lunedì 22 luglio 2019

King Crimson - Audio Diary 2014-2018 (2019) Recensione

Se avete avuto la fortuna di assistere ad un concerto del tour di quest'anno dei King Crimson, potreste aver notato questo cofanetto nel banco del merchandising, tra magliette e spille di vario tipo. Senza dubbio si tratta della cosa più interessante in vendita lì oltre alle magliette, in quanto, per ora, non in vendita altrove, e di conseguenza ho pensato di procurarmene una copia.
Di cosa si tratta? Beh, in realtà già lo scorso anno, per coloro che acquistavano il cosiddetto Royal Package, e che quindi a prezzi più o meno esorbitanti potevano entrare prima ed incontrare alcuni membri della band, c'era una versione a 4 cd di questo album in omaggio, con estratti live dal 2014 ed il 2017. Insomma questa nuova versione aggiunge un ulteriore cd che copre il 2018, con immensa felicità di chi fu soddisfatto di essersi accaparrato quel raro cofanetto lo scorso anno (il solito discorso delle "limited edition": "compra ora subito che di sicuro non lo troverai mai più... forse").
Insomma in sostanza ci sono cinque Cd piuttosto sostanziosi (siamo più o meno intorno all'ora abbondante di durata per ognuno), dedicati alle singole annate passate in tour dall'inizio di questa formazione, quindi dal 2014. Inutile dire che ci sono tante ripetizioni, soprattutto di brani come Easy Money e Level Five, ma mai all'interno dello stesso Cd, dando quindi l'impressione di trovarsi di fronte a cinque mini-live ben rappresentativi di questi ultimi anni della band.
Oltre a questo, comunque, le già citate ripetizioni raramente scadono nel totalmente ridondante, in quanto in anni di tour il suono della band è indubbiamente cambiato, quando non ci sono anche improvvisazioni di mezzo a rendere i brani diversi non solo di anno in anno, ma anche di concerto in concerto!
I Cd del 2016 e del 2017 sono forse quelli con meno sorprese, in quanto raccolgono una selezione dei cosiddetti "hot tickles": brani pubblicati gratuitamente in mp3, o a pagamento in flac, sul sito della DGM come "ricordo" rappresentativo di ogni concerto. Qui ovviamente non ci sono tutte, ma l'interno delle confezioni dei Cd illustra bene la loro provenienza, oltre a consentire un ascolto piacevole a continuativo di brani altrimenti isolati. Discorso diverso per il volume del 2015, anno in cui non erano presenti gli hot tickles, in parte per il 2018 vista la presenza di brani inediti, e soprattutto per il 2014. Se anche il solo magnifico Bolero da Lizard registrato a Pompei giustifica l'esistenza del volume del 2018, quello del 2014 è invece in un certo senso il cd più professionale tra tutti. Se infatti altrove i brani sono stati mixati più o meno alla buona dalle registrazioni da mixer, di fatto dando un po' un senso di "bootleg ufficiale", seppur di ottima qualità, il volume del 2014 presenta invece un mix ed una resa sonora decisamente più curata, più dinamica, in quanto frutto dell'abortito USA II, album live che sarebbe dovuto uscire all'epoca tratto da quel tour ma poi rimasto inedito. Al suo posto uscì il live all'Orpheum, dall'orrido mix che per fortuna non è stato replicato qui.
Ovviamente questi cinque Cd non sostituiscono i live "ufficiali", specialmente quando poi sono fatti particolarmente bene come il recente Meltdown, e di conseguenza non credo sia il punto giusto da cui iniziare a scoprire questa band; ma allo stesso tempo siamo di fronte ad un quasi perfetto e piacevolissimo riassunto dei loro ultimi anni, con quasi tutti i brani da loro suonati. Mancano infatti solamente Fracture, Discipline, Exiles, Larks' IV e la nuova Radical III, oltre sicuramente a qualche altro pezzo a tre batterie dal titolo bizzarro.
Mi è impossibile scegliere un volume tra questi ed eleggerlo al titolo di più interessante, anche se quello dedicato al 2018, grazie a brani come il già citato Bolero, Cadence And Cascade e Breathless, sicuramente ha una marcia in più, se non altro per l'assenza di questi brani dalle altre pubblicazioni live precedenti (ci sarebbe anche Moonchild, ma essendo presente anche in Meltdown...). Quello che si nota, al di là delle differenze tra la formazione a 7 del 2015/16 e quella ad 8 del 2017/18 ed i pezzi diversi in scaletta, è la crescita della band partendo da un inizio decisamente più freddo e meccanico dominato dalle tre batterie, per arrivare ad un muscolare assalto decisamente più equilibrato e coinvolgente (specialmente a partire dal 2016/17, senza nulla togliere agli anni precedenti).
Sicuramente è un cofanetto per completisti, ma d'altro canto se capitate ad un concerto dei King Crimson e volete un bel ricordo da portarvi dietro, magari non avendo altri live di questa formazione (tipo me; grazie Spotify), sicuramente lo si può prendere in considerazione.
Per dettagli vi consiglio di andare qui: https://www.discogs.com/King-Crimson-Audio-Diary-2014-2018/release/13746245

