giovedì 28 febbraio 2019

Lucifer's Friend - Lucifer's Fiend (1970) Recensione

Il 1970 fu senza dubbio un anno fondamentale nella storia del rock, in particolare per quell'ala più "heavy" che nel corso degli anni '70 si muoverà verso ciò che sarà definito metal.
Deep Purple In Rock, l'omonimo esordio dei Black Sabbath, Very 'eavy...Very 'umble degli Uriah Heep, mentre i Led Zeppelin sembravano guardare oltre con il loro in gran parte acustico III, pur sempre aperto da quello schiacciasassi che è Immigrant Song. Oltre ai soliti noti però c'era anche una meno celebrata band tedesca con cantante inglese, John Lawton, e dal curioso nome Lucifer's Friend. Dico curioso perchè proprio di quell'anno è il già citato esordio di una band che a sua volta implementava un riferimento satanico nel proprio nome, Black Sabbath; ma nel caso di questi Lucifer's Friend pare non ci siano palesi riferimenti a quel tipo di immaginario nella musica, sonorità a tratti oscure a parte. La band infatti si presenta con un suono non così distante dai sopra citati colleghi, con elementi spesso in comune che, vista la loro ben minore fama al confronto, ha portato più e più volte ad accuse di somiglianze varie, che ovviamente lasciano un po' il tempo che trovano se si va a vedere le varie date di uscita degli album. Insomma le influenze sono ovvie, ma non è che si siano messi a ricalcare i lavori degli altri, non ne avrebbero avuto il tempo, non stiamo parlando del prog italiano o americano. Si tratta più di "sentire" che aria tira ed inserirsi in un movimento in atto, senza necessariamente inseguire.
L'unica vera somiglianza sospetta si ha proprio nell'ottimo brano di apertura, Ride The Sky, dove su di un cavalcante e viscerale riff entra un corno francese a suonare pari pari la melodia di apertura di Immigrant Song dei Led Zeppelin. Calcolando che l'album dei Led Zeppelin è uscito appena un mese prima, potrebbe anche trattarsi di un effettivo plagio, ma personalmente lo vedo più come un caso.
Comunque si tratta di uno dei brani di punta dell'album, con un Lawton che sembra quasi anticipare un tipo di interpretazione ed approccio vocale che diventerà successivamente universalmente associato a Ronnie James Dio, il quale però nel 1970 non aveva neanche pubblicato il primo album con gli Elf.
L'album avanza monolitico con brani sempre potenti e trascinanti, spinti dalla canonica e riuscitissima combinazione di chitarra e organo tanto in voga in quegli anni, ma con una importantissima e rara presenza di ottime parti di basso in primo piano. Tutti i brani sono solidissimi, non c'è alcun punto debole, e forse l'unico "difetto" è la poca varietà che può portare a non ricordare i singoli brani per una qualche loro caratteristica peculiare, evidentemente assente e sacrificata sull'altare del più puro hard & heavy. Non si può però rimanere impassibili di fronte al maestoso assalto acido di Keep Goin', che avrebbe benissimo potuto far parte di un album di primissimi Uriah Heep. Considerazione questa non così campata per aria vista l'entrata di Lawton negli Uriah Heep nel 1977, scelta ottima sulla carta ma che portò alla realizzazione di album ben lontani da queste sonorità. In mezzo ci sono poi le esaltanti Free Baby e Baby You're A Liar, con tanto di ottimo assolo di organo alla Jon Lord che non guasta mai, e la conclusiva title track sembra quasi voler coniare un nuovo genere con la sua combinazione di blues, cambi progressive e atmosfere doom; un brano che sembra anche voler anticipare il ben più complesso secondo album, che uscirà da lì ad un paio di anni.
La versione CD offre poi ben 5 bonus track, sicuramente belle ed interessanti, ma purtroppo totalmente decontestualizzate essendo anche di 3 o 4 anni successive, risalenti ad un periodo della band ben diverso stilisticamente, tra un prog leggero e qualche tendenza fusion. Si può escludere da ciò la strumentale Horla, che non avrebbe sfigurato nell'album.
Nel successivo Where The Groupies Killed The Blues i Lucifer's Friend tenteranno una via fatta di musica ben più complessa, ma non totalmente distaccata dalle radici heavy dell'esordio, raggiungendo il loro indiscusso apice artistico. In questo primo album però si può ascoltare una band fresca, fatta di ottimi strumentisti, nel dettaglio Peter Hesslein, Dieter Horns, Jogi Wichmann e Stephan Eggert e, soprattutto, una delle migliori voci del genere, mai giustamente celebrata. I conterranei Scorpions prenderanno molto da questo album nei loro primissimi lavori, ed in generale non si può negare una qualità di fondo che non lo fa sfigurare se messo al fianco delle opere citate ad inizio recensione, seppur forse privo di un qualche brano veramente leggendario e di spicco in grado di trainare il tutto.
Un ascolto imprescindibile per i fan del genere, che si merita un 8.

