lunedì 29 novembre 2021

The Darkness - Motorheart (2021) Recensione


Puntuali come un orologio svizzero, due anni dopo EASTER IS CANCELLED, i Darkness ritornano con un nuovo album, il loro settimo. Preceduto da ben quattro singoli (troppi a mio parere, ma ormai questa è la tendenza per chiunque), MOTORHEART si propone, stando alle parole del cantante Justin Hawkins, come un album che nulla ha a che fare con l'attuale situazione mondiale, ma bensì come una divertente raccolta di canzoni perfette per distogliere l'attenzione dalla deprimente realtà. Con questa premessa, non possono non aver guadagnato la mia attenzione! 
E di fatto il divertimento non manca nell'album, che si rivela essere perfettamente in linea con il loro ormai consolidato stile hard rock, tra brani piuttosto canonici, saltuarie cavalcate al limite del metal (ma, per fortuna, mai del tutto appartenenti a quel genere), qualche episodio puramente goliardico, tanti bei riff vecchio stile ed il solito, amato/odiato, falsetto di Justin sparso un po' ovunque. 
C'è che non riesce a prenderli seriamente, chi li definisce "comedy band", ed io, pur sforzandomi, non riesco proprio a capire come il non prender seriamente qualcosa sia considerabile negativo.

Detto questo, l'album inizia con la spassosa Welcome Tae Glasgae, che con il pretesto della presa in giro dell'accento scozzese (sarebbe Welcome to Glasgow, ovviamente), introduce in modo devastante il tutto quasi come lo fece anni fa Barbarian, senza però, purtroppo essere altrettanto memorabile. La frenetica It's Love e la multiforme Motorheart, due tra i singoli pubblicati prima dell'uscita dell'album, sono buoni brani, il secondo in particolare è ottimo, ma paiono peccare un po' di prevedibilità, sensazione che ha iniziato a farsi largo dall'album precedente, e che, ahimè, continua ad esser presente qui. Intendiamoci, non ci si può aspettare sempre di esser stupiti da un nuovo brano hard rock, anzi il genere "sopravvive" proprio grazie alla sua indole conservatrice, ma dai Darkness ci si può aspettare quel qualcosa in più, come hanno dimostrato in un capolavoro come fu PINEWOOD SMILE. Motorheart è comunque un ottimo brano carico di spettacolari riff e cambi imprevedibili, forse giusto tirato un po' giù dal ritornello. The Power And The Glory Of Love pare in bilico tra AC/DC e Who, mentre in Jussy's Girl tornano i migliori Darkness pop-rock dai ritornelli memorabili e coinvolgenti. Non manca poi la power ballad con Sticky Situations, che da una parte fa l'occhiolino ai Queen e dall'altro al loro classico Love Is Only A Feeling, prima della frenetica e spassosa Nobody Can See Me Cry, che sembra quasi uscire dal loro primo album. Il tutto poi si conclude in modo un po' strano a mio parere, con la pur divertente ma un po' sottotono Eastbound e con Speed Of The Nite Time, che invece si appoggia più su sonorità al limite della new wave, e si candida senza dubbio tra le cose migliori dell'album. Stupisce la scelta di chiudere l'album con un brano che si distingue dagli altri in modo così evidente, ma d'altronde se da una parte mi lamentavo della prevedibilità, dovrei esser stato accontentato, no? Ovviamente esiste anche la versione Deluxe con una manciata di brani aggiunti, ma c'è ben poco da segnalare a riguardo. 

Dunque, che dire in conclusione su questo MOTORHEART? Beh, come già fu per EASTER IS CANCELLED, la sensazione è che l'inarrestabile parabola ascendente iniziata dalla reunion del 2012 ha raggiunto il suo culmine con PINEWOOD SMILE, dove il sound della band già (ri)formato in LAST OF OUR KIND ha piano piano (ri)guadagnato l'ispirazione che aveva caratterizzato i primi due album nel decennio precedente, prima dello scioglimento. Da lì i Darkness hanno continuato, con questi ultimi due album, a sfornare ottimo rock divertente come solo loro oggi sanno fare, mostrandosi però giusto un po' meno ispirati rispetto al passato. In PINEWOOD c'erano brani come The Buccaneers Of Hispaniola, Southern Trains, Japanese Prisoner Of Love, tutti brani spassosi che musicalmente sono da antologia dell'hard rock, mentre già in EASTER questo si notava meno, mostrando infatti un bella differenza tra l'apertura di Rock and Roll Deserves To Die e brani, seppur ottimi, come Heart Explodes e In Another Life. In MOTORHEART non ci sono brani minori, ma forse neanche granché di "maggiore", seppur la title track e Speed Of The Nite Time ci provino e le altre si lascino ascoltare con gran piacere. Insomma, è difficile dare una valutazione, in quanto l'album è buono se non ottimo, ma non ha (ancora) fatto innamorare il sottoscritto come gran parte dei loro lavori precedenti.

