sabato 31 marzo 2018

Concert reviews 1: Peter Gabriel - Locarno (Moon And Stars Festival) 08/07/2007

Ho pensato di iniziare una "serie" in cui parlerò dei concerti a cui ho avuto il piacere di assistere. Quando possibile allegherò anche testimonianze come foto e video, sia miei (in caso esistano) sia provenienti da internet. Non sarà una serie continua, la intervallerò ad altri articoli, e per quanto possibile sarà in ordine cronologico. Quindi ha senso iniziare da quello che fu il mio primissimo concerto, ormai più di 10 anni fa!

Nel 2007 avevo una scelta: fare un viaggione fino a Roma per vedere i Genesis gratis al Circo Massimo o affrontare un paio d'ore di macchina e spendere qualche euro in più per vedere Peter Gabriel a Locarno. Una volta analizzata la fattibilità puramente logistica, oltre alla sicurezza che un evento sarebbe stato ben documentato (i Genesis) e l'altro no, scelsi il signor Gabriel. Quell'anno Peter si era imbarcato nel Warm Up Tour, e la data svizzera era parte del consueto Moon And Stars Festival, nella piazza principale di Locarno. Non avendo la minima idea di come funzionassero le cose in questi casi, andai là fin dalla mattina, passando quindi una giornata infinitamente noiosa d'attesa. Certo, Locarno è una bellissima cittadina, ma non è che ci sia poi così tanto da visitare... Il lato positivo dell'esser arrivato presto è stata la possibilità di aver potuto assistere al soundcheck, che sono praticamente sicuro di aver ripreso almeno parzialmente, se solo sapessi dove è finita la registrazione... E già dal soundcheck rimasi letteralmente a bocca aperta per due motivi: il volume che faceva tremare le transenne a metà piazza e i brani provati. Si, perchè la mia esperienza del Gabriel live in tempi (allora) recenti, era il DVD Growing Up Live, composto in gran parte da brani nuovi corredati dalle hit. E lui in quel soundcheck provò cose come The Rhythm Of The Heat, No Self Control, Washing Of The Water (che non suonerà in concerto quella sera), Lovetown (dalla colonna sonora di Philadelphia) e sicuramente altri che ora mi sfuggono. Insomma l'errore di esser arrivati prima fu ben ripagato da quei 10-15 minuti!
Poco dopo scoprimmo che non si poteva stare a zonzo in piazza come effettivamente stavamo facendo, ma che bisognava andare a fare la coda in fondo alla suddetta, annullando di fatto l'utilità dell'esser arrivati prima. Maledetti racconti di Woodstock e Wight e di hippie con le tende! Per fortuna ce la cavammo con poca coda, salvo poi perder tempo per via della videocamera che volevano ritirarci all'entrata (ma dico io, scrivetelo sul biglietto che è vietato! Uno lo legge mentre è in coda ed è fregato! Poi vai a riprenderla dopo la videocamera se ci riesci...). Per fortuna siamo riusciti a cavarcela evitando di fare riprese durante il concerto. Ed in questo caso posso capire la "filosofia" del divieto che ho più volte criticato, perchè i concerti li registra e pubblica tutti, quindi non ci si può lamentare. Solo che allora non potevo certo saperlo. Dopo esser riusciti a guadagnarci una posizione tutto sommato più che buona, ci godiamo l'ulteriore attesa interrotta solamente da una band in apertura (di tale Charlie Winston) di cui non ho memoria a parte un leggero senso di irritazione. Finalmente inizia il concerto, con una devastante The Rhythm Of The Heat dove il memorabile finale percussivo è dominato da Ged Lynch che, pur essendo da solo e dietro una batteria tradizionale, ricordo ancora "l'effetto terremoto" che ha causato. Gran bella versione. Peter è in ottima forma, ricordo di aver pensato che avesse buttato pure giù qualche chilo, prontamente ripreso negli ultimi anni, ma potrei anche essermi fatto fregare dai vestiti. La band è la stessa di Growing Up Live, a parte la presenza di Angie Pollock alle tastiere, che fa la sua parte