mercoledì 31 gennaio 2018

The Crazy World Of Arthur Brown - Zim Zam Zim (recensione)


"You've got to hold the vision in your heart
Let the vision come back from where you'll start
Before the big-bang, before conditions begin
In the formless depths of Zim Zam Zim"

Siamo nel 2014, Arthur Brown spero che non serva presentarlo essendo letteralmente una leggenda vivente che tutti dovrebbero conoscere e celebrare, anche se tristemente non è propriamente così. Si, è quello di Fire con il suo Crazy World of Arthur Brown, ma nonostante una carriera piuttosto discontinua ha fatto anche ben altro! Gran motivo di interesse sono gli album con i Kingdom Come, così come album come Requiem, frutto di una new wave stralunata che ben rappresenta il personaggio (ascoltatevi Busha Busha). Ma dopo alti e bassi arriviamo a questo Zim Zam Zim, di nuovo a nome The Crazy World Of Arthur Brown ma con musicisti nuovi e decisamente più giovani. Si tratta di un album molto particolare, potenzialmente tra i più riusciti della sua carriera, dove Arthur balza da un genere all'altro dimostrando di possedere ancora una voce ed una capacità interpretativa che è raro vedere altrove. Zim Zam Zim pare essere il nome del protagonista, vi lascio qui un link al sito ufficiale di Arthur Brown che spiega la storia dietro. Spero che capiate l'inglese! 
L'album, come dicevo, spazia molto tra generi e atmosfere diverse, e dopo l'introduzione della title track, ecco Brown in territori vocali non lontani dal rimpianto David Bowie nella bella Want To Love. E già qui è evidente la vasta gamma di scelte sonore negli arrangiamenti, sicuramente non "moderni" ma quasi senza alcun riferimento temporale palese e assolutamente originali. Jungle Fever è un blues classico e molto "sporco", essenziale, scheletrico; ma anche il veicolo perfetto per delle acrobazie vocali che di certo non ci si aspetterebbe da un (ai tempi) settantaduenne!
Da ascoltare assolutamente. Si tocca il reggae nell'oscura The Unknown, altro gran bel brano, e si scivola in un'inaspettata ballata acustica con archi in Assun: davvero una bellissima sorpresa, con un Brown più pacato quasi a dimostrare la vasta gamma di sonorità che la sua voce è in grado di coprire. Ma è solo una cosa temporanea, ecco infatti tornare il Brown più folle nella piuttosto esplicita Muscle Of Love, che vanta anche alcuni interessanti interventi di fiati, presenti in vari punti dell'album tra l'altro. Da ascoltare se si vuole l'Arthur Brown più oscuro e malsano. Junkyard King è forse l'unico brano che non riesce a convincermi, forse a causa della sua eccessiva linearità, ma diciamo che nel totale riesce a farsi apprezzare. Per fortuna segue Light Your Light, uno dei pezzi che preferisco in assoluto in tutto l'album, la seconda parentesi "tranquilla", questa volta con un'atmosfera bellissima, positiva, da ascoltare. Unico neo forse nella produzione, o meglio nel mix, che spinge la voce di Brown fin troppo sopra al resto, ma sono piccolezze. A tenere altissimo il livello c'è la particolarissima Touched By All, che ho anche avuto il piacere di ascoltare in concerto lo scorso anno. Inizio narrato, ostinato al piano con intrecci di chitarra e mandolino e poi un continuo crescendo con sempre più strumenti fino ad uno stacco con un riff di fiati che ci porta all'ultima sezione di grande intensità, con un Brown quasi operistico che farei sentire a tanta gente che non ha la minima idea di come si canti. Un capolavoro, senza se e senza ma.
La chiusura dell'album è affidata a The Formless Depths, dalla squisita oscurità condita di percussioni tribali, inserti elettronici, altre parti narrate... Insomma, un pezzo non facilmente definibile, un po' come tutto l'album, e sicuramente non all'altezza del precedente, ma altra assoluta dimostrazione di originalità.
Un album che è stato portato a termine grazie ad una campagna di crowdfunding, e sinceramente è triste che una leggenda come lui debba ricorrere a questi mezzi, così come è triste vedere un centinaio scarso di persone a vederlo in concerto. Ma che vogliamo farci? Il mondo evidentemente gira così.
Fatevi un favore, ascoltate, o ancor meglio comprate Zim Zam Zim: non ve ne pentirete. Un album non certo perfetto, ma potenzialmente una delle migliori creature partorite da Arthur Brown, con l'incommensurabile apporto dei nuovi membri della sua band, che hanno reso tutto ciò possibile. Ulteriore lampante dimostrazione che l'originalità ormai spesso sta al di fuori del prog, oppure che forse i generi sono una perdita di tempo. Un 9 pieno come voto. 
Qui sotto vi lascio qualche video, ma se volete ascoltarlo per intero, qui potete trovarlo su Spotify.

martedì 30 gennaio 2018

Phil Collins - ...But Seriously (recensione - speciale compleanno)

Ho pensato di spendere qualche parola oggi su uno degli album che preferisco della carriera solista di Phil Collins, in occasione del suo compleanno. Ricordo ancora quando ero nel pieno degli anni '90 e ancora, almeno per quanto mi riguarda, nel periodo dominato dalle musicassette. Passai poi ai CD intorno agli 8 anni, in modo graduale. Prima di allora i miei ascolti erano al 90% i Queen, band che non ringrazierò mai abbastanza per aver formato i miei gusti musicali ed aver impedito la formazione di barriere tra generi nella mia testa; ma non c'erano solo loro. I miei genitori avevano ovviamente varie cassette, e tra una raccolta degli Eagles e una dei Supertramp c'era questo ...But Seriously, comprato ai tempi pensando fosse una raccolta, visto l'alto numero di brani famosi lì contenuti (e l'effettiva mancanza di informazioni rispetto alla sovrabbondanza di oggi, sempre se si è disposti a cercarle, e mi riferisco soprattutto a quelli che ancora dicono "Phil Collins ha rovinato i Genesis gne gne" senza sapere un cazzo delle dinamiche del gruppo e dei crediti nei brani). 
...But Seriously arriva sul finire degli anni '80 e sotto certi aspetti è forse l'ultimo album di enorme successo legato alla figura di Collins solista. I successivi Both Sides, Dance Into The Light e Testify, seppur oscillanti tra l'ottimo e il discreto, hanno si raggiunto grandi numeri, così come i tour seguenti, però è ovvio che il periodo "Re Mida" è in gran parte confinato agli anni '80. Periodo che è culminato con la doppietta No Jacket Required - Invisible Touch, con apparizioni in Miami Vice, enormi tour, la famosa vicenda del Live Aid... Dopo tutto questo frastuono esce ...But Seriously: un album sempre di ottimo pop e con una manciata di tracce che ancora oggi sono tra le più ricordate di Collins, ma a tratti decisamente più raffinato dei lavori immediatamente precedenti. Insomma, vero che mancano i picchi di Face Value e alcune cose di Hello I Must Be Going, ma quello che abbiamo qui è un album di pop maturo e ben fatto, dall'inizio alla fine.
E se l'inizio sembra sbatterci in faccia un'ondata di anni '80, in realtà Hang In Long Enough riesce a portare le caratteristiche di una Sussudio fuori dall'irritabilità. Ritmo contagioso, fiati strabordanti, ma sarà l'uso di una batteria acustica (finalmente) o altro, secondo me funziona decisamente meglio. Le successive That's Just The Way It Is e Do You Remember? ci riportano il Phil delle ballate: e se la seconda è, seppur apprezzabile, tipica del suo stile; la prima, pur restando in territori simili conditi di drum machine, è il primo segno di un pizzico di serietà presente in questo album (riferendosi al conflitto nordirlandese in atto in quegli anni), quasi a volersi un po' distaccare dal gioioso folletto che pochi anni prima rimbalzava tra Londra e Philadelphia in poche ore. Bellissime anche le armonie di David Crosby. Something Happened On The Way To Heaven è un altro classico pezzone "alla Phil" con tanto di fiati e ritornello da stadio, non per niente è ancora in scaletta oggi. Non mi ha mai fatto troppo impazzire, ma in fondo niente male. Con Colours le cose si fanno un pochino più interessanti. Il brano infatti è suddiviso in 2 sezioni sostanzialmente, quasi a formare una mini-suite pop inedita per Phil solista. Il testo è un'altra invettiva in difesa dei più deboli (in questo caso contro la segregazione razziale in Sudafrica), tema che a grandi linee pare essere ricorrente in questo album. Ovviamente all'epoca si è preso non poche critiche sull'apparente ipocrisia della cosa: "una ricca popstar che ci fa la predica sui più deboli", ignorando il fatto che Phil era ed è tutt'ora coinvolto e supporta varie associazioni di beneficenza. Insomma, personalmente mi fido più di lui che di un Bono a caso. Colours è uno dei picchi dell'album senza dubbio, che dimostra un Collins decisamente più maturo come compositore rispetto agli album precedenti. I Wish It Would Rain Down è una delle ballate più "canoniche" arricchita (a seconda dei punti di vista) dalla presenza di Clapton alla chitarra; e tra cori che sfiorano il gospel ed un Phil che si spinge al massimo della sua estensione vocale, ammetto che si tratta comunque, nella sua canonicità, di un gran bel pezzo pop.
All'epoca giravo la cassetta e trovavo Another Day In Paradise. Serve dire qualcosa a riguardo? Altro pezzo in difesa dei più deboli, i senzatetto in questo caso, e probabilmente un valido candidato al titolo di "pezzo pop anni '80 perfetto" a mio parere. Heat On The Street è un altro brano discreto, niente di miracoloso, ma ha la sua funzione tra Another Day In Paradise e la successiva All Of My Life. Altro capolavoro di questo album a mio parere, All Of My Life parte con una languida parte di sax per poi diventare un'altra gran bella ballata (meglio di I Wish It Would Rain Down a mio modesto parere) arricchita oltretutto dall'hammond di Steve Winwood. Bellissima. Saturday Night And Sunday Morning è un breve intermezzo strumentale che sembra messo lì un po' a caso, ma rappresenta chiaramente l'altra grande passione di Collins per il jazz da big band, cosa che esplorerà ampiamente nel decennio successivo.
Father To Son segue, ed è uno dei brani più sinceri e toccanti dell'album. Per una volta Phil non si strugge per qualche divorzio, ma canta quasi una sorta di lettera ad un figlio da parte di un padre: davvero bella nella sua semplicità. Chiude l'album Find A Way To My Heart, a mio parere una hit mancata. Un brano tipico nel suo stile, fiati compresi; una sorta di "nuova" Take Me Home, e forse penalizzata da questa leggera somiglianza strutturale, però a mio parere non meno valida, anzi! Se comprate la nuova versione dell'album, uscita nel 2016, troverete un secondo CD infarcito di demo e versioni live di brani dell'album; ma tra le altre cose ci sono anche That's How I Feel e You've Been In Love (That Little Bit Too Long), interessanti aggiunte in linea con l'album, che all'epoca credo fossero lati B di qualche singolo: Oltre alla sempre toccante versione live di Always.
Insomma, un album che, credeteci o meno, ho imparato ad apprezzare nel tempo. Si, perchè da bambino questa cassetta mica mi piaceva tanto, volevo sempre i Queen! Però da qui sono arrivato ai Genesis, considerandoli come una valida aggiunta e un'ottima occasione per sentire nuove canzoni con Phil Collins alla voce. Solo dopo ho scoperto i primi album, e da lì il progressive. Insomma, ho scoperto il prog grazie a Phil Collins e a ...But Seriously. Per alcuni sarà stato la rovina del prog, per me è stato l'inizio di grandi scoperte. E se a questo aggiungiamo il mio rifiuto verso la chiusura mentale causata dai generi e la presunta superiorità oggettiva di alcuni nei confronti di altri (perchè di gusti si tratta e non vedo perchè uno debba escluderne un altro), si può capire i motivi per cui sono e sarò sempre un fan di Phil Collins.  
Un album che ora riascolto con molto piacere, e che in ambito pop si dimostra come giusto equilibrio tra formule rodate e semplici belle canzoni. Un 8 per me. 
Ah dimenticavo, buon compleanno Phil!!!
P.S. Se non avete ancora letto la sua autobiografia, fatelo. Oltre ad essere una bella lettura scorrevole, potrebbe farvi cambiare punto di vista su di lui, specialmente se ancora lo accusate di "tradimento al prog" o amenità simili. 