martedì 26 febbraio 2019

The Who - The Who By Numbers (1975) Recensione

Dopo il trionfale Quadrophenia ed il piuttosto tragico tour di supporto, cosa avrebbero potuto fare gli Who? Era ovvio e palese che l'apice era già stato raggiunto, e tutt'ora alcuni fan guardano a quella magica trilogia formata da Tommy, Who's Next e Quadrophenia come a qualcosa di irraggiungibile, indicando inevitabilmente uno di quei tre album come loro preferito. Nel 1975 uscì anche il film di Tommy diretto da Ken Russel, forse rappresentando il primo sguardo al passato nella carriera degli Who, che proprio nel tour del 1975 e '76 suonarono più brani tratti da Tommy che dalla loro uscita più recente.
In ogni caso, Tommy o no, un nuovo album doveva arrivare, e ciò che uscì si lasciò alle spalle ogni qualsivoglia grandiosità sia strumentale che tematica, caratteristica irrinunciabile nei lavori precedenti. The Who By Numbers, che già nel suo sarcastico titolo sembra voler dare l'impressione di essere semplicemente un altro album degli Who, dove il "by numbers" indica un modo di fare seguendo una sorta di ricettario, delle regole, nulla di nuovo insomma (gioco di parole tra l'altro rappresentato in modo brillante nella bellissima copertina ad opera di Entwistle).
In realtà non è propriamente così, ma senza dubbio si percepisce quasi una mancanza di "fame", di ambizione, e ciò ha portato gli Who ad un album, almeno in superficie, più "normale". Ciò che forse più di ogni altra cosa caratterizza The Who By Numbers è una sorta di crisi che colpisce Pete Townshend in quel periodo, il quale ormai sulla soglia dei 30 anni si sente vittima di un mondo, quello dell'industria dell'intrattenimento musicale, in cui non si sente più totalmente a suo agio, e anzi si vede quasi come un impostore, ormai troppo vecchio e con la celeberrima frase "hope I die before I get old" che oscilla sopra la sua testa come una spada di Damocle. Interessante tra l'altro notare come i tempi siano cambiati in quel mondo, in quanto questa percezione Townshend l'ha avuta allo scoccare dei 30 anni, mentre oggi a quell'età è decisamente più facile esser definiti "giovani promesse".
I testi dell'album sono quindi decisamente più sinceri, autobiografici, a tratti fin troppo autocritici, ed il tutto per la prima volta non si nasconde dietro ad un qualche personaggio inventato parte di un concept album, ed è anzi esposto alla luce del sole in prima persona.
Già da subito con l'apertura di Slip Kid ci si trova davanti un brano decisamente più grezzo se confrontato con le aperture degli album precedenti, caratterizzato da inusuali percussioni, il magnifico piano di Nicky Hopkins che brilla per tutto l'album, e semplicemente i quattro Who, che per tutto l'album riescono forse meglio che in ogni altro caso a catturare il loro essenziale sound live (seppur più pulito) senza troppi orpelli aggiunti. Slip Kid parla della continua lotta, delle continue responsabilità che si fanno sempre più evidenti man mano che si cresce, con ovvio riferimento al rock and roll, dal quale "there's no easy way to be free", tanto a 13 anni quanto a 63.
However Much I Booze sembra quasi essere una seduta di terapia buttata su carta e messa in musica, ed è comprensibile il rifiuto di Daltrey di cantarla. Townshend se ne occupa in modo egregio, che tra ammissioni di essere un "impostore", un "clown", un mentitore seriale ed una sorta di fallimento, ammette che il rivolgersi all'alcool non risolve una situazione dalla quale non esiste via d'uscita.
Dopo un brano dalla tale pesantezza, la divertente Squeeze Box con i suoi ben poco celati doppi sensi sembra decisamente fuori posto; ciò non significa che non sia un pezzo piacevole, anzi, però è un peccato, visto il titolo, che l'assolo sia stato affidato ad un banjo e non ad una fisarmonica.
In Dreaming From The Waist ritorna un suono più tipicamente Who, e nonostante Townshend non abbia mai fatto segreto del suo scarso apprezzamento per questo brano, si rivela essere uno dei pezzi più riusciti dell'album, con cambi di accordi non banali e bellissimi interventi corali nel ritornello.
Nella successiva Imagine A Man si nota forse per la prima volta il carattere di questo The Who By Numbers, che fa di ballate dalla più pura, triste e malinconica bellezza il suo punto forte; elemento questo decisamente meno presente precedentemente. Chitarra acustica in primo piano, magnifica interpretazione di Daltrey, di nuovo Hopkins al piano, ed un Moon misurato a decorare i crescendo come solo lui sapeva fare. Da applausi.
Success Story è l'unico brano ad opera di Entwistle in questo album, e di nuovo ci regala un testo geniale ed intriso del suo solito senso dell'umorismo, con ovvi rifermenti agli Who stessi, al rompere chitarre per arrivare lontano, allo sperare di "farcela" prima dei 21 anni, all'essere in studio anni dopo a lavorare alla duecentosettantaseiesima take del prossimo numero uno... Un gran bel brano ritmato che alleggerisce quasi quanto Squeeze Box, riuscendo però ad essere decisamente migliore.
Arriviamo ora ad un'altra magnifica perla: They Are All In Love. Altra ballata di cui basta citare un passaggio del testo, che vale più di mille parole quando si vuole parlare di questa fase della carriera degli Who: "goodbye all you punks, stay young and stay high, hand me my checkbook and I'll crawl out to die. But like a woman in childbirth, grown ugly in a flash, I've seen magic and pain, and now I'm recycling trash". Uno dei pezzi più belli dell'album e della loro intera discografia.
Blue Red And Grey è invece una "stranezza", con Townshend da solo ad accompagnarsi con un ukulele ed un gran bell'arrangiamento di Entwsistle agli ottoni, è un brano molto grazioso che ha pian piano guadagnato un certo apprezzamento negli anni, ed in cui Townshend ha un impeto di ottimismo e dichiara di amare ogni momento della giornata.
In How Many Friends ritorna l'amarezza, e ci si chiede quanti veri amici ci si può vantare di avere, di quelli che ci amano per ciò che siamo, arrivando alla conclusione che si possono contare sulle dita di una mano, probabilmente in una situazione aggravata dall'essere una rockstar.
In A Hand Or A Face chiude l'album in modo un po' più spinto, dove l'ossessivo coro di "I am going round and round" rappresenta perfettamente il girare su se stessi senza una meta.
Insomma un album decisamente più essenziale e crudo dei precedenti, ed è facile immaginare una possibile delusione degli ascoltatori che aspettavano il successore di Quadrophenia e si sono ritrovati una band in crisi di identità. In realtà negli anni The Who By Numbers è diventato l'album preferito di molti fan, che ne apprezzano il suono più essenziale e le tematiche, oltre al non trascurabile fatto del poter ascoltare un Keith Moon ancora in forma, ed in generale una band che suona in modo solido e potente forse per l'ultima volta prima della morte di Moon, licenziando un album con una coerenza di fondo che il successivo Who Are You, nonostante abbia ottimi brani sparsi, non avrà.
Gli Who a questo punto erano in discesa, l'apice artistico era alle spalle e lo stesso Townshend lo sapeva, ma The Who By Numbers è un maturo colpo di coda uscito in tempi strani, in procinto di subire l'avvento del punk che loro stessi avevano anticipato negli anni '60. Un album che non stupisce ma emoziona, e che si merita un 8,5.