giovedì 18 luglio 2019

Robert Wyatt - Ruth Is Stranger Than Richard (1975) Recensione

Dopo un indiscutibile capolavoro come Rock Bottom era praticamente impossibile tentare di ripetersi. La perfezione di quell'album fu frutto di tanti fattori, non ultimo l'aggiunto alone di emozione dato dall'ascolto dei pezzi associandoli alla situazione di Wyatt post-incidente (nonostante fossero stati composti prima, particolare che in molti sembrano convenientemente dimenticare), ed era quindi impossibile tirare fuori qualcosa di anche solo paragonabile tentando di andare nella stessa direzione. Fu così che Wyatt decise di fare un passo indietro e di non comporre nulla, dedicandosi invece a riarrangiamenti di lavori altrui, tra cui molti suoi amici e collaboratori di lunga data. In realtà c'è anche un brano composto da Robert, ma ci arriviamo più avanti.
Di certo quel che si nota in questo lavoro è una forte tendenza all'uso di sonorità jazz, certamente frutto dei collaboratori presenti, ed in generale un tono più brillante e meno cupo del precedente album. Già tenendo conto di tutti questi fattori penso sia ovvio quanto difficile possa essere fare paragoni tra due lavori che sembrano quasi stare agli estremi come metodo e risultato, ma ciò non ha certo evitato a Rock Bottom di gettare una ingombrante ombra su un album che invece meriterebbe perlomeno altrettanta pazienza ed attenzione, senza che esso abbia la presunzione di ambire alle stesse vette emotive, ma che anzi sembri distanziarsene volutamente.
L'album è suddiviso in due metà ben distinte, nominate Side Richard e Side Ruth (ciò spiega il titolo), e curiosamente l'ordine dei due lati sembra cambiare di versione in versione dell'album, con il Side Ruth molto spesso posto in apertura (come ad esempio su Wikipedia), mentre l'ultima versione su Cd pone il Side Richard in apertura. Ciò ovviamente finisce per cambiare di molto l'esperienza di ascolto, anche se come nel dettaglio è un fatto puramente soggettivo.
Basandosi quindi sulla versione in Cd, veniamo da subito accolti dalla prima parte di Muddy Mouse, un brevissimo e bizzaro brano piano e voce composto da Fred Frith su cui Wyatt canta nel suo consueto tono acuto un testo alquanto bizzarro. Il brano riaffiora tre volte nel primo lato, intervallato dagli altri brani, e solo nella sua terza ed ultima parte si evolve in Muddy Mouth, forse il brano più vicino a Rock Bottom sia per il suo inizio nel tipico stile canoro di Wyatt che tenta di imitare gli ottoni, sia per la natura più melodica della sezione che segue, sempre con solamente piano e voce. Nel mezzo troviamo dapprima l'unico brano attribuito al solo Wyatt, Solar Flares, che in realtà è un riarrangiamento della colonna sonora dell'omonimo film sperimentale di Arthur Jones del 1973. Il brano si regge su un'ossessiva base ritmica fatta di percussioni e sax, su cui Wyatt canta una melodia senza parole in unisono al piano. Il tutto si trascina verso un crescendo finale prima del suo graduale spegnimento. Dopo la seconda sezione di Muddy Mouse ecco invece 5 Black Notes And 1 White Note, riarrangiamento di Barcarolle di Jacques Offenbach. Un pezzo leggero come l'aria, quasi impalpabile nonostante la grande quantità di note al suo interno, con il solo "difetto", se vogliamo, di non andare mai veramente