classico simbolo DP a rappresentare Perfect Strangers, quindi tutto regolare. Ma poco dopo...
...dal precedente simbolo ecco spuntare un drago a ricordare The Battle Rages On. Se dal punto di vista grafico ha perfettamente senso, da quello cronologico proprio no. Essendoci infatti 2 ulteriori album in mezzo ai 2 citati. Ma a parte questo mio dubbio, bella trovata!





Dopodiché la tempesta si calma, appare l'aurora boreale, i nostri esploratori scendono a terra con la loro slitta seguendo una sorta di "donna-fantasma-miraggio" che non ho sinceramente capito se si riferisce a qualcosa, ed arrivano ad un porta nei ghiacci. Una porta da cui esce una luce blu. Eccoci quindi a The House Of Blue Light!



E cosa ci sarà mai all'interno? Ecco quindi una figura misteriosa con una sfera lucente (guarda caso color porpora) a rappresentare il sottovalutato (?) Slaves And Masters.







I nostri quindi ritornano a bordo per continuare il loro viaggio e, mentre vediamo di nuovo Glover alle prese con il binocolo, una cassa al suo fianco fa riferimento a Purpendicular.







Subito dopo ci viene rivelato cosa effettivamente stesse osservando Glover. Un uomo che si tuffa? Eeehhh si. Non chiediamoci tanto il senso delle cose arrivati a sto punto... Basti sapere che è un riferimento ad Abandon.






Anche Airey sta scrutando l'orizzonte di nuovo col suo fido cannocchiale giapponese. Ma stavolta alle sue spalle appaiono casse di banane (suppongo surgelate visto il contesto), a rappresentare, manco a dirlo, Bananas.






E dal suo cannocchiale Airey vede nientemeno che un uomo che si specchia nell'acqua o viceversa, a ricordare l'enigmatica copertina di Rapture Of The Deep.







Come anticipato, la simbologia legata agli ultimi 2 album è un po' ovunque nel video, ma mi pare giusto citare i suddetti simboli quando appaiono seguendo, appunto, l'ordine cronologico degli album. Ecco quindi che le stelle si raggruppano a formare il ?! simbolo dell'ottimo Now What?!





Il video si conclude con un chiarissimo riferimento al "leitmotiv" di Infinite. Il simbolo che sembra un misto tra le iniziali dp e l'infinito; per di più tracciato dal passaggio della nave rompighiaccio proprio come nella copertina vera e propria.








Quindi, spero che vi sia piaciuta questa mia analisi.
Vi consiglio di andare ad ascoltare tutto l'album Infinite se non l'avete ancora fatto!