sabato 16 febbraio 2019

Led Zeppelin - live in Glasgow 03/12/1972 (Bootleg - 2019) Recensione

Si sa, siamo in un periodo di anniversari importanti, spesso cinquantennali, e sono quindi molti gli artisti o le etichette che si prodigano nel trovare materiale di ogni tipo da qualche archivio per poterlo impacchettare e vendere a prezzi esorbitanti, magari anche in una inutile versione in vinile. Jimmy Page è colui che da sempre mantiene viva l'eredità dei Led Zeppelin, dapprima con una infinita campagna di rimasterizzazioni durata 4 anni, fino ad arrivare a celebrare il cinquantennale con un libro fotografico ed una linea di scarpe Vans a marchio Led Zeppelin (e io che mi lamentavo del Monopoly dei Queen). Insomma, l'impressione è che in alcuni casi ci sia un enorme distacco tra l'artista ed il proprio pubblico, che mentre questi accessori modaioli vengono presentati in pompa magna è occupato a sbavare su un nuovo bootleg. E quando il mercato per così dire "non ufficiale" risulta più interessante di quello ufficiale, forse non ha molto senso combatterlo e denigrarlo, e si dovrebbe anzi farsi un esame di coscienza riguardante le proprie decisioni di marketing.
Detto questo, dopo un deludente anno celebrativo per il dirigibile di piombo, in cui pare che un fantomatico album live avrebbe dovuto vedere la luce ma non se ne è fatto nulla, sono invece state due le importanti uscite nel mondo bootleg. La prima è stata una versione parziale del leggendario concerto del 29 Settembre 1971 ad Osaka in ottima qualità soundboard (di cui si spera di poter ascoltarne una versione intera prima o poi), e la seconda risale proprio a pochi giorni fa: una registrazione fatta dal pubblico del concerto di Glasgow del 3 Dicembre 1972.
C'è da dire che effettivamente quel periodo era già discretamente "coperto", trattandosi di un tour britannico di poco successivo a quello giapponese di Ottobre (interamente documentato con registrazioni di discreta qualità) iniziato il 30 Novembre a Newcastle e che si concluderà il 30 Gennaio 1973 a Preston. Di questo tour, l'ultimo inglese se non si considerano le date ad Earls Court nel 1975 e le due a Knebworth nel 1979,  è celeberrima la registrazione di altissima qualità di Southampton del 22 Gennaio 1973, anche se non contiene la loro miglior performance, o quella di Stoke del 15 Gennaio, insieme a molte altre. Insomma sono molte le registrazioni di qualità, di un periodo però, quello di Gennaio, che mostra i primi eclatanti cedimenti nella voce di Plant, vittima della ormai proverbiale influenza e di un generale affaticamento perfettamente comprensibile tenendo conto del suo ruolo. Le date di Novembre e Dicembre 1972 però lo mostrano ancora in discreta forma, in grado di raggiungere grandissima parte delle note anche se già non al livello delle date estive di qualche mese prima rappresentate da How The West Was Won.
Di Glasgow già esisteva la registrazione del 4 Dicembre, che come quella dell'8 a Manchester si tratta di una buona registrazione di un ottimo concerto, ed ora è apparsa dal nulla questa del 3 Dicembre.
Da subito si può dire che la registrazione richieda le cosiddette "bootleg ears", in quanto non vanta una gran chiarezza di suono, ma, pur essendo in mono, neanche scade nella distorsione pura e in una massa indistinguibile di suoni come in molti altri casi. Da 1 a 10 darei un 6,5 alla qualità sonora.
La scaletta è interessante in quanto più estesa delle date giapponesi di due mesi prima, e comprendente una manciata di pezzi dall'allora ancora inedito Houses Of The Holy.
Il concerto inizia con Rock and Roll, brano che rimarrà in quella posizione fino al 1975, qui purtroppo minato da problemi al microfono per Plant, e come molti altri concerti del periodo confluisce subito in Over The Hills And Far Away, una delle ultime versioni in cui Plant tenta di cantare la melodia alta originale prima di riadattarla più in basso, cosa che accadrà già da Gennaio '73. Personalmente ho sempre preferito le scalette che iniziavano con 2 o 3 brani "spinti" fin da subito, e penso che rompere subito il ritmo così non funzioni benissimo, ma tolte alcune sbavature, sono ottime performance di entrambi i brani, con un Page ancora dal tocco discretamente pulito prima della svolta del '73/'75. Quello schiacciasassi di Black Dog segue in una versione in linea con molte altre, per poi lasciar spazio alla new entry Misty Mountain Hop, già suonata in Giappone ad Ottobre ed inserita in medley con Since I've Been Loving You, dove ci rimarrà per tutto il 1973. Se la prima di queste due soffre ancora un po' l'esser stata inserita da poco in scaletta causando qualche imprecisione nell'esecuzione, la seconda ci regala un Page da applausi. Altra novità è Dancing Days, brano che rimarrà in scaletta fino ai primi mesi del '73 e ritornerà in veste acustica improvvisata in un paio di date nel 1977, qui suonata molto bene e fedelmente alla controparte in studio. La sezione acustica qui comprende solo Bron Yr Aur Stomp, mostrando una evidente voglia di ridurre questa parte di scaletta fino alla sua eliminazione l'anno successivo.
The Song Remains The Same e The Rain Song sono qui eseguite con una carica ed un'intensità impressionante, con veramente poco da invidiare alle più rodate versioni dell'anno dopo, avendo dalla loro qui un approccio decisamente più cauto tipico di quando si affrontano brani nuovi. Interessante notare che proprio in questo periodo John Paul Jones iniziò ad usare il Mellotron dal vivo, e lo troviamo proprio in The Rain Song oltre che in altri brani che vedremo. Non poteva poi mancare la chilometrica maratona di Dazed And Confused, che ancora non è al livello delle magnifiche versioni del tour europeo di Marzo '73, ma già è presente l'accenno alla sezione "San Francisco", e l'infinita cavalcata finale è una perfetta dimostrazione dell'implacabile sezione ritmica Jones-Bonham e di un Page particolarmente ispirato.
Stairway To Heaven segue in una versione in linea con le altre del periodo, ma è con la successiva Whole Lotta Love che le cose si fanno interessanti. Come di consueto infatti questo brano viene usato come punto di partenza per una mezz'ora abbondante di medley di cover tra il rock and roll ed il blues, e questo concerto non fa eccezione vantando soliti noti come Boogie Chillen, Let's Have A Party, altri standard che purtroppo non conosco ed una finale capatina nel consueto lento blues all'invocazione di "squeeze my lemon". A questo punto purtroppo il nastro sembra essere rovinato per circa un paio di minuti, ma non ci si perde troppo.
Forse la sorpresa più grande è trovare Immigrant Song, suonata per l'ultima volta in questo tour, come primo bis. Fin dal 1970 infatti fu il brano di apertura dei concerti, qui spostato in avanti si presume per permettere a Plant di prendere decentemente le note in apertura dopo essersi riscaldato a dovere.
A seguire la sempre benvenuta Heartbreaker ed una interessantissima versione di Thank You introdotta e suonata con il Mellotron al posto dell'Hammond, scelta questa che verrà abbandonata alla fine di questo tour, ma che dà un tono un po' diverso ad un brano che dal vivo rende sempre egregiamente. Fine, niente Moby Dick in questo periodo per qualche motivo, non che la cosa mi dispiaccia a dire il vero, pur essendo fan di Bonham.
In definitiva, ci sono sicuramente registrazioni migliori di questo periodo, ma l'uscita di una qualsiasi registrazione inedita di un concerto dei Led Zeppelin, specialmente dei primi anni, è sempre qualcosa di cui gioire. Imprescindibile? No, ma sicuramente interessante, oltre che una delle ultime occasioni per ascoltare la "vecchia voce" di Plant ed un Page ancora preciso, pulito, tagliente come solo fino al '73 riuscirà ad essere in modo continuo. Poco da dire sulla sezione ritmica, che purtroppo non rende a dovere in questa polverosa registrazione, ma che si dimostra essere sempre solidissima.
Nella speranza di qualche altra uscita interessante nel prossimo futuro, abbiamo di che gioire.