da nessuna parte, e di finire senza lasciare molte tracce. Dopo la già citata terza parte di Muddy Mouse che poi lascia spazio a Muddy Mouth, si passa al lato Ruth con quello che forse è il brano più tradizionale dell'album. Soup Song arriva dai tempi dei Wilde Flowers ed è accreditata a Wyatt e Hugh Hopper, allora con il titolo di Slow Walking Talk. Si tratta di un divertente boogie con testo geniale in cui protagonista che si ritrova tra gli ingredienti di una zuppa, ovviamente contro la sua volontà, e finisce per rassegnarsi al suo destino augurando però un bel mal di pancia a chi lo mangerà.
Segue Sonia, bel brano di Mongezi Feza dominato dai fiati e con una gran bella performance del suddetto alla tromba, tra le ultime prima della sua prematura morte a fine 1975. Certamente il picco del lato Ruth è Team Spirit, brano ad opera di Phil Manzanera che finirà anche nel suo Diamond Head con il titolo Frontera. Qui siamo di nuovo in territori jazz, con però una struttura più definita ed una bella parte cantata da Wyatt (come dimenticare la storpiatura di "kiss me Hardy" in "kick me Hardy"). L'apoteosi sonora centrale dove il sax di Gary Windo sembra combattere con tutti gli altri strumenti e varie ondate elettroniche è qualcosa di spettacolare. Interessante citare il fatto che Brian Eno, presente in svariate parti dell'album, è qui accreditato alla "direct inject anti-jazz ray gun", di certo un riuscitissimo modo di far riferimento alle tensioni che hanno caratterizzato la lavorazione dell'album, specialmente tra i jazzisti ed Eno, noto per essere piuttosto lontano da quel mondo.
L'album si conclude con un riarrangiamento di Song For Che di Charlie Haden particolarmente riuscito, che fa intuire il sempre crescente, e particolarmente importante di lì a qualche anno, impegno politico di Wyatt.
Vari fattori, tra cui l'allora insodddisfazione di Wyatt nei confronti di questo album, lo portarono ad allontanarsi dalla musica per quasi un decennio, salvo la pubblicazione di singoli a sfondo politico per l'etichetta Rough Trade nei primi anni '80, poi raccolti nell'album Nothing Can Stop Us, prima del suo vero e proprio ritorno con l'album Old Rottenhat nel 1985. Ruth Is Stranger Than Richard ha quindi l'onere di essere l'unico album solista di Wyatt negli anni '70 oltre a Rock Bottom (se escludiamo The End Of An Ear del 1970, lavoro così diverso da esser spesso visto come un episodio a parte), con tutto ciò che ne consegue. Qualunque album dopo Rock Bottom non sarebbe stato all'altezza, e la scelta di Wyatt di percorrere un'altra via usando principalmente materiale altrui ha perfettamente senso, anche perchè ciò comunque non impedisce al suo stile unico di affiorare in più parti, pur con risultati decisamente più solari e positivi dell'album precedente.
Ovviamente il risultato è un lavoro frammentario, privo dell'unità tematica e sonora di Rock Bottom, e così va affrontato, senza aspettarsi da esso ciò che non è. Una volta superato questo pregiudizio ci si trova di fronte un album di gran classe, con il consueto incontro-scontro di interessanti personalità ed ispirazioni, ed un approccio libero alla musica, tanto jazz quanto l'esatto contrario.

lunedì 15 luglio 2019

King Crimson - Live at Stupinigi Sonic Park, Nichelino - 10/07/2019 (Recensione)