domenica 28 gennaio 2018

Quella volta che Keith Moon salì sul palco con i Led Zeppelin (con foto e video)








Siamo al Forum di Los Angeles, alla terza serata consecutiva di 5, il 23 Giugno 1977. Di queste serate esistono vari bootleg, tra i più famosi in assoluto dei Led Zeppelin: ricordo Listen To This Eddie, registrato il 21 Giugno, e quello in questione, conosciuto come For Badgeholders Only, della serata del 23.Tutti provenienti dall'ottimo lavoro del famoso Mike Millard, che presentandosi in sedia a rotelle poteva garantirsi ottimi posti e abbondante spazio per apparecchiature di qualità sotto la seduta.
Siamo alla fine del secondo gruppo di date nordamericane di un infinito tour, che si sarebbe dovuto concludere dopo il terzo gruppo di date, purtroppo sospese dopo solo 4 concerti a causa della morte del figlio di Robert Plant. Perchè "For Badgeholders Only"? Principalmente perchè per qualche motivo Plant, nelle sue tipiche "plantations" continua a far battute su questi "badgeholders", e da qui il titolo. Oltre ad essere un ottimo bootleg come qualità e performance, uno dei motivi per cui viene ricordato è l'apparizione di un inebriato Keith Moon sul palco durante il concerto. Testimoni dicono di averlo visto già durante l'assolo di John Bonham, Moby Dick, correre intorno alla batteria e prendere a testate il gong, per poi unirsi a Bonham ai timpani. Non fatico a crederlo conoscendo il tipo! Quello che invece possiamo ammirare oggi grazie a dei video amatoriali (ecco, questo si collega perfettamente al mio precedente articolo sulle foto, video e registrazioni ai concerti), è il suo ritorno per i bis.
In un'atmosfera piuttosto giocosa, con Plant dietro la batteria (!!), Moon si avvicina al microfono ed inizia a blaterare frasi piuttosto sconclusionate sul rock, sugli interpreti... Immagino sia stato il suo modo di fare complimenti ai ragazzi del dirigibile, prima di essere interrotto da Plant che finalmente lo presenta. Ciò che segue è il canonico bis di questo tour: un medley con Whole Lotta Love e Rock And Roll. La differenza è proprio la permanenza di Moon sul palco, che in linea con la sua tipica anarchia percussionistica, si prodiga tra un tamburello fornitogli da Bonham e i timpani. Creando una sublime cacofonia che culmina nel finale di Rock And Roll, dove le classiche rullate di Bonham nascono come un botta e risposta quasi comico tra i due e culminano letteralmente in una valanga di percussioni. Un momento che definire storico è riduttivo. Tristemente sarà l'ultima apparizione di Keith Moon su di un palco in America. Qui sotto trovate un video con vari frammenti del concerto; la parte con Moon la trovate intorno ai 5 minuti e mezzo.

P.S. L'anno prima, nel 1976, a sua volta un John Bonham similmente alticcio (forse anche di più), si presentò nel backstage ad un concerto dei Deep Purple al Nassau Coliseum di Long Island, durante il tour di Come Taste The Band. Appena scorse un microfono libero sul palco non perse l'occasione, si avvicinò e disse: "Sono John Bonham dei Led Zeppelin e voglio semplicemente annunciarvi che abbiamo un nuovo album in uscita: si chiama Presence e, cazzo, è fantastico!". E come se non bastasse quel momento di auto-promozione, prima di andarsene aggiunse: "E per quanto riguarda Tommy Bolin, non sa suonare una merda!". Episodio confermato più volte da varie fonti.

sabato 27 gennaio 2018

Foto, video e registrazioni ai concerti: il mio punto di vista.

Piccola premessa: so che è un discorso piuttosto complesso e che ognuno ha una sua idea che comunque è rispettabile, ma proverò qui ad esporre la mia personalissima opinione.
Diciamo che la questione, per quanto mi riguarda, è nata a causa dell'attuale approccio dei King Crimson, cresciuta a Veruno con i Procol Harum, e culminata con la recente notizia di Jack White e il suo divieto all'uso degli smartphone. Vi risparmio la lettura se volete andare subito al sodo: io sono favorevole alle foto, video e registrazioni ai concerti.
Ebbene si, so che è un'opinione controversa, ma cercherò di argomentare per punti, così non mi perdo.

1 - "Non ti godi il concerto". Spesso in cima a certi discorsi è l'affermazione sul fatto che facendo video, foto o registrando tu non possa goderti appieno il concerto. Allora, io negli ultimi 11 anni (ne ho 25) ho avuto la fortuna di vedere un po' di concerti di varia importanza. I primissimi li ho visti senza far foto, senza riprendere, senza fare nulla; i più recenti invece, in gran parte, l'opposto. E la cosa curiosa è che uno dei concerti più memorabili e "sentiti" a cui io abbia avuto il piacere di partecipare è stato il Crazy World Of Arthur Brown al FIM di Erba lo scorso Maggio. Concerto che ho ripreso INTERAMENTE ma anche l'unico a causa di cui provo ancora la pelle d'oca a ripensare ad alcuni momenti (su tutti Time Captives). Sensazione che le riprese non mi hanno impedito di provare anche durante il concerto, anzi. Discorso simile per il recente concerto di Peter Hammill a Milano: entrambi ripresi tenendo la videocamera fissa davanti a me e godendomi comunque il momento senza preoccuparmene troppo. Sapete, non è così difficile in fondo. I Procol Harum a Veruno hanno chiesto espressamente di non far foto e non riprendere, mi sono goduto di più il concerto? Sinceramente no, è stato esattamente lo stesso per quanto mi riguarda. Si, lo so, shock, ma pazienza.

2 - Il valore unico di certe esibizioni. Ci sono concerti che, per natura, sono unici, irripetibili, e l'unico modo per preservare la memoria di questi eventi è, spesso, riprenderli. O registrarli, a seconda. Mi spiego: Peter Hammill nel tour italiano ha suonato quasi un centinaio di pezzi, molti era da tanto tempo che non li riproponeva, e oltre a questo spesso si è trattato di performance migliori rispetto agli ultimi anni. Si sa quasi per certo che non uscirà alcun album live da questo tour purtroppo, però per fortuna c'è chi ha ripreso alcuni momenti (tra cui il sottoscritto). Ora possiamo goderci ottime versioni live di La Rossa, Skin, Sitting Targets, Rubicon, tutte cose che altrimenti si sarebbero perse in un mare di ricordi soggettivi oralmente trasmessi. E ci saremmo un pochino maledetti per non averne avuto testimonianza un po' come per il tour di The Lamb dei Genesis. Discorso simile per i bootleg ovviamente, che esistono da decenni e meno male che esistono! E si, mi riferisco anche a chi ora fa tanto il paladino del "no foto, no video, no registrazioni" e poi pubblica cofanetti enormi con registrazioni di concerti a volte anche tratte da bootleg. "Eh ma quelli sono concerti storici". Si, è vero, ma coloro che hanno avuto il coraggio di registrarli all'epoca lo sapevano? E come sappiamo oggi cosa sarà "storico" tra quarant'anni? Ora, è ovvio che io qui mi riferivo a Fripp e agli attuali King Crimson (ma non solo), ma è un esempio volutamente estremizzato: nel loro caso oggi è effettivamente inutile registrare e/o filmare i concerti vista l'abbondanza di pubblicazioni ufficiali (e diciamocelo, scenicamente parlando non c'è molto a cui far foto dopotutto). Ma non per tutti è così! Il vecchio discorso insomma: non ha senso per me impedire registrazioni e filmati, quanto piuttosto renderli obsoleti facendo di meglio con pubblicazioni ufficiali. E magari uscire dalla mentalità del "i bootleg danneggiano il mercato dei dischi" che oggi è più "i video col telefonino sono brutti e non posso suonare pezzi nuovi prima dell'uscita che se no sono subito su internet". Come se i fan non comprassero comunque l'album una volta uscito perchè "tanto uno l'ha ripreso col telefonino quel pezzo". Se il tuo album non suona meglio di quei video credo tu abbia dei problemi.

3 - Il punto di vista di chi è stato "dall'altra parte". Si, perchè ora non suono quasi più in giro, ma nel mio piccolo per un po' l'ho fatto. E che dire? Mi davano fastidio foto con o senza flash, smartphone che facevano video o registrazioni? No! Anzi ero io stesso ad invitare a farne il più possibile, per aver testimonianza di quegli eventi. Non mi ricordo di esser stato distratto una singola volta da qualcosa del genere, neanche in "serate no". Quindi mi si scusi se non capisco tutta questa enorme situazione da parte di certi artisti.