mercoledì 13 febbraio 2019

Pink Floyd - The Man & The Journey

Il 1969 per i Pink Floyd fu un anno particolarmente produttivo ed interessante, il primo forse in cui la band iniziò a muovere qualche passo verso un'identità propria e non totalmente all'ombra dell'ingombrante figura di un Syd Barrett ormai lontano. A Saucerful Of Secrets già mostrava tracce di un graduale cambiamento, con un Gilmour certamente non ancora integrato appieno, ma con importanti contributi compositivi di Wright e, soprattutto, di Waters; ma l'inclusione di Jugband Blues e di quel paio di tracce con Syd ancora presente (Remember a Day e Set The Controls For The Heart Of The Sun), lo rendevano un lavoro un po' ibrido. Il 1969 invece vide la pubblicazione di due album a loro modo importanti e decisamente diversi fra loro. Dapprima la colonna sonora del film More, che mostrava una band nel pieno di una fase in gran parte acustica ma con ancora evidenti parentesi psichedeliche e, inaspettatamente, un paio di brani piuttosto spinti che non vedranno mai un vero seguito (The Nile Song e Ibiza Bar); poi Ummagumma, doppio album che è tanto una celebrazione della loro faccia live nel primo disco quanto un pastiche di pura sperimentazione individuale nel secondo disco. Nel mezzo di tutto questo però ci fu un'altra importante parentesi, indissolubilmente legata a questi ultimi due album, ma in qualche modo comunque diversa.
Con The Man & The Journey si intende una coppia di lunghi brani musicali tematici, suite se vogliamo, proposti solamente in concerto nell'arco del 1969, lunghi circa una quarantina di minuti l'uno e composti sia da materiale nuovo, spesso frutto di improvvisazione, che da brani poi finiti in More e Ummagumma.
Importantissimo far notare che se a posteriori è facile credere che queste due suite potessero essere un pretesto per dare un tono concettuale in concerto ad una manciata di brani dai loro nuovi album, in realtà se andiamo a vedere le date di registrazione degli album noteremo che lavorarono a More da Febbraio a Maggio, ad Ummagumma da Agosto a Settembre, mentre l'album live è tratto dalle date del 27 Aprile e del 2 Maggio. Con queste date sommarie in mente, se si va a ricercare quando suonarono The Man & The Journey in concerto, si può notare che la prima data, un evento chiamato The Massed Gadgets Of Auximenes - More Furious Madness from Pink Floyd, fu il 14 Aprile 1969 alla Royal Festival Hall. Insomma prima di pubblicare sia More che, soprattutto, Ummagumma.
Quindi ci si trova davanti ad una situazione non dissimile al dilemma dell'uovo e della gallina, non tanto per i brani di More, comunque a grandi linee contemporanei, quanto per quelli di Ummagumma. Anche vero che, come vedremo più avanti quando analizzerò nel dettaglio il contenuto, sono anche presenti brani presi da album precedenti, implicando quindi una decisione di riutilizzare materiale già edito. Credo quindi che i brani allora ancora inediti non siano stati composti per una cosa o per l'altra specificatamente, ma che avendoli a disposizione si sia deciso semplicemente di usarli in quanto in qualche modo coerenti con il "concept". Questa sovrapposizione di materiale potrebbe spiegare la mancata pubblicazione ufficiale di una qualche testimonianza di The Man & The Journey ai tempi, cosa comunque considerata pare, e magari idealmente sostituita dal più normale disco live di Ummagumma. 
Esistono varie testimonianze di questi concerti, tra cui una di bassa qualità proprio alla Royal Festival Hall, una versione ridotta suonata alla BBC per il programma Top Gear il 12 Maggio, ed il ben più famoso, per anni bootlegato e poi uscito in The Early Years 1965-1972 nel 2016, concerto al Concertgebouw di Amsterdam del 17 Settembre 1969.
Quest'ultimo concerto è sicuramente la miglior testimonianza di The Man & The Journey in quanto completo e di ottima qualità sonora. Indubbiamente ha delle occasionali rovinose cadute nella performance, ma ciò non impedisce di apprezzarne la bellezza. Basandoci quindi su questa versione, e citando eventuali differenze con altre se presenti, andiamo a vederne il contenuto:

The Man


Daybreak: la prima suite inizia con la bucolica Daybreak, a rappresentare l'alba, il risveglio, l'inizio della giornata dell'uomo. Di fatto si tratta di Grantchester Meadows, poi in Ummagumma, in una versione non del solo Waters alla chitarra e voce come nell'album, ma con anche Gilmour alla seconda chitarra e armonie vocali, e Wright ad inserire ottime parti di organo, assenti nella versione sull'album.