Da qualche anno ormai la nuova formazione dei King Crimson, costantemente oscillante tra 7 ed 8 membri, si cimenta in continui tour caratterizzati da scalette pesantemente sbilanciate verso il passato ma con brani, ovviamente, riarrangiati. Ciò è stato necessario vista la presenza dei tre batteristi Gavin Harrison, Jeremy Stacey e Pat Mastelotto, piazzati in prima fila con alle spalle Rober Fripp, Jakko Jakszyk, Tony Levin e Mel Collins. Per questo tour non è presente Bill Rieflin alle tastiere, causando quindi una redistribuzione di parti da suonare tra gli altri membri ed alcune esclusioni dalla scaletta (su tutte la suite di Lizard).

Si è trattato del primo concerto dei King Crimson per chi scrive, ma diciamo che avendo ascoltato le innumerevoli uscite live degli ultimi anni sapevo a cosa sarei andato incontro, almeno a grandi linee.
Come sempre sono arrivato in anticipo, sulle note di una inaspettata Elektrik suonata al soundcheck, ovviamente ben lontano dagli occhi del pubblico ancora fuori dai cancelli, dall'altro lato della monumentale Palazzina di Caccia d Stupinigi. Al momento di entrare ho avuto come l'impressione che sia più facile introdursi in una banca che ad un concerto de King Crimson. Passi la perquisizione degli zaini ed il divieto di introdurre i più svariati oggetti dall'effettiva o dubbia pericolosità (bottigliette, ombrelli e così via), ma fissarsi anche su dei minuscoli bricchi di tè perchè "possono anch'essi esser lanciati e quindi pericolosi" quando all'interno, per ragioni ecologiche, si vendono bicchieri in plastica rigida che se lanciati sono ben più dolorosi, mi è parso alquanto bizzarro. Senza parlare del fatto che al banco del merchandising tra cofanetti in cd ed il picco assoluto del live a Toronto in vinile quadruplo, le "armi" non mancassero. Ma vabbè, non è che ci si possa aspettare coerenza in un paesello come il nostro, né tanto meno dal signor Fripp.
Una volta dentro si mangia, si beve (acqua ovviamente, non perchè io debba guidare, ma perchè non sono mica mainstream come chi beve birra), decido di acquistare l'Audio Diary 2014-2018 di cui parlerò in una recensione dedicata prossimamente, e si aspetta. In lontananza, vicino al palco, ci sono ancora i felici abbienti che si sono potuti permettere il Royal Package, intenti a chiacchierare con David Singleton e Jeremy Stacey, con Fripp che si affaccia per qualche secondo dal palco a mo di pontefice. Una volta ultimato ciò, dall'impianto si diffonde un particolarmente ossessivo ed irritante suono, non so se opera di Fripp o di chi, mandato in loop per ore ed ore quasi a far venire il mal di testa ancor prima che iniziasse il concerto vero e proprio (grazie mille).