4 - Il punto di vista dal pubblico. Allo stesso tempo non ricordo una singola volta in cui sono stato infastidito o distratto da qualcuno che riprendeva o faceva foto mentre ero tra il pubblico. Sarò stato fortunato, che devo dirvi. Sarà che non mi distraggo facilmente, saprò concentrarmi su una cosa meglio della media. O sarà che non ho odio represso verso certa gente magari inculcato dal mio idolo le cui parole per me sono Bibbia. Booooh. Fatto sta che ricordo invece il momento di sconforto quando a Veruno i Procol Harum chiesero di non fare foto e video. Non me ne sono lamentato poi tanto perchè era comunque un festival gratis, però so di gente che per aver fatto una veloce foto di qualche secondo si è quasi presa una sberla... Quindi io nel mio piccolo dico: ha senso creare un'atmosfera di odio reciproco per queste cose? Non si può vivere serenamente un evento ognuno a modo suo? Vuoi riprendere? Bene! Non vuoi? Non farlo! Il problema è solo il rispetto reciproco, che spesso viene a mancare da entrambe le parti. Perchè è vero che ci sono sicuramente persone moleste ai concerti, ma cari miei, volete farmi credere che senza smartphone queste non ci sarebbero? No, perchè io non mi ricorderò di essere stato distratto da degli smartphone, ma mi ricordo chiaramente la scocciatura di persone più alte di me che mi coprivano la visuale di gran parte del palco. Non per questo arriverò a chiedere la decapitazione a chi supera il metro e 80 all'entrata... Credo... O incatenare la gente che balla perchè mi viene a sbattere addosso...

Insomma io sono dell'idea che se tu pubblico hai pagato un biglietto, spesso anche non economico, per partecipare ad un concerto, ad un evento, puoi e devi potertelo godere come vuoi. Credo sia comunque nella natura umana volere un ricordo, qualunque esso sia, del suddetto evento. Ovviamente entro certi limiti di convivenza civile, ma il buon senso ci va da entrambe le parti, altrimenti si passa dalla parte del torto a prescindere dalle proprie idee.

venerdì 26 gennaio 2018

Peter Hammill - Nadir's Big Chance (recensione)

L'album rivoluzionario, "quello punk", quello che dimostra la lungimiranza di Peter Hammill in anni di imminenti cambiamenti. Insomma un album importante che purtroppo non viene ricordato e/o citato quanto meriterebbe, un po' come ogni cosa su cui abbia messo mano il signor Hammill.
Siamo a fine 1974 (si, l'album uscì nel '75, ma fu registrato a Dicembre 1974), i Van Der Graaf Generator si sciolsero qualche anno prima ed erano ormai prossimi alla riformazione; questa "pausa" ha permesso a Peter di avviare una ottima carriera solista (pur con l'aiuto dei vari membri dei VDGG molto spesso), e gli altri di dedicarsi al progetto The Long Hello. Quando però risulta ovvia la riformazione, Hammill decide di riservare i brani un po' più "complessi" all'imminente nuovo lavoro targato VDGG (che sarà Godbluff), e di riempire questo Nadir's Big Chance di "semplici canzoni". Il tutto, di fatto, suonato dai Van Der Graaf al completo. Canzoni però un po' particolari, frutto di questa sua sorta di "alter ego" che risponde al nome di Rikki Nadir. Una figura non così tanto diversa, culturalmente parlando, dal Rael di Genesiana memoria, soprattutto alla luce del forte contrasto con l'immaginario immediatamente precedente che caratterizzava il cosiddetto "progressive rock", spesso in bilico tra fiaba, citazioni letterarie e semplice immaginazione. Insomma, un personaggio in giacca di pelle che vuole "distruggere il sistema con una canzone", a fine 1974, era piuttosto rivoluzionario. Così come lo era uno dei termini usato dallo stesso Hammill per definire le canzoni, molto varie, di questo album: "the beefy punk songs, the weepy ballads, the soul struts". Punk, questa parolina che pare sia usata qui per la prima volta in ambito musicale, sostanzialmente uno o quasi due anni prima dell'esplosione del suddetto genere. Non che la cosa non fosse già nell'aria, ed infatti personaggi più lungimiranti come lo stesso Hammill, Peter Gabriel e Robert Fripp già stavano "fuggendo" dalle grandiosità del cosiddetto progressive per approdare in territori anche molto diversi. Chi invece si ostinò a proseguire su quella strada beh, dovette presto arrendersi all'evidenza purtroppo. Eh si, erano ancora anni di progresso musicale, che piaccia o meno, cosa che oggi sembra così lontana...
E musicalmente l'album ha effettivamente elementi che caratterizzeranno il punk come genere: la stessa title track, la non troppo diversa Birthday Special, l'esagerata Nobody's Business (giusto un po' di delay sulla voce eh), Two Or Three Spectres, anche la leggermente più complessa Open Your Eyes volendo... Chitarra distorta in primo piano, voce urlata, semplici strutture con pochi accordi, ritmo in 4/4 drittissimo... Insomma è forse l'album in parte più aggressivo di Hammill, con elementi che ritroveremo anche in lavori successivi (penso a Crying Wolf nell'ottimo Over, Pushing Thirty di The Future Now, alcune cose di Sitting Targets...). Però non è tutto, perchè Nadir's Big Chance è anche un album molto vario, forse in grado di essere affiancato a Fool's Mate per questo aspetto. Troviamo anche due magnifici pezzi più lenti: la bellissima Shingle Song e la non meno toccante Been Away So Long, scritta da Chris Judge Smith (primo ma non ultimo suo brano coverizzato da Hammill), entrambe riproposte ancora oggi in concerto. C'è poi la fascinosa Pompeii, la sottovalutata Airport (che adoro), ed infine il ripescaggio di People You Were Going To, vecchio singolo dei primissimi VDGG qui rallentato e riarrangiato.
Si tratta di un concept album? Non saprei sinceramente, in parte direi di si, ma non nel senso comune del termine: non c'è una storia a legare i brani, quanto forse piuttosto l'idea che sia il protagonista Nadir a cantare queste canzoni. In questo senso non so se si può definire concept album, ma ce ne sono di molto meno consistenti, quindi perchè no?
Interessante notare che l'album fu praticamente concepito e registrato quasi in contemporanea con Godbluff, e suonato dalle stesse persone (con Hugh Banton più occupato al basso che alle tastiere). E si che Godbluff ha sicuramente un approccio un po' più "punk" rispetto ad un Pawn Hearts, però insomma, c'è comunque un bel contrasto con Nadir! A dimostrazione sia della versatilità sia di Hammill come autore che di tutti i membri dei VDGG come musicisti. E poi dai diciamocelo, sentire un pezzo punk con un doppio sax di supporto non capita tutti i giorni! Insomma, un album importante storicamente ed allo stesso tempo godibile e pieno di fascino. Merita di essere ascoltato e sicuramente ben più conosciuto di quanto effettivamente lo sia. Ammetto che non si tratta del mio album preferito tra quelli che conosco della sterminata produzione Hammilliana (il trono credo se lo giochino Silent Corner, In Camera e Over, piuttosto banalmente), però credo che se dovessi dargli un voto si meriterebbe un 8,5.

giovedì 25 gennaio 2018

Elton John - Farewell Yellow Brick Road (l'annuncio dell'ultimo tour e il TG5 che non se ne accorge)


Ieri nel tardo pomeriggio Elton John ha annunciato quello che sarà, pare veramente, l'ultimo tour. Tre anni in giro per il mondo con quella che pare essere la produzione più grandiosa della sua carriera, per poi potersi dedicare alla famiglia. Ovviamente Elton ha subito precisato che questo non significa un totale stop alle attività! Parla infatti di nuova musica, un libro, un film, musical... Insomma basta tour, ma non basta musica e derivati! L'annuncio è stato fatto in diretta su YouTube e presumo altre piattaforme: Tiny Dancer e I'm Still Standing suonate in versione piano e voce, e poi l'annuncio, breve ma chiaro. Tutto questo tra le 18:00 e le 19:00 ora italiana, non ricordo precisamente i minuti.
Fatto sta che poi successivamente, mentre cenavo, il magnifico TG5 dell 20:00 esordisce con: "Elton John vuole annunciare il suo ritiro, quindi i concerti di questo Febbraio potrebbero essere gli ultimi. Attesa in serata una conferenza stampa per l'annuncio". Mi chiedo su che pianeta vivono, visto che la conferenza stampa c'è stata più di un'ora prima. Facevano più bella figura a non citare proprio la notizia ed aspettare di avere tutto il materiale. Ma si sa, ormai l'informazione televisiva rincorre affannosamente quella su Internet, con risultati spesso zoppicanti come questo.
In ogni caso, a questo link potete trovare le date per ora annunciate, la prevendita per le date nordamericane del prossimo autunno saranno dal 2 Febbraio: https://www.eltonjohn.com/tours
...mi chiedo se quelli del TG5 stiano ancora aspettando la conferenza stampa...
Per fortuna che innumerevoli altre fonti di informazione si sono svegliate in tempo.