Work: dopo il risveglio il nostro protagonista va al lavoro, e questa sezione è introdotta da una rumorosa sirena, che lascia poi spazio ad un brano puramente percussivo guidato da Mason, con gli altri tre occupati a costruire un tavolo a suon di chiodi, martelli e sega, tutto a tempo di musica. Questa sezione non si tratta di un vero e proprio brano, e quindi non è presente su alcun album.

Teatime: questa sezione non è presente in The Early Years, anche perchè priva di un qualsivoglia elemento musicale, essendo in sostanza il momento della "pausa tè", in cui i Floyd si facevano servire il tè dai roadie sul palco. Sono in molti a tracciare una sorta di collegamento stilistico con Alan's Psychedelic Breakfast da Atom Heart Mother, di appena un anno dopo.

Afternoon: il pomeriggio, un momento di pigrizia e riposo, in un brano che molto probabilmente fu scritto ad hoc, in quanto non trovò poi spazio in nessun album dell'epoca. Bisognerà aspettare fino al 1971 per poterne ascoltare una versione in studio, sulla raccolta Relics, re-intitolata Biding My Time. Questo semplice brano blueseggiante è interessante specialmente per la performance di Wright al trombone.

Doing It!: altro brano guidato dalle percussioni che sta a rappresentare il rapporto sessuale, che non esiste su alcun album ma non è dissimile da certe cose come il finale di The Grand Vizier's Garden Party (Entertainment) da Ummagumma, Up The Khyber da More o addirittura Heart Beat Pig Meat dalla colonna sonora di Zariskie Point, a seconda della performance della singola serata.

Sleeping: il protagonista si addormenta, e a rappresentare questo momento ci pensa un classico brano atmosferico tipico della produzione dei Pink Floyd di quest'epoca. Difficile dire con certezza di che brano si tratti guardando agli album in studio, e forse il più plausibile è Quicksilver da More, qui però corredato dal suono di respiri.

Nightmare: a rappresentare l'incubo ci pensa una versione estesa di Cymbaline da More. Sia in questo caso che quando il brano veniva suonato dal vivo all'interno di una normale scaletta, esso finisce per diventare più spinto, implementare un assolo di Gilmour ed una sezione rumoristica centrale, entrambe le cose non presenti nella quasi acustica versione in studio.

Labyrinth: la breve chiusura della suite; a seconda delle versioni si tratta o di un semplice collage sonoro formato in gran parte da orologi, oppure di una reprise di Daybreak.


The Journey


The Beginning: l'inizio del viaggio, la partenza dalle verdi campagne inglesi, rappresentato qui da Green Is The Colour da More, in una versione anche qui estesa e con un crescendo finale.

Beset By The Creatures Of The Deep: il viaggio procede per mare, dove il protagonista è, letteralmente, "assalito dalle creature delle profondità", e quale miglior brano per rappresentare questa tensione di Careful With That Axe Eugene? Qui come in praticamente ogni concerto dell'epoca Careful inizia direttamente dalla fine di Green Is The Colour, senza alcuna pausa.

The Narrow Way: dopo essersi lasciati alle spalle le creature delle profondità, la nave si ritrova nel mezzo di una tempesta, prima di raggiungere finalmente la terra. Questa parte del viaggio è rappresentata da The Narrow Wat part III, da Ummagumma. Purtroppo la versione di Amsterdam ci regala un Gilmour che segue una linea melodica tutta sua, risultando a dir poco esilarante.

The Pink Jungle: il protagonista una volta a terra si ritrova a dover attraversare una misteriosa giungla, illustrata da un brano che si rivela essere un riarrangiamento di Pow. R Toc. H da The Piper At The Gates Of Dawn. In altri concerti il pezzo in questione prenderà le sembianze di un altro brano dalle tinte tribali non meglio identificato.

The Labyrinths Of Auximenes: una volta uscito dalla pink jungle, un'altra insidia attende il protagonista: un insidioso labirinto, musicalmente rappresentato da un brano presumibilmente improvvisato non distante dalla parte centrale di Interstellar Overdrive, con però una linea di basso quasi identica a quella di Let There Be More Light a guidare il tutto. Il pezzo si conclude con una sezione rumoristica chiamata Footsteps And Doors, composta appunto da suoni di passi e porte che si aprono e si chiudono, presumibilmente diffusi nella sala in quadrifonia grazie all'Azimut Coordinator.


Behold The Temple Of Light: il protagonista raggiunge un non meglio identificato "tempio della luce", e ad accompagnarlo ci pensa un altro brano che si può definire inedito, caratterizzato da brillanti accordi di chitarra non dissimili dall'inizio di The Narrow Way part III da Ummagumma, ma che qui si sviluppano in un modo decisamente più interessante.

The End Of The Beginning: il viaggio si conclude in modo trionfale con quella che è l'ultima sezione del brano A Saucerful Of Secrets, chiamato anche Celestial Voices. In svariate occasioni Wright suonò questo brano con l'organo a canne, nelle sale da concerto che ne vantavano uno al loro interno, quando non addirittura con l'aggiunta di un coro.

In definitiva, questo lavoro sarebbe stato degno di una pubblicazione ufficiale? Di certo sarebbe stato molto interessante, ed avrebbe dato un ruolo ed una casa a brani che finiranno per essere "buttati" in album oggettivamente altalenanti, seppur carichi di fascino. Che poi l'idea ed il risultato abbiano quell'alone di pretenziosità ed ingenuità non lo metto in dubbio, ma non si può negare il fatto che The Man e The Journey rappresentino una delle migliori testimonianze, oltre agli album ufficiali, di uno dei periodi più interessanti e produttivi della carriera dei Pink Floyd.