Ma poi il concerto finalmente inizia. Dopo il quasi comico messaggio iniziale che avvisa dell'ormai iconico divieto di fare foto e video ("...and let's have a party! yaayy!"), poche luci, niente effetti scenografici e via con un consueto "brano" delle sole tre batterie (presumo Hell Hounds Of Krim), tra il puro esercizio tecnico e l'esibizione scenografica. Non sarà l'ultima volta in cui incontreremo sezioni di questo tipo durante il concerto, e chi scrive non è un grandissimo fan di tali parti, ma devo ammettere che in questo caso il tutto ben funziona come introduzione al primo vero e proprio brano in scaletta: Larks' Tongues In Aspic, Part One. Ammetto che essendo il mio primo concerto dei King Crimson questo brano era certamente tra quelli che avrei voluto ascoltare, in quanto, a giudicare dai vari live degli ultimi anni, lo reputo uno dei punti più alti di questa formazione. Quindi pelle d'oca fin da subito e la forte ed inspiegabile sensazione che si stia per assistere ad un gran concerto. L'impatto sonoro è devastante senza essere particolarmente fastidioso, tutti gli strumenti sono ben bilanciati, e non penso di esagerare dicendo che come resa sonora sia stato uno dei migliori, se non il migliore, concerto a cui abbia mai assistito. Le tre batterie rinforzano la resa senza mai prendere del tutto il sopravvento, in un equilibrio che sicuramente si è fatto via via migliore negli anni (non nascondo che i primi album live di questa formazione non mi avevano entusiasmato, e ho notato netti miglioramenti dal 2016/2017). L'assolo centrale del fu violino di Cross è qui ovviamente affidato a Mel Collins, che si lascia andare anche ad una citazione del nostro circense inno nazionale, prima del magnifico crescendo finale che porta il brano alla conclusione.
Neanche il tempo di riprendersi che arriva Cirkus (o Circus come lo riportano nelle loro scalette?), altro brano che ha trovato nuova vita in questa formazione. Jakko se la cava egregiamente sia alla chitarra (che replica fedelmente le parti dell'album) che alla voce checché se ne dica, specialmente nel repertorio di quell'epoca, ed il suono dei due (?) Mellotron campionati si staglia poderoso in mezzo ai vorticosi interventi delle batterie ed i sempre creativi interventi di Collins. A questo punto chi scrive era già più che soddisfatto, quando ecco l'inconfondibile inizio di Moonchild con un suono spettacolare di Fripp nella melodia introduttiva. Ottima esecuzione, a mio parere un po' penalizzata dalle improvvisazioni della coda conclusiva prima di Levin, poi di Fripp ed infine di Jeremy Stacey al piano. Se Fripp ha saputo essere interessante nel suo lancinante assolo anche in un contesto di totale solitudine, lo stesso non riesco a dire di Stacey e, specialmente, di Levin, che sembravano suonare più o meno a caso. Ovviamente a seguire arriva The Court Of The Crimson King proprio come nell'album, e anche qui l'esecuzione è stata molto fedele, con l'aggiunta, inaspettata per molti del pubblico, della coda. Drumzilla, altro intermezzo a tre batterie, precede poi la nuova versione di Frame By Frame, introdotta da una sezione inedita con Jakko e Levin che armonizzano un testo nuovo su base sostanzialmente percussiva (tra l'altro confondendo molti, me compreso, che proprio non riuscivano a riconoscere di che brano si trattasse), prima di passare al pezzo vero e proprio. In generale l'impatto è impressionante, specialmente nelle sezioni strumentali (nonostante dei discutibili interventi al flauto di Mel che a volte ci stavano ed altre un po' meno e la ovvia minore velocità rispetto alle versioni del 1996), e anche Jakko alla voce se la cava bene, con l'unico punto incerto nelle note più alte, accuratamente aggirate diminuendone parzialmente l'efficacia. Fripp ovviamente in quanto non umano ha eseguito le sezioni strumentali senza alcuna sbavatura. Larks' Tongues In Aspic, Part Two segue e lo fa con una potenza indescrivibile. Il ruolo delle tre batterie qui funziona molto meglio di, ad esempio, una Red, ormai purtroppo cestinata dalle scalette, dove il ritmo veniva spezzato in modo non riuscitissimo. Qui si mantiene tutta la carica e si aggiunge ulteriore spinta, con ovviamente un Mel Collins inferocito al sax al posto del violino.
In totale contrasto ecco arrivare Islands, che negli ultimi anni si è pian piano confermata come una delle punte di diamante di questa formazione, con un Jakko totalmente a suo agio vocalmente ed in generale una resa misurata, intensa ed emozionante. E come dimenticare l'arrivo della fresca brezza serale più o meno intorno al verso "Cradle the wind to my island"...