mercoledì 24 gennaio 2018

Led Zeppelin - How The West Was Won - Deluxe Editions

Fresco fresco l'annuncio della riedizione di questo magnifico live dei Led Zeppelin, registrato tra il forum di Los Angeles e la Long Beach Arena nell'estate del 1972. Probabilmente l'ultimo "colpo di coda" nell'infinita serie di rimasterizzazioni dell'intero catalogo iniziata nel 2014 da Page. O almeno si spera, a meno che non decida di ri-rimasterizzare anche The Song Remains The Same, che sono già passati "ben" 11 anni eh... Ironia a parte, è evidente che si tratti del primo passo per le celebrazioni del cinquantesimo anniversario della nascita della band, e ovviamente Page coglie l'occasione per riproporre l'album in edizioni varie come quadruplo vinile, Blu-Ray audio anche in 5.1 e versione mega deluxe con tutti questi supporti e probabilmente anche di più, in uscita il 23 Marzo.
Ok, posso far entrare il vecchio brontolone che è in me? La domanda è: perchè? Perchè non approfittare dell'occasione per dare qualcosina in più? Certo, rimane probabilmente il miglior live ufficiale dei Led Zeppelin, ma sotto questo punto di vista la vecchia versione bastava e avanzava, soprattutto visto che questa nuova non offre nulla di più (davvero un live dei Led Zeppelin in 5.1? Quando è credenza comune che il modo migliore per coglier l'atmosfera dei loro concerti siano i bootleg? Ironico). Ma lamentele sterili a parte, quello che più mi dispiace è l'ennesima occasione persa per presentare un concerto completo. Si, perchè se è vero che comunque 3 CD e 4 vinili sono tanti, è anche vero che, specialmente sui CD (non parliamo del Blu-Ray), di spazio ne avanza (ricordo specialmente gli ultimi 2 cd che superavano di poco i 40 minuti a testa), e se a questo aggiungiamo che a quei concerti suonarono anche Tangerine, Thank You e Communication Breakdown, capite il mio punto di vista... E non mi addentro neanche in tagli alle improvvisazioni, ai medley e la totale assenza dei sempre godibilissimi, e spesso carichi di humour, intermezzi parlati di Plant: le famose "Plantations", come le chiamano i fan. 
Insomma, riproporre lo stesso esatto album mi pare un po', come dire, meh....
La speranza è che non sia tutto per quest'anno, tralasciando insistenti, insensate, ed inutili richieste per una reunion che c'è già stata più volte, la speranza è in un live effettivamente nuovo. Page parla di "brani mai sentiti" in uscita quest'anno, chissà cosa intende? In ogni caso, questa nuova edizione di How The West Was Won è disponibile in pre-ordine sui soliti siti; speriamo almeno che sia stato fatto un remix meno succube alla loudness war...

martedì 23 gennaio 2018

String Driven Thing - The Machine That Cried (recensione)

Gruppo curioso questi String Driven Thing. Dopo un inizio un po' incerto a fine anni '60 con un primo, omonimo, album ormai introvabile, i fratelli Chris e Pauline Adams entrano a far parte della mitica Charisma di Tony Stratton-Smith nel 1972. Nello stesso periodo entra a far parte della band un giovane violinista di nome Graham Smith, che successivamente porterà avanti la band con altri membri fino ad arrivare alla forse più nota collaborazione con Peter Hammill e gli ultimi Van Der Graaf anni '70. Insomma nel '72 arriva un altro album omonimo, in bilico fra folk e blues ma con il violino di Smith sempre presente ed originale. Un album godibile che consiglio, se non altro, almeno per Circus; gran bel pezzo. Curiosa anche l'assenza di un batterista in quest'album, sostituito dalle percussioni suonate da Pauline Adams. Oggi però voglio parlare del loro album del 1973: The Machine That Cried.
Una creatura molto diversa dal precedente album. Si notano ancora il folk e il blues, ma il tutto è portato oltre, ad altezze incredibili in tutti i sensi. Un album oscuro, probabilmente anche a causa dei problemi di salute di Chris Adams sofferti durante la registrazione (ricordo che purtroppo è venuto a mancare recentemente, nel 2016). La prima traccia, Heartfeeder, credo che sia un esempio perfetto di ciò che intendo: una cavalcata trascinante dominata dalla lacerante voce di Chris occasionalmente accompagnato da Pauline e cesellata da interventi di Smith al violino tra i più intensi ed originali che io abbia mai ascoltato, in qualunque genere. Trovo sia impossibile rimanere indifferenti alle performance vocali di Chris Adams in questo album, solo accennate nel precedente. Il finale di Heartfeeder, con la voce di Pauline usata quasi come strumento ad accompagnare gli altri all'apice finale, è qualcosa di meraviglioso. Stupisce quasi il contrasto con la seconda traccia, To See You, un folk quasi dylaniano ma sicuramente più intonato, molto piacevole e che dimostra l'elasticità di questa band. Night Club è un brano più ritmato e lineare, con un bellissimo violino a supportare il ritmo; melodicamente parlando sembra uscito negli anni '90, ho come questa impressione, tra l'altro ricorrente in un album, secondo me, fuori dal tempo e non totalmente figlio del suddetto, come molti contemporanei. Sold Down The River è un altro brano che adoro, caratterizzato da una performance vocale disumana di Chris Adams, che sembra quasi avvicinarsi al miglior Robert Plant (quello del primo album dei Led Zeppelin), una voce in grado di svettare su ogni cosa.
E come se non bastasse, il tutto si conclude con un gran bell'assolo di violino. Two Timin' Mama trova alla voce Pauline principalmente, in un brano forse più convenzionale ma non per questo privo di interesse. Da notare la presenza vocale di Pauline, comunque sempre presente, ma in sostanza un paio di passi indietro rispetto all'album precedente, dove i brani in cui assolveva il compito di voce solista erano sicuramente in maggior numero. Qui invece è sempre ben presente come seconda voce, facendo un ottimo lavoro. Anche Travelling sembra riportarci momentaneamente al primo album: un pezzo folk molto tranquillo che è senz'altro ben accetto in mezzo alle vette di inizio e fine album (ci arriviamo). People On The Street è un altro brano oscuro e forse ancora più macabro dei precedenti: "So many people on the street, it's sad to think they're going to die". "Time's gonna shoot you down in the end you'll find everything is turned to dust". Wow. Inquietante anche grazie ai controcanti di Pauline, davvero azzeccati. Uno dei brani migliori dell'album sicuramente. The House è un altro brano forse un po' transitorio e minore, di nuovo con Pauline alla voce, ma direi che ci sta bene prima della micidiale doppietta finale. Ecco finalmente la title track, altro brano che sembra scritto ieri, con un bellissimo violino per tutta la sua durata, ma in particolar modo sul finale. Posso tranquillamente affermare che, grazie al lavoro fatto qui e successivamente con Hammill, Graham Smith è senza dubbio il mio violinista preferito in assoluto. River Of Sleep chiude l'album, ma solo in versione CD.
Si perchè nell'originale versione in vinile a chiudere l'album c'è Going Down, che in sostanza è l'ultima parte di River Of Sleep; e per fortuna che è stata ripristinata nella sua interezza! Perchè secondo me è uno dei picchi assoluti di questo album. Dopo un interessante inizio che ha un che di beatlesiano ed un breve bell'inciso strumentale, ci si ritrova al quasi-mantra "time is sleep and sleep is time" che ha un che di sinistro (un po' come tutto l'album). E mentre questa parte sfuma, entra pian piano il violino per introdurre un lungo crescendo che sembra andare oltre l'immaginabile: quando pensi che non possano "salire" ulteriormente, trovano un modo per farlo. La voce di Pauline, il violino che ad un certo punto sfiora il limite della cacofonia. Incredibile. E dopo, come una sorta di post scriptum, ecco la Going Down che chiudeva il vinile originale: un breve brano acustico con di nuovo Pauline alla voce. E ora si che chiude l'album in modo appropriato!
Un album fuori dai tempi, fuori dai generi, uno dei miei preferiti in assoluto senza ombra di dubbio. Dopo questo album la formazione in sostanza si scioglie, Graham Smith prova a riformare il gruppo con altri membri ma ovviamente la magia se ne è andata. Si sono poi riformati in anni recenti per qualche concerto, ma purtroppo Chris Adams ci ha lasciati poco più di un anno fa. Da una parte è triste sapere che un album di questa bellezza non avrà mai un vero e proprio seguito, ma dall'altra è forse meglio così: si evitano confronti inutili e ci si gode quel "poco" che si ha. Ecco, piuttosto è triste la fama "di culto" che ha questo album, che meriterebbe invece di stare tra i lavori "maggiori" di quegli anni, essendo anzi a mio parere superiore e molti di essi.
Lo consiglio a chiunque, non importa che genere ascoltate. Un voto? Stavolta esagero, ma se lo merita: un 9,5.

domenica 21 gennaio 2018

Led Zeppelin - Copenhagen Warm Up Gigs (23-24/07/1979) (recensione bootleg)