Vi lascio un interessante video delle prove prima del concerto alla Royal Festival Hall:

venerdì 8 febbraio 2019

Styx - The Grand Illusion (1977) Recensione

Forse il primo album in cui tutti gli elementi del "suono Styx" iniziano ad incastrarsi nel migliore dei modi, creando così uno dei loro lavori più riusciti e più rappresentativi della loro fase anni '70. L'ultimo arrivato Tommy Shaw già si era fatto notare nel precedente Crystal Ball, specialmente nella title track, e pian piano acquisterà sempre più spazio all'interno della band, fino a diventare una delle due "facce" della musica degli Styx insieme a Dennis DeYoung, a fronte di un sempre minore e marginale contributo di James Young. Come ogni band con più di un membro creativo ciò ovviamente porterà nel tempo a nette divisioni, ma non è ancora il caso in questo The Grand Illusion.
In questo album è ancora ben presente una certa tendenza progressive, più negli arrangiamenti che nelle composizioni a dire il vero, e la title track che apre l'album ne è un perfetto esempio. Una potente cavalcata con una forte presenza di synth lascia poi spazio alla brillante voce di DeYoung, che canta di come molto spesso ciò che si ritiene importante sia in realtà solo una grande illusione, intervallata da numerosi stacchi, assoli, riff e chi più ne ha più ne metta. Senza dubbio uno dei pezzi più efficaci dell'album e non solo. Fooling Yourself (The Angry Young Man) invece sembra quasi guardare a certe cose degli Yes con i suoi cambi di tempo, anche dispari, importanti parti di chitarre acustiche ed un tagliente sintetizzatore occupato in costanti assoli. Tommy Shaw ne è l'artefice, così come della successiva, e a mio parere un pelo meno interessante, Superstars.
Segue quello che indubbiamente è uno de brani più celebri della loro carriera: Come Sail Away. Se si sorvola su un testo non proprio memorabile ed una forte sensazione di esser di fronte ad un brano costruito a tavolino, non è difficile capire il suo successo. Dalle semplici ed intense strofe, perfette per esser cantate in concerto all'unisono, ai potenti stacchi che introducono la più spinta e corale seconda sezione interrotta da un intermezzo di synth, che pare fare il verso a Won't Get Fooled Again degli Who, ci si trova di fronte ad un perfetto prototipo di un intelligente brano pop come smetteranno gradualmente di esistere dallo scoccare dell'inizio del successivo decennio.
Si apre il secondo lato con l'unico brano a firma JY oltre che forse uno dei suoi più riusciti: Miss America. Un potente brano rock che finirà per diventare la base per una formula che Young riproporrà, a grandi linee, in ogni suo brano di lì in poi, con le strofe quasi recitate o comunque piuttosto a-melodiche ed un ritornello urlato ad altezze vertiginose. Molto bella anche l'introduzione di stampo classico, anche se non c'entra poi nulla con il pezzo vero e proprio.
A rimarcare il già citato stampo progressive degli Styx di quegli anni c'è poi Man In The Wilderness, brano ad opera di Tommy Shaw evidentemente ispirato ai Kansas, band di cui lo stesso Shaw era grande fan. Ispirazione evidente in ogni aspetto del brano, dalle solari aperture melodiche alla struttura con tanto di intermezzo strumentale (tra l'altro con un assolo di chitarra il cui suono è a dir poco spettacolare), tipica di ogni mini-suite oltre i 6 minuti dei Kansas. L'album si mantiene poi su territori non distanti con l'egualmente epica Castle Walls, ad opera di DeYoung, che vanta una sezione centrale dalla devastante potenza sonora.
L'album si conclude con The Gran Finale, che effettivamente proprio di questo si tratta, e che si presenta come un contenitore di citazioni ai brani dell'album su di una base strumentale a grandi linee basata su Superstars. Il testo fa espliciti riferimenti alla title track, a Superstars e a Come Sail Away, portando l'album alla conclusione nel più epico de modi.
Indubbiamente The Grand Illusion si rivela essere uno degli album più solidi della carriera degli Styx, oltre che fare da ideale ponte tra i più eclettici primi album ed i più celebri successivi. Molti lo indicano come il loro migliore, ma per me l'oro se lo merita Paradise Theatre, e questo The Grand Illusion non si smuoverebbe comunque dal podio contendendosi la seconda posizione con il successivo Pieces Of Eight.
Un gran bell'album piacevolissimo all'ascolto, che si merita un 8,5.