Poi, detto fra noi, i Darkness sono sempre i Darkness, se vi piacevano prima vi piaceranno anche ora, mentre se li odiavate, a parte che vi consiglierei di farvi controllare il battito cardiaco, non cambierete idea ora. 


mercoledì 17 novembre 2021

Michael Nesmith & The First National Band - Loose Salute (1970) Recensione


Pubblicato appena cinque mesi dopo MAGNETIC SOUTH, LOOSE SALUTE ripropone, in un certo senso, la formula già vista nel precedente album. Nesmith e la sua band continuano ad esplorare le sonorità country rock, ed in generale il sound si fa via via più "formato" e convinto, proprio come una vera e propria band affiatata. 

Da un lato LOOSE SALUTE sembra non vantare l'unità e la scorrevolezza del precedente, e neanche ha un singolo di successo paragonabile a Joanne (anche se Silver Moon si avvicina), dall'altro però, come vedremo, è l'ultimo vero e proprio album della First National Band (NEVADA FIGHTER è suonato solo parzialmente da questa formazione, nonostante il nome della band rimanga in copertina), e di conseguenza è una sorta di "culmine" a suo modo.
La produzione è migliorata, ed i brani sono estremamente solidi, con ben pochi cali d'ispirazione. Ci sono ancora dei ripescaggi dai tempi dei Monkees: una curiosa versione del classico Listen To The Band, ovviamente riarrangiato ma stranamente sfumato sia in entrata che in uscita, e Carlisle Wheeling, brano scartato del 1969 qui reintitolato Conversations. La già citata Silver Moon apre l'album ed è uno dei migliori brani composti da Nesmith, mentre altrove si fanno spazio composizioni più particolari, con cambi inaspettati, come Thanx For The Ride e la magnifica Lady Of The Valley

I Fall To Pieces è una gran bella cover del brano reso famoso da Patsy Cline nel 1961, ed in Tengo Amore Nesmith si diletta addirittura con lo spagnolo in un brano dal sapore sudamericano. 
Il resto acquista toni più ritmati, come in Bye Bye Bye (brano che tra l'altro richiese ben undici sessioni di registrazione, ritardando l'uscita dell'album), Dedicated Friend e la conclusiva Hello Lady.
Se si acquista la versione rimasterizzata in CD si può poi trovare come bonus la in gran parte strumentale First National Dance, registrata nelle stesse session dell'album ed inizialmente inclusa nella tracklist, poi sostituita da Silver Moon

Indubbiamente è un album che continua in modo più o meno lineare ciò che era stato introdotto da MAGNETIC SOUTH, ma lo fa in modo un pelo più eterogeneo, a volte imprevedibile. La band offre performance sempre di altissimo livello, ed il lavoro alla pedal steel di Red Rhodes è, se possibile, ancora più incredibile e carico di inventiva che nel precedente; ma un plauso va, ovviamente, a Nesmith stesso, sia come compositore che come cantante (ascoltare le sue tracce vocali sovrapposte in Lady Of The Valley per capire cosa intendo). I testi sono meno filosofici e profondi, più legati a temi "terreni", ed i brani più ritmati mostrano un indurimento del sound che aggiunge varietà al mix, mentre la produzione di Nesmith migliora, inaspettatamente, di non poco la resa generale, rendendo l'album meno "vecchio" all'ascolto, pur mantenendo un sound tutt'altro che moderno.