Si sa, è credenza comune il fatto che i Led Zeppelin in sede live abbiano raggiunto il loro apice nella prima metà degli anni '70: c'è chi dice tra il '71 e il '72, chi si spinge fino alle date di The Song Remains The Same nel '73; pochi si spingono nel cercare date meritevoli successivamente, spesso penalizzate da un Plant ormai vocalmente calante e un Page spesso impreciso. Ma non è sempre così, tanto che Listen To This Eddie del 1977 è uno de miei bootleg preferiti. Oggi però voglio spingermi fino al 1979, l'anno dei due concerti a Knebworth: il primo discreto e il secondo piuttosto disastroso. Solo recentemente ho però scoperto l'esistenza di altre due date immediatamente precedenti, effettuate a Copenhagen. Ebbene si, perchè dopo due anni di assenza dai palchi dopo la tragica morte di Karac, il figlio di Plant, era alquanto azzardato buttarsi subito davanti a centinaia di migliaia di persone in quel di Knebworth! Si decise quindi di organizzare queste due date in un palazzetto di piccole dimensioni, poco pubblicizzate, con l'intento di fare una sorta di "prova finale" davanti ad un pubblico, in una situazione più tranquilla.
Quello che mi ha stupito ascoltando le registrazioni delle due serate è innanzitutto la qualità sonora. La serata del 23 molto probabilmente è stata registrata da davanti al palco, in basso, ed è infatti molto chiara e nitida. La seconda serata invece pare sia stata registrata da più in alto in una posizione laterale, quindi sempre con un suono ottimo vista la dimensione ridotta del luogo, ma un po' più confusa e carica di riverbero. Fatto sta che è raro trovare bootleg registrati dal pubblico in quegli anni con una qualità paragonabile a questa, a parte forse le famose registrazioni di Mike Millard in quel di Los Angeles e dintorni (magari ne parlerò in un' altra recensione).
L'altra cosa che mi ha stupito è l'effettiva performance da parte di tutti, specialmente Page. Perchè se Plant si sente che non è ancora totalmente coinvolto (e forse in questo senso nella prima serata a Knebworth, il 4 Agosto, è un pochino meglio), Page invece è insolitamente preciso, con un ottimo suono, non eccessivamente sottile come in molte date post '75. Certo, non è il Page dei primi anni, ma è comunque decisamente meglio della media di quel periodo. La prima serata, quella del 23 Luglio, è forse quella in cui è più evidente l'atmosfera da "prove": alcuni pezzi zoppicano un po', come ad esempio una Achilles Last Stand più lenta e con alcuni cambi sbagliati. Da segnalare però una Since I've Been Loving You tra le migliori in assoluto, non solo di quel periodo. La serata del 24 invece è decisamente più solida, si sente che suonano in modo più convinto e allo stesso tempo rilassato (è evidente infatti, secondo me, che il nervosismo a Knebworth a causa del numero di persone ed in generale della portata dell'evento, abbia influito non poco sul risultato finale).
Notevoli le versioni della già citata Achilles Last Stand, una delle migliori in assoluto specialmente perchè, nonostante sia suonata ad una velocità maggiore rispetto alla prima serata, è comunque lontana dall'esagerazione del tour del '77, dove la velocità elevata portava spesso ad esecuzioni piuttosto imprecise. Non per niente anche a Knebworth farà la sua bella figura in questa versione. C'è finalmente una Kashmir ben fatta, solida, senza incertezze. Merito anche del passaggio, da parte di John Paul Jones, alla Yamaha GX-1, enorme sintetizzatore certamente più stabile ed affidabile del pur inimitabile Mellotron.
Altro aspetto interessante è la scaletta. Se si guarda allo sviluppo delle scalette negli anni, si nota un progressivo aumento della durata di certi brani, principalmente a causa di assoli ed improvvisazioni. Nel '75 in particolare Dazed And Confused, No Quarter e Moby Dick spesso sfiorano e superano la mezz'ora (Dazed tocca i 45 minuti nell'ultima data del tour americano a Los Angeles), nel '77 un lungo assolo rumoristico di Page con l'archetto sostituisce l'esclusa Dazed, Moby Dick viene ancora ampliata ed introdotta da Out On The Tiles, mentre No Quarter si avvicina ai 40 minuti. Insomma, scalette dominate dall'eccesso, spesso anche scenico, con laser e fumi vari. Ecco, nel '79 si decide di, citando lo stesso Plant: "cut the waffle"; insomma tagliare l'eccesso, limitare le improvvisazioni per far spazio a più canzoni.
Scelta forse discutibile sotto certi aspetti, ma a mio parere azzeccata ed intelligente, in linea con il cambiare dei tempi. Quindi rimane l'assolo di Page, si ripescano vecchie conoscenze come White Summer e Black Mountain Side, Celebration Day, Misty Mountain Hop, The Rain Song (purtroppo divisa da The Song Remains The Same, a sua volta però perfetta come apertura), entrano Hot Dog e In The Evening. Ten Years Gone invece, grande brano sottovalutato qui forse nella sua versione migliore in sede live, è presente solamente nella seconda serata, a causa di un ritardo nell'inizio della prima a quanto pare per dei problemi alle luci (Plant si scusa più volte a riguardo).
No Quarter rimane facendo però un passo indietro, ritornando insomma alle più concise versioni del 1973 in termini di durata, il che non è necessariamente un male. Discorso simile per Whole Lotta Love (suonata solo il 24), che dopo il crescente medley culminato nel 1973 è stata ridotta a più o meno breve citazione in medley prima con Black Dog e poi con Rock And Roll nel '75 e nel '77, qui trova un nuovo arrangiamento privato della parte di Theremin centrale ma con nuovi riff azzeccati ed interessanti. Sostanzialmente la versione di Knebworth per intenderci. Moby Dick invece sparisce del tutto. E lo so che i fan di Bonham si saranno disperati di fronte a questa scelta (tra l'altro portata avanti anche a Knebworth e nel tour europeo del 1980), ma diciamocelo: con tutta l'ammirazione che anche io nutro per Bonham, il suo assolo è puntualmente la parte di bootleg che salto, così come molti altri assoli di batteria che tanto andavano di moda negli anni '70. Insomma, 5 minuti ci possono anche stare, ma mezz'ora no dai... E che non si creda che la sua esclusione sia stata a causa dello stato fisico di Bonham, perchè qui suona in modo più che ottimo!
Insomma, qui abbiamo 2 concerti che oscillano tra il più che buono e l'ottimo, entrambi in buona qualità audio. Consiglio l'ascolto a qualunque fan dei Led Zeppelin curioso di esplorare la loro storia andando oltre le pubblicazioni ufficiali; e credetemi, se siete fan ne vale la pena!
Meglio di Knebworth? In generale si, perchè se è vero che la manciata di tracce da Knebworth presenti nel DVD ufficiale del 2003 sono veramente impressionanti, lo stesso non si può propriamente dire dell'intero concerto non rimaneggiato... Entrambe le serate di Copenhagen sono valide, ma consiglio in particolare quella del 24 essendo in generale più solida e costante.
Voto? Un bell' 8,5.

venerdì 19 gennaio 2018

Jonh Miles - The Decca Albums (vol. 5) - BBC In Concert (March 1978) (recensione)

Ci siamo! Finalmente siamo arrivati all'ultimo capitolo della "serie" dedicata a John Miles, in cui ho recensito il contenuto del cofanetto "The Decca Albums"! Sono finiti gli album in studio nella scorsa recensione, quindi quest'oggi parlo dell'ultimo CD, quello che forse più di tutti giustifica l'acquisto di questo cofanetto vista la sua irreperibilità altrove: BBC In Concert (March 1978). Già nei primi anni '90 fu pubblicata una registrazione live registrata a cavallo tra il 1976 e il 1977, molto interessante e tristemente rara oggi. Ma qui abbiamo un'ora di live, registrato al Queen Mary College nel Marzo 1978 e trasmesso dalla BBC, in cui Miles si trova a promuovere Zaragon. Ecco che quindi si può facilmente intuire il valore di questo CD, e cioè la presenza di versioni live di pezzi dal suddetto album. Ed infatti nientemeno che Nice Man Jack introduce il tutto, purtroppo con la prima parte in playback a mo di "introduzione"; infatti l'intero gruppo entra nella parte successiva del brano. La qualità audio non è certo altissima, diciamo che si può definire un po' sporca ma tutto sommato godibile, anche se in mono. A livello di un ottimo bootleg insomma. Le performance sono tutte di altissimo livello da parte di tutto il gruppo. Spettacolare Music Man, ben suonata Plain Jane, davvero bello sentire dal vivo Overture, Zaragon ed una onesta e precisa versione di No Hard Feelings. Ultima parte dedicata ad una serie di brani più "spinti" per far felice il pubblico presente, come Stand Up (And Give Me A Reason), Stranger In The City e la allora nuova Borderline, per poi arrivare ad una performance carichissima di Slow Down. Davvero un concerto denso e coinvolgente nonostante la qualità sonora non perfetta. Come detto sopra, purtroppo questo album non si trova da altre parti, e a quanto pare è talmente raro che la copertina da mettere in cima all'articolo me la sono dovuta scannerizzare io, che su internet è introvabile (e ciò giustifica l'assenza di foto e video a corredare l'articolo come di solito)! Insomma, un bel bonus per un cofanetto di buona qualità, ottimo per chi (come me) non ha (aveva) nulla di John Miles. Sarebbe stato ancora meglio avere Zaragon e MMPH rimasterizzati nel vero senso della parola, magari un cd live doppio con anche quello 1976/77, e poi si sarebbe raggiunta la perfezione. Certo, c'è chi storcerà il naso di fronte al cartoncino in cui sono alloggiati i CD, o di fronte al libretto contenente si la storia di Miles ma con la grave mancanza dei crediti degli album.
Dunque, BBC In Concert a mio parere si merita un bell'8 di voto: ottima performance appena un po' penalizzata dalla qualità audio. E per quanto riguarda l'intero cofanetto "The Decca Albums", non è la perfezione, anzi, ma un bell'8,5 se lo merita, arrotondato a 9 per l'effettiva rarità di alcuni album che contiene. Anche perchè diciamocelo, con tutto il bene che voglio a Miles, dopo questi album non è che abbia partorito lavori imprescindibili, quindi avere almeno questi 4 album e un live bonus è veramente un'ottima cosa!
Alla prossima con...

giovedì 18 gennaio 2018

John Miles - The Decca Albums (vol. 4) - MMPH More Miles Per Hour (recensione)