mercoledì 6 febbraio 2019

Eagles - One Of These Nights (1975) Recensione

Quarto album in studio degli americani Eagles ed un album che purtroppo non gode della stessa fama di altri loro lavori. Indubbiamente Hotel California e, seppur un gradino sotto, Desperado rimangono i vertici della loro carriera, dal punto di vista commerciale il secondo e, a mio parere, artistico il primo. One Of These Nights cade nel mezzo di una loro fase di transizione da country a southern rock, che pur essendo entrambi elementi presenti più o meno sempre nel loro suono, il primo prevaleva negli album fino a Desperado, ed il secondo iniziò ad imporsi dal successivo e più elettrico On The Border. Ovviamente sarà l'entrata di Joe Walsh a trasportare la band lontano dai toni acustici dei primi album, ma in questo One Of These Nights non era ancora presente. Chi invece iniziava a prender posto all'interno della band era Don Felder, che già in On The Border, seppure in modo marginale, aveva contribuito al suono più rock di brani come Already Gone e Good Day In Hell. Come sappiamo ben presto finirà per buttar giù l'idea che poi farà nascere nientemeno che Hotel California, ma in questo album è ancora il "nuovo arrivato", tra l'altro ancora affiancato da Bernie Leadon, qui al suo ultimo lavoro con la band.
Leadon infatti era forse colui che più di tutti era legato al country degli esordi, e proprio per via di questo cambio di direzione ed approccio nella band, oltre che sicuramente per via dei soliti conflitti interni, lascerà gli Eagles dopo questo album.
Già dall'inizio dell'album si mette in chiaro che gli Eagles non sono più solamente l'ennesimo gruppo country. La title track rappresenta forse la loro unica puntatina in territori disco-funk, in un brano dall'arrangiamento magistrale oltre che inaspettatamente complesso nei suoi incastri di chitarre e voci. Don Henley qui si conferma come voce principale e rappresentativa degli Eagles, sfoderando anche un inaspettato e cristallino falsetto. I Barclay James Harvest devono aver ascoltato molto bene questo brano quando si ritrovarono a comporre Rock And Roll Star.
La successiva Too Many Hands vanta il bassista Randy Meisner alla voce, in un brano di polveroso country rock godibile ma non indimenticabile. Hollywood Waltz invece è un sonnolento valzer che sembra quasi essere una versione riveduta ed aggiornata di Saturday Night da Desperado, con cui condivide stile e atmosfera; un bel brano che rimanda al passato degli Eagles.
Segue Journey Of The Sourcerer, caso più unico che raro per loro di brano interamente strumentale, oltre ad essere l'indiscutibile capolavoro di Bernie Leadon, che ben rappresenta l'ormai evidente distacco stilistico tra lui ed il resto della band a quel punto. Un bellissimo pezzo atmosferico guidato dal banjo con il supporto sia del resto della band che dell'orchestra, famoso per esser stato usato nella colonna sonora del film The Hitchiker's Guide To The Galaxy.
Nella successiva Lyin' Eyes entra finalmente Glenn Frey alla voce solista, in un brano principalmente acustico con bellissime armonie vocali nel ritornello. Pur essendo, a mio parere, un po' troppo lungo nella versione su album (su singolo presenta una strofa ed un ritornello in meno), rimane una delle migliori creature partorite dal compianto Frey, tanto da vincere il Grammy per la "miglior interpretazione vocale pop di coppia o di gruppo".
Il brano che forse più di ogni altro rimane tutt'oggi tra i più conosciuti e celebrati di questo album è però senza dubbio Take It To The Limit. Il suo andamento lento e "dondolante", la squillante voce di Meisner che qui dà il suo meglio, quel senso di rassicurante libertà che solo certi pezzi sanno dare, tutto concorre alla magnifica resa di un brano riproposto ancora oggi dal vivo dai rimanenti Eagles, ma che nessuno riuscirà mai a far rendere quanto Randy Meisner.
A questo punto è ovvio che l'album abbia già raggiunto il suo apice, e che si appresti quindi ad una lenta discesa che porta alla sua conclusione, iniziando con il primo brano ad opera di Don Felder, Visions. Un altro semplice brano dai toni tipici del southern rock, lascia un po' il tempo che trova, anche e soprattutto a causa della performance vocale dello stesso Felder, priva delle personalità dei compagni di band; si può capire perchè non lo ritroveremo più come cantante solista negli album successivi.
Un ultimo ottimo colpo di coda lo dà la premiata ditta Frey/Henley con l'ottima After The Thrill Is Gone, brano malinconico che sembra quasi anticipare certe cose da The Long Run, come The Sad Cafe.
L'album però non finisce qui, e si chiude con la pacata I Wish You Peace, vero e proprio addio alla band da parte di Bernie Leadon, che compone il brano insieme alla sua compagna di allora Patti Davis, figlia di Ronald Reagan.
Forse uno dei lavori più "di gruppo" degli Eagles, in cui ogni membro si conquista uno spazio ed il tutto non è ancora monopolizzato dalla tirannica coppia Henley/Frey, ma che forse soffre un po' del già citato senso di transizione. Ognuno sembra "tirare" in una direzione diversa, e se da un lato questo ci regala uno degli album più eclettici di questa band, dall'altro ne risente un po' in solidità. Certo è che One Of These Nights contiene alcune delle canzoni più note e meglio riuscite della loro intera carriera, e mostra un notevole passo avanti dal pur ottimo, ma un po' sbiadito al confronto, precedente On The Border.
Un album che combina l'anima più commerciale e quella più "sperimentale" (per quanto sperimentali possano essere gli Eagles) di questa band, e per questo si merita un 8 come voto.
Menzione d'onore per la copertina, forse la più bella della loro intera discografia.