Dopo una pausa centrale di circa venti minuti la band torna sul palco con la seconda new entry della serata, anch'essa da Discipline: The Sheltering Sky. Ammetto di sapere di essere in netta minoranza quando dico che forse è il brano che meno apprezzo da quell'album, ma riconosco anche che in generale ne ha sempre guadagnato dal vivo, fin dagli anni '80. E nonostante la formazione sia ora molto diversa e si senta quel senso di "work in progress" del nuovo arrangiamento, si è trattato comunque di una efficace performance con un Fripp particolarmente lucido a duellare con Collins, e con dei tanto perfetti quanto azzardati interventi jazzati al piano di Stacey, che fanno quasi pensare al Keith Tippett della Cat Food, tra l'altro aggiunta in questo tour ma non suonata in questo specifico concerto. Segue l'ormai consueta The ConstruKction Of Light, senza troppe sorprese, che introduce le tendenze più "metalliche" e via via più pesanti della seconda metà della scaletta, probabilmente in voluto contrasto con la più classicheggiante prima metà. Ed infatti segue Neurotica, che se da un lato perde le frenetiche strofe di Belew mantenendo solo il ritornello cantato, dall'altro guadagna una potenza che solo una formazione di questo genere sa dare, sia per gli inediti incroci di batteria che per il sempre creativo Mel Collins al sax, il quale ho come l'impressione che abbia praticamente carta bianca in questa band, più di ogni altro membro.
Indiscipline poi pare ormai essere irrinunciabile negli ultimi anni, in quanto perfetta palestra per i tre batteristi, che si alternano in modo sempre più frenetico in quella che sembra essere una "sfida all'ultimo colpo" particolarmente coinvolgente, tanto per loro quanto per il pubblico. Si conferma poi la pluricitata potenza sonora dell'intera band nel riff principale, rimangono a chi scrive alcuni dubbi sul riarrangiamento della parte vocale da parte di Jakko, pur essendo un lavoro di gran classe, e soprattutto non si può rimanere indifferenti all'entrata della tagliente chitarra di Fripp dopo la prima strofa. Dopo il conclusivo "mmi piacceh", non poteva mancare Epitaph, necessaria oasi di pace nel mezzo dell'apoteosi sonora di questa seconda parte di concerto. Ottima versione, anche questa piuttosto fedele all'originale e con un crescendo finale particolarmente efficace. Ci si avvia verso la conclusione con la devastante doppietta Radical Action II e Level Five (o LTIA V che dir si voglia, che neanche loro sembrano decidersi definitivamente), brani di epoche e formazioni diverse ma non così distanti in natura, tanto da non notarsi quasi la fine dell'uno e l'inizio dell'altro (mi è stato anche confermato dalla mia ragazza lì presente che non conosceva benissimo Level Five). Sicuramente entrambi i brani meritano ampiamente il loro posto in scaletta, in quanto apice assoluto di potenza sonora prima della consueta conclusione di concerto affidata ai classici per eccellenza dei King Crimson. Si inizia ovviamente da Starless, summa assoluta di tutto ciò che furono i Crimson anni '70, oltre che brano che negli anni ha finalmente trovato la sua dimensione in questa nuova veste, dopo un inizio (nei tour 2014/15) che sembrava non ingranare mai del tutto. Tanta emozione nella enfatica sezione iniziale, riuscitissimo il crescendo centrale con il consueto cambio di luci in rosso, e potentissimo il finale, con un Levin finalmente in grado di spingere a dovere, quasi al livello dell'inarrivabile Wetton, quasi a far tremare il terreno sotto ai piedi.
Dopo una brevissima pausa arriva l'atteso bis con l'ormai obbligatoria 21st Century Schizoid Man con assolo centrale di Gavin Harrison, e via tutti in piedi in quello che finalmente sembra quasi il "party" citato da Fripp nel messaggio registrato a inizio concerto, checché ne dicano certi fan che credevano o speravano di essere in teatro.