Quarto e penultimo "episodio" dedicato a The Decca Years di John Miles. Ultimo album in studio in questo cofanetto, oggi tocca a More Miles Per Hour. Un album "minore" sotto certi aspetti, e sicuramente con meno da offrire rispetto alle vette precedenti, ma non certo un album da buttare! Come anticipato nella scorsa recensione, MMPH segna il ritorno di Alan Parsons alla produzione e Andrew Powell agli arrangiamenti orchestrali; quindi si preannuncia un ritorno verso Rebel sotto questi aspetti, ed effettivamente a tratti lo è.
L'album si apre con Satisfied, e subito si sente l'input di Parsons, specialmente all'inizio. Dopo un'introduzione promettente (ripresa più volte durante il pezzo) il tutto vira su territori fin troppo familiari tinti di rock and roll. Un pezzo piacevole ma che, forse anche tenendo conto dei lavori precedenti, lascia un po' il tempo che trova a mio parere. It's Not Called Angel è anch'essa piuttosto familiare, non lontana da I Have Never Been In Love Before, ma un gradino sotto. Comunque un pezzo molto bello e ben arrangiato, qualcosa che potrebbe stare anche su un album degli Eagles.
 In Bad Blood ritroviamo il Miles di Stranger In The City, un po' in bilico tra rock, funk e disco. Insomma, di nuovo niente di veramente nuovo, però un pezzo che personalmente trovo piacevole. Arrivati a questo punto si inizia a pensare di avere di fronte un album un po' sottotono forse. Insomma, visti i toni entusiastici che ho usato per i lavori precedenti, qui sembra quasi semplicemente "un altro album di John Miles". Ma è proprio a questo punto che arriviamo a Fella In The Cellar. Insomma prendete tutto ciò di più epico, esagerato, ridondante e grandioso che potete trovare in Rebel o alcune cose dell'Alan Parsons Project (penso a Silence And I) e riversatele in un solo brano. Ovviamente i termini usati sopra io li uso in modo totalmente positivo e con un pizzico di ironia immaginando i punti di vista dei "critici". Fatto sta che dopo un inizio piano e voce con giusto un tocco di archi, ecco che entra la batteria e il tutto si fa più frenetico, impetuoso, fino a che la voce lascia spazio all'intera orchestra in uno de momenti più spettacolari della discografia di Miles. Il tutto ripetuto in modo, se possibile, ancora più intenso dopo una ripresa della parte cantata; fino a portarci ad un finale letteralmente impressionante con il crescendo orchestrale trapassato dalla potente voce di Miles. Da standing ovation. Un brano in grado di giustificare un intero album. Chapeau. Can't Keep A Good Man Down ci riporta il Miles più convenzionale e rock, un pezzo quasi sullo stile dei primissimi Whitesnake nella loro fase rock-blues ( qualcosa tipo Fool For Your Loving o Walkin In The Shadow Of The Blues per intenderci). Non male, anche se dopo il pezzo precedente qualunque cosa passerebbe in secondo piano.
Oh Dear è un altro gran bel pezzo melodico con un che di ELO epoca Out Of The Blue che, per quanto mi riguarda, non guasta affatto, anzi! Una piccola perla che fa della sua semplicità un gran punto di forza. C'est La Vie è un bellissimo pezzo di puro pop di una contagiosità che ancora non si era presentata in questo album, uno dei miei preferiti di MMPH. Insomma pare evidente che il secondo lato sia decisamente più consistente del primo (Fella In The Cellar a parte), e non per nulla si conclude con We All Fall Down: altro brano esteso formato da più sezioni, non grandioso quanto Fella In The Cellar, ma sicuramente degno di fargli compagnia. Davvero un brano ben concepito e costruito, con tanti saliscendi, belle parti di chitarra sparse qua e là, insomma ne consiglio l'ascolto.
E come al solito ci sono anche una manciata di tracce bonus di varia provenienza, principalmente singoli. La prima Sweet Lorraine è il classico pezzo rock "alla Miles" che però, non so bene perchè, mi ricorda qualcosa di Roy Wood, o dai Move o dai Wizzard... Mah, mistero. Tra l'altro Sweet Lorraine se non sbaglio risale alle session di Rebel. Si prosegue con Don't Give Me Your Sympathy, brano che già tende l'occhio agli ormai prossimi anni '80 con l'uso spropositato di synth vari. Un brano apprezzabile, qui purtroppo in una qualità non eccelsa essendo preso, immagino, direttamente da vinile (come anche tutto l'album, anche se da fonte sicuramente migliore, "problema" di cui ho parlato già in Zaragon).
If You Don't Need Lovin' è un brano senza infamia e senza lode, apprezzabile ma tutto sommato comprensibile l'esclusione dall'album. Seguono poi 2 pressochè inutili versioni singolo di Can't Keep A Good Man Down e Oh Dear.
Insomma un album forse non al livello dei precedenti, ma che grazie a brani come Fella In The Cellar, Oh Dear, C'est La Vie e We All Fall Down riesce comunque a suscitare interesse e a rimanere una ascolto più che piacevole. Ci sono alti (e che alti) e bassi, quindi come voto secondo me si aggira intorno al 7 - 7,5. Sarebbe davvero bello avere questi album rimasterizzati decentemente.
Alla prossima con l'ultimo "capitolo" della serie dedicato al live alla BBC del 1978, disponibile solo in questo cofanetto!




martedì 16 gennaio 2018

John Miles - The Decca Albums (vol.3) - Zaragon (recensione)

Terza parte della serie dedicata a John Miles che esplora il contenuto del cofanetto The Decca Years. Arriviamo a Zaragon. Una sorta di ulteriore cambio di direzione, questa volta ancora più evidente. Si perchè se il precedente Stranger In The City segnava una generale semplicità nelle composizioni se confrontato con Rebel, qui invece si decide di eliminare totalmente gli arrangiamenti orchestrali. Insomma un album più strettamente "rock", in cui tra l'altro Miles suona tutte le tastiere e le chitarre, aiutato solamente da Bob Marshall al basso e Barry Black alla batteria. In quanto alla complessità delle composizioni invece sembra si prenda una direzione "di mezzo", meno pomposa grazie all'assenza dell'orchestra, ma senza derive disco e funk. Ma andiamo a vedere le singole tracce per capire meglio.
Il tutto inizia con Overture, che farebbe pensare ad un concept album, ma non è così. Trattasi infatti di un brano a sé stante dall'inizio tranquillo, prima di un cambio brusco che ci porta in territori più ritmati non certo estranei a Miles. Ma quello che non ci si aspetta è il lungo assolo di chitarra che si fa spazio poco dopo. Forse per la prima volta si può notare l'effettiva tecnica chitarristica di John Miles, finora usata al servizio dei brani e mai in un vero e proprio assolo "libero", se non sporadicamente e molto brevemente. E che assolo! In perfetto equilibrio tra buon gusto, sfoggio mai esagerato di tecnica, e pathos crescente fino alla ripresa del cantato che ci porta, in una sorta di percorso circolare, alla fine più sommessa del brano. Un capolavoro a mio parere. A farci riprender fiato ci pensa Borderline, riuscito brano rock più convenzionale di quelli che non mancano mai nei suoi album. Nulla per cui gridare al miracolo, certo, ma nulla lo sarebbe stato dopo il brano precedente. Un brano azzeccato dopotutto. I Have Never Been In Love Before è interessante, perchè dopo un inizio non lontanissimo da certe cose dell'Alan Parsons Project, si rivela essere una delle migliori e più "sentite" ballate di Miles. Uno dei suoi brani che preferisco in assoluto.
Discorso simile per l'altra ballata che segue, No Hard Feelings, dal ritmo più lento e il classico argomento "fine relazione". Brano che mantiene alta la qualità dell'album a mio parere. Difficile non commuoversi con brani simili. Sempre che si abbia una cuore da qualche parte, ovviamente... Con Plain Jane torniamo alla tradizione di brani lunghi che ogni tanto affiorano fin da Rebel. Anche se, come detto, qui l'assenza di orchestra (sostituita da vari synth) toglie un po' di epicità al tutto, siamo comunque di fronte ad un brano di altissimo livello; la sua lunghezza, nonostante la struttura piuttosto canonica, è giustificata da una bellissima sezione "sognante" che affiora ogni tanto, in contrasto con la natura più ritmata del brano. Altro gran bel pezzo. Nice Man Jack è un altro lungo brano che parla nientemeno che di Jack lo squartatore. Diviso in 3 parti, adoro personalmente l'inizio (una delle cose migliori di Miles a mio parere) e segnalo un altro bell'assolo di chitarra nella sezione centrale, molto più "rock". Il finale riprende l'inizio portando quindi il pezzo in un percorso circolare non così distante da Overture, ma non per questo secondario ad essa o complementare. Un lungo suono di synth ci porta alla title track conclusiva. E dopo cotanta bellezza uno si aspetta di aver ormai sentito il meglio, no? Ecco appunto, no. Perchè Zaragon è un brano dal fascino unico, misterioso, imprevedibile nella struttura (quel cambio con quella sorta di batteria sintetizzata che porta alla sezione "Do you remember?" fa prendere un colpo ogni volta). La ripresa del tema principale in modo più grandioso ci porta alla fine di questo capolavoro di album.
So di aver usato termini forse fin troppo entusiastici, e a volte ripetitivi, per tutto l'album; ma credetemi, se li merita tutti e anche di più! Se nei primi due album Miles va in direzioni diverse, varie, spesso supportato da altri ad arrangiare i brani, qui sembra trovare una dimensione più a sua misura, più personale e compiuta. Ed irripetibile anche perchè a causa di un (tristemente comprensibile e prevedibile) fallimento a livello di vendite, il successivo More Miles Per Hour vede il ritorno di Parsons e Powell, portando quindi una sorta di, seppur valido, "passo indietro" artistico. Ed è ascoltando sopratutto quest'album (ma anche gli altri eh) che mi viene da dire, come canta in Nice Man Jack: "It's a pity there aren't more like him".
Non parlo di tracce bonus qui perchè l'unica presente è la versione singolo di Nice Man Jack. Curioso però notare che il cd è in sostanza "preso" da un vinile invece che dai nastri originali, suppongo tristemente smarriti. Non che si senta male, anzi, però una rimasterizzazione nel vero senso della parola la meriterebbe...
Comunque, credo si sia capito che questo è il suo album che preferisco, e se dovessi dargli un voto credo che andrei senza troppi problemi verso un 9.

Alla prossima con More Miles Per Hour!

lunedì 15 gennaio 2018

John Miles - The Decca Albums (vol.2) - Stranger In The City (recensione)

Continua la "serie" di recensioni dedicata al cofanetto "The Decca Albums" di John Miles. Oggi tocca al suo secondo lavoro, Stranger In The City. Un album piuttosto diverso da Rebel, segnato dall'assenza di Alan Parsons e Andrew Powell, sostituiti da Rupert Holmes sia alla produzione che agli arrangiamenti orchestrali (comunque molto più discreti qui). Diverso perchè più essenziale, diretto, meno grandioso sotto certi aspetti. La title track in apertura lo dimostra benissimo: un pop\rock splendidamente arrangiato con un intermezzo che coglie di sorpresa chiunque al primo ascolto. Una delle cose migliori del Miles più "terra terra". A seguire ecco la sorpresa di Slow Down, altro grande successo soprattutto in America grazie all'ibrido funk\disco davvero ben riuscito (e ve lo dice uno che trova il funk irritante e la disco appena sopportabile a piccolissime dosi). Un pezzo che ci ha messo un po' a convincermi della sua qualità, ma che risulta poi essere indubbiamente contagioso come pochi. E poi dai, gli assoli di synth e chitarra con talkbox sono una goduria!
Stand Up (And Give Me A Reason) è il brano più lungo dell'album, ma non per questo un ritorno all'epicità di alcune cose di Rebel. Si tratta infatti di un altro pezzo in bilico tra rock e disco (grazie agli arrangiamenti di fiati nel ritornello, non lontani da certe cose dei Chicago seconda metà anni '70) chiuso con una notevole parte cantata in scat. Con Time ritroviamo il Miles più melodico in una sublime ballata al pianoforte con giusto un tocco di archi: perfetta per spezzare il ritmo dopo un inizio infuocato. Una delle cose più belle dell'album a mio parere. Manhattan Skyline ci riporta di nuovo al pop/rock tipico di Miles: un altro pezzo figlio dei tempi, forse quello che meno mi convince in questo album, ma nulla di tragico. L'arrangiamento ovviamente è sempre riuscitissimo, e questa è una cosa che mi ci è voluto un po' di tempo per notare: da grande fan del lavoro di Parsons e Powell ho sempre pensato che quest'album fosse inferiore proprio in termini di arrangiamento e produzione, mi sono dovuto ricredere dopo vari ascolti! Glamour Boy non si discosta troppo dalla precedente, però per qualche motivo la trovo più riuscita: uno di quei pezzi che ti ritrovi a canticchiare senza motivo per giorni insomma. Valore aggiunto l'intermezzo quasi drammatico che crea un contrasto forse azzardato ma, secondo me, non totalmente fuori luogo. Do It Anyway parte con una chitarra slide quasi country e si distingue per le acrobazie vocali di Miles: un episodio piacevole pur rimanendo sostanzialmente un pezzo secondario. Remember Yesterday è l'altra ballata dell'album: forse è un po' più convenzionale e non ha il fascino di Time, ma personalmente la adoro allo stesso modo. E poi BAM, picco finale con Music Man, forse il mio pezzo preferito dell'intero album. Piano ritmico, stop improvvisi, cambi, salite e discese: un brano che strizza l'occhio alle cose migliori dei Wings di McCartney senza ereditarne il senso di diabete. Altro esempio di ciò che mi manca da morire nel pop.
Come detto per Rebel, anche qui ci sono una manciata di tracce bonus; e se 3 su 4 sono abbastanza inutili versioni "singolo" di brani dell'album, la prima è una chicca non da poco che non avrebbe sfigurato nell'album. House On The Hill, lato b del singolo Remember Yesterday, è un brano rock dalla carica e tensione come pochissime altre cose di Miles. Consigliatissimo l'ascolto a chiunque, anche non fan. Davvero un ottimo valore aggiunto all'album, e curiosa la scelta di averla solo come lato b di un singolo all'epoca... Io l'avrei preferita ad esempio al posto di Manhattan Skyline, ma immagino si tratti di gusti...
Quindi, un album che ho sempre considerato come "minore" ma che mi sta portando a ricredermi dopo svariati ascolti. Non il mio preferito in assoluto, ma in grado di combattere duramente contro Rebel per un immaginario secondo posto tra le preferenze. Un voto che sarebbe sul 7,5 ma sollevato dalla micidiale doppietta finale (in questa edizione) di Music Man e House On The Hill fino ad un 8 pieno. Insomma, pari merito con Rebel alla fine. Mica poco!
Alla prossima con Zaragon!