lunedì 4 febbraio 2019

Genesis - Selling England By The Pound (1973) Recensione

Premetto che sarà una recensione controversa, siete avvisati.
Normalmente Selling England By The Pound finisce in cima a molte classifiche, sia riguardanti strettamente i Genesis, sia più in generale il progressive rock. Personalmente, credo che Selling sia l'album meno riuscito della prima fase della loro carriera. Sì, lo so, sono pazzo, ma almeno vediamo i motivi.
I Genesis arrivavano da una serie di album in costante crescita sotto vari aspetti, oltre che parte di una evidente evoluzione: l'esordio intriso di pop anni '60 di From Genesis To Revelation, l'affascinante e primordiale progressive bucolico e pastorale di Trespass, l'aria barocca e fiabesca di Nursery Cryme, e la indiscutibile perfezione di Foxtrot, in cui tutti gli elementi degli album precedenti si incastrarono fra loro nel creare un lavoro estremamente solido.
E poi uscì Selling England By The Pound, ed il primissimo "problema" fu in un certo senso il cambio di approccio alla scrittura rispetto ai lavori precedenti. Prima infatti molti brani venivano suonati dal vivo prima di essere registrati, avendo così modo di evolversi e trovare la loro via anche basandosi sulle reazioni del pubblico; questa cosa non accadde con Selling. Svariati brani o frammenti nacquero infatti da improvvisazioni in studio, che portarono ad alcuni ottimi risultati, e ad altri un po' meno riusciti. Dancing With The Moonlit Knight è forse uno dei migliori esempi di come questo approccio potesse portare a buoni risultati: il contrasto fra la prima sezione, in gran parte ad opera di Gabriel, i crescendi e le frenetiche corse strumentali con tanto di tapping di Hackett sono magistrali, ed hanno finito per far scuola ed ispirare molto del progressive che seguirà. Il testo poi è forse uno dei migliori partoriti da Gabriel, con  riferimenti alla cultura inglese e neologismi molto intelligenti. Discorso simile si può fare per The Cinema Show, dove un altro forte contrasto, qui più netto, caratterizza un altro dei brani migliori dei Genesis. La prima metà quasi acustica e molto melodica, quasi pop oserei dire, accompagna l'ascoltatore ad una delle migliori esibizioni virtuosistiche tanto di Banks (che qui si diverte con il suo primo, relativamente economico, sintetizzatore) quanto di Collins e Rutherford, unici artefici di questa ultima sezione, ed ironicamente proprio il trio che porterà avanti il nome Genesis di lì a pochi anni. Nel mezzo poi troviamo Firth Of Fifth, che mostra un approccio decisamente più ordinato ed organizzato, uno svolgimento incredibilmente scorrevole che passa dalla complessa introduzione al piano d'impostazione classica, alla potente parte cantata seppur con un testo non particolarmente riuscito, ad una sezione strumentale centrale che dapprima riprende l'introduzione e poi lancia la celebrazione massima di Steve Hackett come chitarrista solista; ancora oggi gran parte del suo stile gira intorno a questo assolo.
Un brano che un certo tipo di ascoltatori può trovare discutibile è I Know What I Like (In Your Wardrobe), in quanto più semplice dell'idea che normalmente ci si fa dei Genesis di quest'epoca, oltre che "orribile presagio" di ciò che verrà. Personalmente la penso in modo un po' diverso: a parte il fatto che non ci ho mai visto nulla di male nel pop, e che anzi apprezzi praticamente tutti gli album a nome Genesis pur riconoscendone le differenze (anche se non così nette come si vuole spesso credere), io credo che l'elemento pop sia stato sempre presente nella loro musica. Il loro primo album era sostanzialmente pop, e se confrontiamo la loro musica con altre band contemporanee definibili come progressive, tipo Yes e King Crimson (anche se comprensibilmente Fripp stesso sembra voler rifiutare la definizione e fuggire da questo "genere-gabbia"), non si può negare il fatto che i Genesis siano quelli più affini ad un tipo di musica più "popolare".  Da questo punto di vista quindi I Know What I Like è un bel brano che alleggerisce il tono altrimenti piuttosto pesante dell'album. Un discorso simile lo si potrebbe fare per More Fool Me, ma personalmente reputo questo brano come molto meno riuscito, e non per la presenza del Collins cantante, anzi, ma anche solo se confrontata alla in un certo senso analoga For Absent Friends da Nursery Cryme, secondo me mostra una certa debolezza, non aiutata da un arrangiamento molto scarno.
Ed ora arriviamo alla nota dolente: The Battle Of Epping Forest. Musicalmente è un brano estremamente complesso, forse tra i più complicati della loro discografia, ed in 11 minuti sembra andare ovunque e da nessuna parte, pur essendo apprezzabile dal punto di vista strumentale. Il problema si ha quando un brano già di per sé complesso deve poi anche contenere una ugualmente complessa componente lirica. Non è la prima volta che Gabriel decide di cantare sopra letteralmente ogni cosa: già lo fece sul finale di Apocalypse in 9/8 da Supper's Ready, inizialmente irritando Banks che poi accettò, e lo farà ancora in un modo analogo nel successivo The Lamb Lies Down On Broadway in The Colony Of Slippermen. In questi casi la complessità della musica e l'evidente difficoltà di Gabriel nell'incastrarsi e nell'inventare una qualche melodia, per qualche strano motivo pare funzionare, dando anche un certo peso all'interpretazione teatrale di Peter. In Epping Forest però le cose a mio parere non si incastrano come dovrebbero. La musica è ottima, il testo anche, l'interpretazione è Gabriel al suo meglio, ma una volta messo tutto insieme viene fuori una "mappazza" (termine tecnico) da 11 minuti abbondanti la cui unica attrattiva risiede nella sua "stranezza". Non per niente il carino ma piuttosto innocuo brano strumentale che segue si intitola After The Ordeal, che si può tradurre come "dopo la dura prova" o "dopo il Calvario". Se penso ad un analogo caso di brano teatrale, dove Gabriel interpreta vari personaggi, mi viene in mente ad esempio Harold The Barrel, decisamente più "musicale" nella resa, o Get 'Em Out By Friday, già più ostica ma comunque dalla risultato a mio parere migliore.
La reprise finale di Dancing With The Moonlit Knight, Aisle Of Plenty, è invece una felice intuizione, con il suo andamento decisamente più calmo dopo l'apoteosi di The Cinema Show, a cui è collegata, porta l'album a sfumare sfoderando un'altra serie di intelligenti giochi di parole.
Un'altra cosa che mi ha sempre poco convinto qui è la produzione. Non che il tutto suoni male, anzi, il problema è proprio l'opposto. Il suono l'ho sempre percepito come fin tropo pulito, brillante, privo della corposità degli album precedenti ed ancora lontano dall'abrasività del ben diverso successore.
Detto questo, se vediamo I Know What I Like come un semplice pezzo discreto, alla fine l'album è "salvato" dai tre capolavori Dancing With The Moonlit Knight, Firth Of Fifth e The Cinema Show, che di certo sarebbero in grado di salvare anche un'intera discografia, ma che dimostrano una disparità tra questi e gli altri brani non presente nei precedenti lavori, che ho sempre percepito come più compatti e, soprattutto, scorrevoli. Certamente il successivo The Lamb non sarà né compatto e né scorrevole, ma sfoggerà ben altre caratteristiche a suo favore, su tutte la lungimiranza.
Insomma ogni volta che vedo Selling scalare ogni qualsivoglia classifica non posso che sentirmi, tanto per cambiare, una sorta di mosca bianca, preferendogli non solo gli altri lavori dell'epoca Gabriel, ma anche alcuni dei successivi. Certo, i successivi non hanno i tre brani di cui sopra, ma se si considera la somma e non le singole parti...
Se non altro Selling ha in qualche modo proiettato i Genesis verso il loro primo importante cambio stilistico, quello di The Lamb, che purtroppo non ebbe però seguito, in quanto già nei successivi A Trick Of The Tail e Wind And Wuthering, nonostante il tanto vituperato cambio di frontman, parvero tornare verso territori più conosciuti e confortevoli, rimandando l'inevitabile evoluzione di un paio di anni.
Selling England By The Pound a mio parere si merita un 7,5 perchè mi sento generoso.