Dopo due ore e tre quarti è difficile chiedere di più, e credo di non esagerare dicendo che credo di aver assistito ad uno dei concerti più belli della mia vita finora, con ovviamente qualche imperfezione qua e là (dopotutto è proprio quello che rende la musica interessante), ma comunque con una resa difficilmente eguagliabile da chiunque altro, che piaccia o meno.
Ci sarebbe però da spendere due parole sul pubblico. Perché se da un lato è ovvia la presenza dei fan più accaniti, dall'altra, visto il contesto, non è difficile comprendere la presenza di persone che magari conoscono solamente In The Court, e che di conseguenza non hanno magari mai assistito ad un loro concerto e non sanno "come funziona". E proprio questo ha dato via ad un tragicomico contrasto tra chi sembrava essere ad una qualunque festa della birra, finendo per alzarsi continuamente anche durante brani importanti per bere o altro, chi prontamente ignorava il divieto di fare foto e video e veniva ripreso dalla security (non raramente aizzata dal proverbiale dito indice del sempre attento Fripp), e chi invece sembrava essere sempre sul punto di fulminare chiunque osasse azzardare un qualunque movimento di mani o bocca durante il concerto (insomma quelli che affettuosamente chiamo nazi-fan). Interessante poi che coloro i quali ho visto infrangere il divieto, e quindi fare foto o altro con i telefono, fossero tutti "over 50", con buona pace delle critiche nei confronti della "generazione degli smartphone" a cui apparterrebbe il sottoscritto (che tra l'altro non è affatto d'accordo con il divieto in questione, ma una regola è una regola). In aggiunta, poi, ho trovato ironico il fatto che personalmente abbia trovato decisamente più fastidiosa la presenza della security che si aggirava tra i posti rispetto alla presenza di telefoni in aria.
Insomma tra controlli fuori e security dentro si è trattato di uno dei concerti più blindati ed eccessivamente paranoici in natura a cui io abbia mai assistito, e non saprei dire se si tratti solamente di un segno dei tempi che cambiano o sia solo il solito Fripp.
A parte questo l'organizzazione è stata ottima, così come il concerto, che per via della sua natura complessa porta quasi a volerne vedere altri, per potersi concentrare su ulteriori elementi tra i molteplici che caratterizzano un repertorio, una band, ed un concerto più unici che rari.

Per qualche foto decisamente migliore delle mie, consiglio di fare un giro sul Road Diary di Tony Levin: https://tonylevin.com/road-diaries/king-crimson-2019-europe-tour/torino