sabato 13 gennaio 2018

John Miles - The Decca Albums (vol.1) - Rebel (recensione)


Ho ricevuto come regalo di Natale questo bel cofanetto comprendente i primi 4 album di John Miles e, come bonus, un finora inedito CD live alla BBC nel 1978. Ho pensato quindi di iniziare una "serie" di recensioni dedicando ogni "episodio" ad un album qui contenuto, nella versione di questo cofanetto (perchè si sa, con la miriade di riedizioni tanto di moda oggi è facile trovare differenze da un'edizione all'altra).

Quindi, John Miles. Lo conobbi ovviamente grazie a Music, brano che tutti conoscono ma pochi sono spinti ad andare ad esplorare altre cose della sua discografia. Molti neanche sanno che ha effettivamente fatto altro. Subito mi colpì la sua incredibile voce, ma mai avrei pensato di trovarmi di fronte ad un compositore ed un polistrumentista di tutto rispetto.
Dunque, dopo vari tentativi falliti di arrivare al pubblico tramite singoli fin dal 1971, finalmente nel 1975 Miles firma un contratto con la Decca, si affianca ad Alan Parsons in veste di produttore che si porta dietro anche Andrew Powell agli arrangiamenti orchestrali (presente anche in praticamente tutti i lavori dell'Alan Parsons Project) e, introdotto dal singolo Highfly, sforna questo Rebel nel 1976. Con la sua copertina (e titolo) palesemente ispirati all'immagine di
James Dean, Rebel è un album eclettico, splendidamente prodotto ed arrangiato, e un po' l'esempio di quello che sarà, con alcune differenze che analizzeremo nelle prossime recensioni, lo stile di Miles anche in lavori successivi. Music apre l'album. C'è poco da dire su questo brano, tutti lo conoscono, io personalmente credo che sia uno dei pochissimi brani che possono quasi rientrare nello stesso territorio di Bohemian Rhapsody, seppur con ovvie differenze stilistiche. Un brano semplice sulla carta, poche parole nel testo, ma un lavoro orchestrale magistrale. Insomma l'esempio perfetto di ciò a cui il pop può ambire ma ormai si guarda bene dal fare. Difficile proseguire dopo una botta simile, ma Everybody Want Some More ci prova andando in direzione diversa, quasi Beatlesiana, con stop, cambi e quei magnifici violoncelli che potano alla mente cose come Eleanor Rigby. Un gioiellino pop di quelli che adoro letteralmente. Highfly fu scelto come singolo apripista, ma secondo me è un brano leggermente meno interessante del resto; non per mancanza di qualità, ma a causa dell'abbondanza di essa altrove. Un pop piacevole insomma. Con You Have I All si tocca il secondo ed irripetibile picco dell'album. Un pezzo lungo, potente, con un bel tiro, belle melodie e un arrangiamento che si cuce a pennello sul brano. Uno dei pezzi di Miles che preferisco in assoluto; si, più di Music. Il lungo finale, introdotto da una nota di synth a salire dopo l'intermezzo percussivo, è qualcosa di sublime. La title track è un altro pezzo di onesto pop\rock come ne troveremo sparsi un po' ovunque nei suoi album; ma dopo la cavalcata precedente è una "pausa" necessaria e comunque riuscita. When You Lose Someone So Young è una ballata di gran classe che fa mantenere alto il livello prima di quello che, per me, è il pezzo peggiore dell'album. Lady Of My Life proprio non riesco a digerirla, è un secco stop allo scorrimento dell'album. Ben suonata, ben cantata sicuramente, ma questo pezzo dalla mosciaggine impomatata proprio non mi va giù. Meno male che arriva Pull The Damn Thing Down a risollevare il tutto: un altro lungo pezzo formato da più sezioni che forse "arriva" meno di You Have It All, ma è un discreto colpo di coda che ci porta alla reprise di Music che chiude l'album.
Insomma un ottimo esordio, non il mio album preferito tra i suoi (scopriremo qual è nelle prossime recensioni), ma quello forse più rappresentativo. Se non fosse per la "caduta" (opinione personalissima, ribadisco) di Lady Of My Life sarebbe un disco quasi perfetto. Ma non è finita qui! Si perchè nell'edizione del cofanetto "The Decca Albums" ci sono ben 4 pezzi bonus! Segnalo in particolare le prime 2, Jose e You Make It So Hard, lato a e b di un singolo del 1971. Entrambi i pezzi sembrano usciti dagli anni '60, sia come brani in sé che come arrangiamento. Il che per quanto mi riguarda è un'ottima cosa (adoro quell'epoca), ma fa capire perchè passarono inosservati nel '71. Seguono There's A Man Behind The Guitar e Putting My New Song Together, lati b rispettivamente dei singoli Highfly e Music. Brani più in linea con lo stile dell'album, molto bello il primo dalle tinte più spiccatamente "rock", non avrebbe sfigurato nell'album. Il secondo è un pezzo un po' più convenzionale, ma non per questo meno valido. Insomma 4 ottimi brani che rendono questa edizione di Rebel molto interessante.
Come già detto, non è il suo album che preferisco, ma in una ipotetica classifica starebbe quasi sicuramente al secondo posto. Come voto si merita un 8 abbondante.
Alla prossima con Stranger In The City!


venerdì 5 gennaio 2018

Pink Floyd - The Early Years 1965-1972 (recensione)

Nella storia dei Pink Floyd c'è sempre stato un significativo "buco" per quanto riguarda la parte live. Per decenni ufficialmente si passava dal disco live di Ummagumma del 1969 a Delicate Sound Of Thunder nel 1989, per il resto bisognava ricorrere a bootleg di varia provenienza. E si che per alcune cose è ancora oggi così; ma lo scorso anno, con la pubblicazione del monumentale The Early Years, si tentò di "tappare" in modo piuttosto efficace il buco sopra citato. Un cofanetto che parte dagli esordi dei Floyd nel lontano 1965, quando ancora si chiavano The Tea Set, e si conclude sostanzialmente appena prima di The Dark Side Of The Moon: insomma gli anni più psichedelici, sperimentali, interessanti anche. Troviamo quindi molti dischi tra CD, DVD e BluRay (in questi ultimi 2 formati i contenuti molto spesso si ripetono, ovviamente in qualità e definizione diversa), innumerevoli memorabilia come poster e biglietti, ed infine i primi singoli della band in vinile. Insomma, tanta roba, troppa forse. Ma andiamo per gradi analizzando i singoli volumi in cui è suddiviso (tra l'altro in vendita anche singolarmente).

Volume 1: 1965-1967: Cambridge St/ation

Nella parte audio troviamo innanzitutto le primissime registrazioni del 1965: cose come Lucy Leave, I'm A King Bee, Walk With Me Sydney... Non certo capolavori, ma interessanti indubbiamente a livello storico. Subito dopo ecco i soliti singoli e relativi lati B, seguiti da bei remix di Jugband Blues e Matilda Mother (quest'ultima proprio una take diversa, con testo alternativo e intermezzo e finale più lunghi), l'inedito strumentale In The Beechwoods, gran mistero finalmente rivelato dopo decenni. Ed infine le classiche Vegetable Man e Scream Thy Last Scream in versione remixata e ripulita, che se da un lato suonano molto pulite e definite, a mio parere ne risente l'alone di mistero e psichedelia malata che permeava dalle vecchie versioni da bootleg. Ma qui si tratta di gusti ovviamente. 
Il secondo CD ci offre una delle cose più interessanti in assoluto di questo boxset: un intero live con Syd Barrett, registrato a Stoccolma nel Settembre 1967. La pecca più evidente è, purtroppo, la totale assenza di voci, presumo per l'inadeguatezza dell'impianto di amplificazione. Ma quando ci si trova di fronte un documento simile, tra l'altro in una qualità impressionante se si considera la provenienza e il periodo, si può sorvolare su tante cose. Veramente una delle cose più interessanti che ho avuto il piacere di ascoltare in questo set. A seguire c'è un'altra rarità: le John Latham sessions. Non ho mai capito il motivo di queste registrazioni, ma quello che si ha è sostanzialmente mezz'ora di improvvisazione libera suddivisa in parti, registrata nell'Ottobre 1967, molto rumoristica, quasi a livello dei primi AMM. Interessante come curiosità, ma alla fine diciamo "poco ascoltabile" forse.
La parte video raccoglie tutte le testimonianze dei Pink Floyd con Syd. Dai video di Scarecrow e Arnold Layne (tutti in ottima qualità), alle apparizioni televisive + interviste di Astronomy Domine e Apples And Oranges, Jugband Blues, un paio di versioni di Interstellar Overdrive.... Insomma un'oretta di puro godimento Barrettiano in ottima qualità.