Uno degli album più densi e di alta qualità del catalogo solista di Nesmith e certamente una degna conferma del talento della First National Band, che però avrà, purtroppo, vita breve. 



giovedì 11 novembre 2021

Michael Nesmith & The First National Band - Magnetic South (1970) Recensione

Principalmente ricordato per la sua permanenza nei Monkees, Michael Nesmith ha sempre dimostrato di essere quello più portato alla composizione nella band. Già anni prima la sua Different Drum fu resa famosa da Linda Ronstadt, e dal primo album dei Monkees in poi non mancarono mai sue composizioni negli album, da Papa Gene's Blues fino a capolavori come What Am I Doing Hangin' Round, Tapioca Tundra, Circle Sky e Listen To The Band. Non per nulla già nel 1968 uscì un album a nome suo, THE WICHITA TRAIN WHISTLE SING, che però, in linea con la sua lucida follia, era composto da riarrangiamenti in stile big band di suoi brani. 

Nel 1970 Nesmith abbandonò i Monkees e formò la First National Band, composta da lui stesso alla voce e chitarra, John London al basso, John Ware alla batteria e O.J. "Red" Rhodes alla chitarra pedal steel. Il primo album con questa band, MAGNETIC SOUTH, uscì quell'anno e fu, secondo molti, uno dei primi e fondamentali esempi di album totalmente country rock, genere che combinava il vecchio stile country con le più moderne sonorità pop-rock. Esempi di questo stile ce ne furono già negli anni '60, fin da certe cose di Dylan, dei Beatles o dei Byrds, ma solo negli anni '70 si affermò definitivamente come genere. 

MAGNETIC SOUTH, a fronte di una produzione piuttosto opaca (che ha anche il suo fascino, molto "old style", ma è quantomeno discutibile), vanta una tracklist estremamente solida, composta sia da brani nuovi che da alcune composizione già provate ai tempi dei Monkees. Fin dall'apertura samba di Calico Girlfriend, o dal classico Nine Times Blue, in medley con la vivace Little Red Rider: brani che, seppur provati intorno al 1969 con i Monkees (poi scartati e presenti nelle nuove versioni ampliate degli album del periodo), acquistano un nuovo arrangiamento e sono totalmente coerenti con ciò che le circonda. Senza dubbio il brano più famoso è Joanne, piccolo capolavoro che mette oltretutto bene in mostra non solo le doti compositive di Nesmith, ma anche la sua ottima tecnica vocale, e finì per diventare il suo più grande successo da solista. Non mancano altri magnifici brani come The Crippled Lion, Hollywood (anche questa già provata ai tempi dei Monkees) tutte condite da testi spesso di natura filosofica, e la conclusiva Beyond The Blue Horizon, cover di un brano del 1930.
Ciò che aggiunge colore e dà ulteriore carattere alle composizioni di Nesmith è il magnifico contributo di Red Rhodes alla lap steel, strumento tipico del genere ma raramente suonato in modo così magistrale. Rhodes, già membro della Wreckin' Crew, ha suonato in innumerevoli brani nell'arco della sua vita, dai Byrds ai Beach Boys, dai Millennium fino a Harry Nilsson, e fu senza dubbio uno dei maggiori virtuosi di quel complesso strumento. Il suo contributo è difficile da descrivere a parole, in quanto aggiunge toni complessi ma sfuggevoli ovunque, in un certo senso quasi psichedelici ma non lisergici, caldi, confortevoli ma originali e spesso imprevedibili. L'album scorre meravigliosamente nei suoi 33 minuti, giusto interrotti dal brevissimo divertissement First National Rag, che originariamente chiudeva il primo lato. 

Di solito il country è un genere prevedibile, spesso banale, negli anni via via sempre più spudoratamente commerciale, ma qui è diverso. Non nascondo il mio apprezzamento per band come Eagles o America, ma lo stile compositivo di Nesmith ha quel che di imprevedibile, pur con i suoi riconoscibili canoni, che lo piazza in uno spazio tutto suo, in linea con le tendenze dei tempi (forse anche un po' in anticipo), ma con caratteristiche proprie inconfondibili, specialmente per quanto riguarda le sequenze armoniche. Un album a suo modo leggendario, a riprova del fatto che nei Monkees c'era anche tanto talento e non solo superficiale apparenza.
Consigliato soprattutto agli appassionati di musica country, ma non solo.