mercoledì 3 luglio 2019

The Crazy World Of Arthur Brown - Gypsy Voodoo (2019) Recensione

Nonostante Zim Zam Zim del 2013 sembrasse essere l'ultimo album in assoluto dell'oggi settantasettenne Arthur Brown, a sorpresa e senza alcun annuncio precedente lo scorso 26 Giugno esce questo Gypsy Voodoo, anch'esso, come Zim Zam Zim, con il recentemente rispolverato nome "Crazy World". Certo non si tratta del Crazy World del primo album del 1968, quanto piuttosto un gran bel gruppetto di giovani musicisti che supportano egregiamente Arthur in concerto (ci sono in realtà due formazioni completamente diverse, una europea e una americana, a seconda di dove si svolgono i concerti, e qui sono presenti musicisti di entrambe le formazioni, con anche Pat Mastelotto non si sa precisamente dove).
Zim Zam Zim, che ho recensito qui, mi piacque parecchio, e anzi tutt'ora lo reputo tra le cose migliori mai fatte da Brown, e quindi è alquanto difficile mantenere livelli simili o addirittura alzare l'asticella, specialmente alla sua età. Ed infatti questo Gypsy Voodoo, a parere di chi scrive, sta qualche gradino più in basso per vari motivi, ma riesce comunque ad avere abbastanza punti di interesse da giustificare la sua esistenza. Su CD Baby, dove l'album è in vendita, la descrizione recita più o meno così: "Gypsy Voodoo è il culmine di un arazzo di parole, musica, ritmi, amicizia, risate e esplorazione musicale che si è sviluppato in oltre 30 anni. Arthur Brown e Mike Morgan hanno intrecciato parti narrate, Blues, Americana, Elettronica e Psichedelia".
Invitante, direi. La presenza di Mike Morgan si fa decisamente sentire, ed infatti l'album tende molto verso sonorità chitarristiche, ed in generale il suono è distorto e aggressivo. Brown canta sempre con grande autorità, e la title track in apertura ne è un perfetto esempio. Ritmi elettronici si fondono con molteplici riff chitarristici ed interventi di fiati, mentre Arthur fa impallidire intere generazioni di cantanti con un quarto della sua età.
La successiva Footsteps In The Desert è invece un più semplice brano rock, abbastanza trascurabile, salvato dalla voce di Brown. Decisamente meglio la curiosa The King, che si può quasi definire country-surf-psichedelico, e si conferma tra le cose più genuinamente malate dell'album (quanto sono belli gli interventi di chitarra e i cori stonatissimi?).
Places Of Love ci riporta di nuovo in territori rock con una forte presenza dei fiati, ma rimane un brano piuttosto monocorde nonostante i ritornelli che sicuramente funzioneranno alla grande dal vivo e i mini assoli dissonanti che vanno sempre bene.
The Mirror invece sfodera ritmi elettronici e dei riusciti intrecci di chitarre, in un pezzo che sembra essere uscito da un qualche album tra fine '70 ed inizio '80 di David Bowie.
Radiance continua su toni elettronici, questa volta decisamente più estesi e atmosferici, con Arthur a declamare versi recitati. Il pezzo scorre bene nonostante la sua ripetitività, e anzi ci regala un bellissimo assolo di chitarra sul finale. Una delle cose migliori dell'album finora.
Il livello rimane alto con Love And Peace In China, con versi che strizzano l'occhio al rap ed un magnifico ritornello decisamente oscuro. Nel mezzo affiorano riff più spinti, ed il finale è pura pazzia anarchica psichedelica. Altro grandissimo pezzo.
A questo punto l'album prende una direzione strana, rispolverando il Fire Poem e Fire, dal primissimo album del Crazy World. Si tratta di una decisione discutibile a parere di chi scrive, tuttavia giustificata dal pesante riarrangiamento di entrambe le tracce. Il Fire Poem diventa un pezzo in bilico tra l'elettronico e l'orchestrale, lasciandosi alle spalle tutta la psichedelica pazzia dell'originale, perdendo, a parere di chi scrive, molto del suo impatto. Certamente un ascolto interessante ed in linea con il resto dell'album, ma non saprei dire quanto necessario. Fire invece viene spinta oltre ogni limite immaginabile, diventando un inno hard rock nonostante l'azzeccatissima permanenza dei fiati. Certo, l'interpretazione di Brown cambia, ma la sua forza e veemenza vocale è totalmente intatta, in un altro brano dalla dubbia natura (in questi casi si tornerà sempre all'originale, c'è poco da fare), ma che si fa ascoltare molto piacevolmente.
L'album si conclude con The Kissing Tree, altro brano in gran parte narrato in linea con il resto dell'album, senza troppe sorprese, seppur godibile.
Insomma un album strano questo Gypsy Voodoo, e se da una parte è sempre un piacere sentire la voce di Arthur e, vista la sua età, ogni uscita a suo nome è letteralmente una manna dal cielo di cui dovremmo essere grati, dall'altro devo ammettere che mi ha lasciato un po' perplesso. Ripeto, arrivando da Zim Zam Zim le aspettative erano alte, ma ascoltando quest'ultima uscita si ha quasi la sensazione che il tutto inizi, passi e se ne vada senza lasciare molto dietro. Poi ovvio, uno potrebbe far notare che nella altalenante carriera di Arthur sono molteplici gli esempi di uscite non certo memorabili, anche ben peggiori di quella in questione; ma forse per la non necessaria presenza di Fire ed il Poem che occupano tempo prezioso in un lavoro che già di suo non è lunghissimo (siamo sui 45 minuti), Gypsy Voodoo dà la sensazione di essere un lavoro un pelino troppo affrettato, con punti di interesse e potenzialità (la title track, The King, The Mirror e Radiance su tutte) in mezzo a musica sicuramente godibile ma, purtroppo, spesso trascurabile.
Detto questo, nessuno è più felice del sottoscritto di vedere ancora Arthur Brown attivo come non lo fu neanche in età più giovane, con una voce ed una vitalità che vorrei avere io che ho molto meno della metà dei suoi anni. Quindi, alla luce di questo, Gypsy Voodoo merita qualche ascolto, senza la pretesa di essere un capolavoro.