Volume 2: 1968: Germin/ation

L'anno del cambio importante, con Gilmour al posto di Barrett in un periodo di transizione comunque carico di fascino. La parte audio di questo volume inizia con i rimanenti singoli It Would Be So Nice e Point e At The Sky, con relativi lati B (Julia Dream e Careful With That Axe Eugene), per poi arrivare a 2 interessantissimi inediti di cui non sapevo nulla. La prima è Song 1, che inizia come una versione embrionale di Cymbaline però in 7/8, per poi virare su territori sconosciuti che non avrebbero sfigurato in More o Zabriskie Point. Roger's Boogie invece è la cosa più strana che io abbia mai sentito dai Pink Floyd: inizia con un coro di voci ed una linea vocale che ricorda molto i Moody Blues per poi finire in territori più familiari e spettrali dominati dall'organo di Wright. Veramente una chicca che non mi aspettavo. A seguire una serie di registrazioni alla BBC di qualità variabile, comunque godibili ed interessanti, peccato per il mancato "upgrade" sonoro che affligge queste e molte altre registrazioni sparse qua e là.
La parte video è molto sostanziosa e raccoglie parecchie apparizioni televisive in Belgio e Francia, molte in playback, tante ripetizioni ma alcune perle. Soprattutto la prima sezione alla tv belga in qualità eccelsa, ed il famoso video al Bouton Rouge dal vivo ripulito. Godibile nonostante le già citate ripetizioni.

Volume 3: 1969: Dramatis/ation
Forse l'anno più sperimentale dei Pink Floyd, decisamente ben rappresentato qui. Iniziamo con una manciata di scarti da More tra cui una versione diversa del Main Theme e una Seabirds che non è la Seabirds che tutti si aspettavano (risultando il solito pezzo d'atmosfera alla Quicksilver). Il tutto seguito da Embryo nella sua versione in studio sostanzialmente acustica, varie registrazioni alla BBC e un live da una quarantina di minuti registrato ad Amsterdam. Caso curioso quest'ultimo essendo interamente strumentale a causa di, se non ricordo male, un problema ai microfoni. Questo portò a ritentare una seconda registrazione qualche mese dopo con ben altri risultati. Ed infatti la troviamo nel secondo CD questa registrazione, e se la prima volta la scaletta era praticamente quella del disco live di Ummagumma, questa volta ecco che i Floyd ci deliziano con The Man e The Journey. Non sto a spiegare di cosa si tratta nel dettaglio, basti sapere che sono due lunghe suite tematiche (la prima su una giornata tipo di un uomo e la seconda su un non meglio specificato viaggio) formate da singoli brani un po' inediti, un po' improvvisati, e un po' presi da lavori precedenti e riarrangiati (Pow. R. Toc. H, Grantchester Meadow e il finale di Saucerful of Secrets ad esempio). Curiosa la presenza di Afternoon, in sostanza la Biding My Time di Relics; dico curiosa perchè questa traccia nella versione di Relics non è presente in questo boxset. E no, non è perchè c'è anche in Relics, altrimenti non avremmo avuto Arnold Layne e altre... Curioso.
La parte video è molto interessante stavolta. Dopo una partenza in sordina con le quasi imbarazzanti esibizioni in playback di Set The Controls e Saucerful, ecco finalmente le prove di The Man e The Journey alla Royal Festival Hall; filmato che gira da anni ma mai in questa qualità. A seguire una manciata di pezzi all' Essener Pop and Blues Festival in qualità non altissima purtroppo; e a seguire la chicca per eccellenza, più per valore storico che altro: il festival Actuel Amougies in Belgio, con tanto di video in ottima qualità della loro esibizione con Frank Zappa! Neanche sapevo dell'esistenza di questo video; decisamente una bella sorpresa! 

Volume 4: 1970: Devi/ation
L'anno di Atom Heart Mother ma non solo. Il primo CD si apre infatti proprio con una versione live senza orchestra del suddetto brano, registrata a Montreux. Bellissima versione tratta da un bootleg piuttosto noto, lascia l'amaro in bocca l'assenza del resto del concerto, ma non si può avere tutto suppongo. Segue l'intera esibizione alla BBC del 1970, quindi con una delle migliori versioni di Embryo, stravolta rispetto alla versione in studio, la rarità If, e di nuovo Atom Heart Mother ma stavolta con ottoni e coro. La qualità qui è la stessa del bootleg, ma non ci si può lamentare. Il secondo CD sfodera una sequenza di scarti dalla colonna sonora di Zabriskie Point, che nonostante la miriade di bootleg negli anni, riescono comunque ad essere inediti! Molto interessante la versione in maggiore di Careful With That Axe Eugene (Explosion). Il Cd si chiude con un'altra Atom Heart Mother, stavolta una versione primordiale in studio con solo la band a suonare. 
La parte video è probabilmente la più sostanziosa del set, contenendo il filmato di un'ora alla KQED a San Francisco, il live a San Tropez, l'improvvisazione in studio che per anni girava col titolo Corrosion, e una versione live di Atom con orchestra e coro, video di bassa qualità ma di immenso interesse.

Volume 5: 1971: Reverber/ation
Il CD si apre con Nothing part 14, frammento "work in progress" di Echoes discretamente interessante. Per poi portarci di nuovo alla BBC per un'altra ora, stavolta sfoderando perle come Echoes, One Of These Days (la prima volta dal vivo se non sbaglio), di nuovo Embryo, ed infine la magnifica Fat Old Sun in una versione da 14 minuti. Immensa. Peccato non avere questa session alla BBC in stereo, come gira in bootleg da anni. Non che in mono suoni male, però insomma...
La parte video è un po' caotica, piena di frammenti. La cosa più interessante è forse il famoso live nella Abbaye de Rouyamont in qualità altissima. 

Volume 6: 1972: Obfusc/ation
Arrivati a questo punto pare ovvio che il meglio si sia ormai visto. Infatti qui si trova una neanche tanto sensata o indispensabile nuova versione remixata di Obscured By Clouds. Scelta che ancora ora non so spiegarmi. Tra l'altro frutto di disguidi perchè all'uscita al posto del disco di Obscured molti si trovarono il CD di Live At Pompeii, che visto lo spazio mancante nel set immagino non dovesse neanche essere pubblicato. Costringendoli quindi ad aggiungere all'ultimo momento una bustina con il disco di Obscured da aggiungere. No comment. Il remix di Obscured è ascoltabile ma fin troppo freddo, con troppa enfasi sulle frequenze alte, perlomeno il suono è chiaro e pulito. Il mix di Pompeii invece è tutto questo ma peggio. Neanche sembra più un live, niente rumori ambientali, niente riverbero di alcun tipo, tutto secco, freddo, innaturale. Un'occasione sprecata insomma. Ovviamente è presente anche in video, e se da una parte è bello averlo finalmente in tonalità originale, è curioso\discutibile\quello che volete avere Echoes intera e non divisa, totalmente insensato rimuovere Madamoiselle Nobs, scellerata la scelta di usare solo il director's cut con tutti quegli effetti in cgi raccapriccianti, e come se non bastasse, abbiamo il già citato mix audio. Insomma un pastrocchio. Per fortuna ci sono dei bellissimi frammenti del Roland Petit Ballet e i 2 pezzi filmati a Brighton nel '72 a riscattare il tutto.

Volume 7: 1967/1972: Continu/ation
In esclusiva per chi acquista il boxset intero, quindi non disponibile in vendita singolarmente, c'è questo ultimo volume. Una sorta di bonus insomma, con materiale di varia provenienza. Un buon 90% del primo CD è composto da registrazioni alla BBC mancanti nei volumi precedenti, molte del '67 con ancora Syd Barrett. Interessantissime, niente da dire, il problema però è che da anni girano versioni in qualità molto più alta in bootleg. Qui sono a malapena ascoltabili. La domanda è perchè? Discorso simile per Moonhead, ed in coda, quasi a caso, una versione live di Echoes del 1974! Ma il set non arrivava fino al '72? Già, ma quando hanno rimasterizzato gli album nel 2011, hanno preso un concerto del '74, l'hanno spezzato in 2 parti, hanno inserito la parte con tutto Dark Side Of The Moon come bonus del suddetto album, e l'altra metà, con Shine On, Raving And Drooling e Gotta Be Crazy come bonus in Wish You Were Here. E già sta cosa è stata discutibile. E qui cosa ci troviamo? Il bis di quello stesso concerto! Io non ho parole... Certo, bella da sentire e curiosa per l'uso delle coriste e il sax, ma pubblicarlo intero questo concerto no?
Anche qui c'è una parte video. Con una versione alternativa di Arnold Layne, la famosa Corporal Clegg con lancio di cibo, e forse la cosa più interessante: ben 35 minuti filmati in bianco e nero ad Amsterdam nel 1972. Chiude il film The Committee, in cui i Floyd contribuirono alla colonna sonora. Come ulteriore bonus ci sono anche i film More e La Vallèe.

Insomma, tanto, troppo. E neanche ho citato Atom Heart Mother in 4.0 e il famoso caso Meddle in 5.1 nascosto in un BluRay da estrarre manualmente! Il problema qui è che con una tale mole di materiale è facile farsi sfuggire qualcosa, e stupisce una a volte scarsa cura dei dettagli in un prodotto targato Pink Floyd. Insomma, trovare tracce o anche video in bassa qualità in un boxset da centinaia di euro, e poi trovare le stesse identiche cose in qualità migliore in bootleg, ci si può chiedere quante ricerche siano state effettivamente fatte, e che forse un confronto con i fan al posto del lavorare in gran segreto avrebbe portato ad un risultato migliore.
Ma pignolerie a parte, è un'operazione da prendere come esempio per molti. Piuttosto di infinite rimasterizzazioni senza fine che raramente sono in grado di giustificare la propria esistenza, aprire gli archivi ogni tanto, anche per operazioni più piccole di questa, non può che essere una gran cosa. 
Voto? 9 per il contenuto. 7,5 per la realizzazione. Arrotondato un 8,5 perchè sono buono.