egregiamente. Come se non fosse bastato il colpo iniziale, seguono On The Air e Intruder. Ai tempi non conoscevo tutti i suoi album, quindi alcuni pezzi suonati quella sera mi rimasero particolarmente impressi in quanto nuovi per me, come ad esempio Intruder. Belle versioni cariche di brani, ammetto, totalmente inaspettati. Ed infatti Peter non perde tempo e spiega che i brani sono stati in pratica scelti dal pubblico online, come risultato di una sua richiesta su quali pezzi avrebbero voluto sentire nel prossimo tour. Ovviamente le scelte sono ricadute su tanti brani dai primi 4 album, assenti dalle sue scalette da decenni. "Per togliere la ruggine", dice lui in un ottimo italiano subito seguito da un altrettanto ottimo tedesco (siamo pur sempre in Svizzera). Una bellissima sorpresa dunque. Proseguendo questo approccio arriva un'altra sorpresa con DIY, una bella versione di Steam (con un Gabriel comprensibilmente cauto sui falsetti), Blood Of Eden con l'importante contributo della figlia Melanie (che non sarà Paula Cole, ma non capirò mai le critiche che le sono arrivate nel periodo in cui era in tour con il padre; a me è sempre piaciuta). Segue un'ottima versione di Lovetown, nettamente superiore all'originale a mio parere, più "piena" e meno "rarefatta". No Self Control è stata un'altra bella sorpresa, per un motivo che all'epoca non sapevo, in realtà. Si, perchè io non conoscevo altri suoi concerti oltre al Growing Up Live, come anticipato, e quindi non potevo immaginare che No Self Control dal lontano 1982 fino a quando è poi rimasta in scaletta era sempre stata proposta con un arrangiamento diverso, più "funk". In questo tour Gabriel e band riportano questo magnifico brano al suo arrangiamento originale, quello del terzo album, con risultati a dir poco impressionanti! Altro gran lavoro di Ged Lynch alla batteria che qui si ritrovava ad indossare le scarpe di un certo Phil Collins.
Questo pezzo fu poi riproposto nel suddetto ri-arrangiamento nel successivo tour Back To Front, quindi ragione in più per citare questa occasione unica. Segue la canonica Solsbury Hill con consueto, divertente, "trenino" con David Rhodes, Tony Levin e Richard Evans. Tra l'altro tanti complimenti a Richard Evans che, tra la miriade di strumenti tra chitarre e flauti vari, ha anche riproposto le parti di xilofono in No Self Control e in un altro pezzo a cui arriverò più avanti. Un'altra sorpresa fu Mother Of Violence cantata da Melanie, con l'aiuto di Angie Pollock alla seconda voce e piano. Ok, non sarà stata una performance stratosferica, però a me è piaciuta. E poi Family Snapshot. Mi piace pensare che l'averla scelta in questo tour abbia portato ad una rivalutazione di questo brano da parte di Gabriel, tanto da riproporlo anche in tour successivi; è sempre stato uno dei miei preferiti, e qui lo ascoltai per la prima volta. L'altro pezzo in cui troviamo Richard Evans allo xilofono è Lay Your Hands On Me, altro brano che allora non conoscevo. E no, Gabriel non si è buttato sul pubblico, purtroppo o per fortuna! L'ultimo ripescaggio interessante è Big Time, in un arrangiamento che riproporrà, anche se in tonalità più bassa, nel tour Back To Front. Almeno questa ai tempi la conoscevo. Il set principale si chiude con una potente versione di Signal To Noise (ricordo chiaramente il "gracchiare" dell'impianto, che faceva fatica a reggere l'intero gruppo più la registrazione dell'orchestra e di Nusrat a quei volumi) e Secret World, proprio nel momento in cui si scatenò un'abbondante pioggia; che per tanto irritante, ammetto che aggiunse un bellissimo effetto visivo con le consuete luci lampeggianti veloci in Secret World. Sempre sotto la pioggia torrenziale, l'intera band ha poi concluso il concerto con un bis che più classico non si può: Sledgehammer, In Your Eyes e Biko.
In definitiva quindi la scaletta fu:

The Rhythm of the Heat
On the Air
Intruder
D.I.Y.
Steam
Blood of Eden
Lovetown
No Self Control
Solsbury Hill
Mother of Violence
Family Snapshot
Lay Your Hands on Me
Big Time
Signal to Noise
Secret World
Encore:
Sledgehammer
In Your Eyes
Biko

Insomma, attesa e pioggia a parte, un bellissimo primo concerto per me! Tanto da convincermi a tornare a rivederlo qualche anno dopo, nel 2013, per il Back To Front Tour, di cui parlerò più avanti.
Purtroppo, come anticipato, non ho testimonianze mie di questo concerto, ma qui vi linko la pagina del blog di Tony Levin sul concerto in questione, con anche le sue foto, ovviamente. E qui sotto un video che fa bene il suo lavoro di "riassunto" della serata.


giovedì 29 marzo 2018

Emerson, Lake & Palmer - Love Beach (recensione)

Uuuuuhhh cosa sono andato a cercarmi. Uno dei simboli della decadenza post-prog (inteso come successivo al periodo d'oro del progressive, non come lo intendono oggi quelli che "si faccio prog ma non è prog classico è oltre il prog ma non neo-prog quindi post-prog" e poi ci regalano montagne di mellotron, suite, tempi dispari e quindi mi sfugge il senso di "post".). Love Beach è il classico album partorito per obblighi contrattuali, ed è una cosa palese all'ascolto. Un album che a tratti dovrebbe quasi far ricredere certi fan dei Genesis sul loro "essersi svenduti". No? Niente da fare? Beh, almeno i Genesis ci sono riusciti a tirare avanti, ed in modo egregio. Qui il power trio si trova totalmente senza direzione, lo stesso Works (entrambi i volumi a dire la verità) era un calderone di cose molto diverse, troppo diverse fra loro. E non come se fosse un album dei Queen, nel caso sarebbe stata una cosa ottima, ma proprio del tipo "alterniamo un concerto piano-orchestra ad una serie di ballate acustiche e sperimentazioni percussive". Certo, presi singolarmente c'erano molti brani ottimi (su tutti il concerto piano e orchestra di Emerson e Fanfare For The Common Man), anche nel secondo volume di Works, che paradossalmente ho sempre trovato più piacevole e scorrevole nella sua leggerezza, ma era ovvio che la "spinta" iniziale si fosse persa con la pausa che si presero nel 1975. Se a questo aggiungiamo il colpo di grazia del fallimento del tour con l'orchestra nel 1977, si può ben capire questo "spegnimento" artistico che li affliggeva. E Love Beach da un parte sembra appunto un modo sbrigativo per togliersi un obbligo e potersi poi sciogliere definitivamente, dall'altra sembra quasi un tentativo di combinare (in modo stavolta più coerente che in Works a mio parere) una nuova tendenza pop con elementi tipici del loro stile. Il problema qui è che le canzoni pop del primo lato oscillano tra il gradevole e l'irritante, ed il tutto è aggravato da testi letteralmente agghiaccianti di un Sinfield che qui sembra sia stato rapito e sostituito da un sosia incapace: "we can make love on love beach". Ma veramente? Mi fa quasi rivalutare le "opere poetiche" dell'attuale indie italiano. Quasi. No ok, mi avete scoperto, era una battuta. Il povero Emerson è quasi inesistente in questi primi brani che potrebbero tranquillamente essere del solo Greg Lake, essendo tra l'altro guidati dalla chitarra, cosa che sta agli ELP come i sintetizzatori ai Queen anni '70.
Il primo lato scorre veloce senza lasciar traccia (anche se devo dire che For You si distingue un po' e si fa quasi apprezzare), fino a Canario, riarrangiamento del quarto movimento dal concerto per chitarra e orchestra Fantasìa Para Un Gentilhombre di Joaquìn Rodrigo. Il fatto che una cover si meriti la palma di miglior pezzo del primo lato la dice lunga... Comunque, di certo non siamo ai livelli di Hoedown, ma devo ammettere che, nonostante i suoni di synth discutibili, risulta più che gradevole. Tutto il secondo lato è occupato dalla suite Memoirs Of An Officer And A Gentleman. Prima di gridare al miracolo\ritorno al prog, devo sinceramente dire che ho sempre fatto molta più fatica a vederla come una suite vera e propria piuttosto che come quattro canzoni incollate insieme senza troppi orpelli. Questo ovviamente nulla toglie al fatto che se qualcosa, insieme a Canario, è in grado di salvare Love Beach è proprio questa "suite". Il primo movimento non è lontanissimo da alcune sezioni di Pirates, senza però essere così caotico nell'arrangiamento, e devo ammettere che mi piace molto. Così come mi piace anche il secondo movimento: un gran bel brano per solo piano e voce con un Emerson fuori dai suoi tipici virtuosismi che ci regala una prestazione carica di classe. La sezione successiva è introdotta da una parte strumentale, portandoci quasi dei Gentle Giant un bel po' diluiti, poi entra Lake ed il tutto diventa un po' troppo prevedibile e banale; ma per fortuna ecco che arriva la marcetta finale che ci riporta quasi a Abaddon's Bolero, ovviamente senza raggiungerne l'altezza; tutto sommato però è più che apprezzabile.
Insomma diciamo che delle parti buone ci sono, è un album con delle potenzialità letteralmente uccise, presumibilmente, dalla mancanza di voglia e tempo in quel particolare periodo. I brani più pop del primo lato non sono totalmente orribili, ma sono senza dubbio tra le loro cose peggiori, e rivaleggiano con l'intero In The Hot Seat del 1994, che personalmente giudico ben peggiore di Love Beach. D'altro canto però Canario e la suite Memoirs alzano un po' il livello facendosi apprezzare, pur senza neanche sfiorare ciò che questa band era capace di fare. Tant'è che, pur non essendo capolavori, Black Moon del 1992 e l'album Emerson, Lake & Powell dell'86 sono chilometri sopra a Love Beach in quanto a idee, suoni, ed effettiva resa finale. E attenzione, questo non è un discorso del tipo "questo album è più pop quindi è brutto", perchè a me il pop piace e spesso lo preferisco anche al prog. Qui però la musica è spesso sbiadita, indipendentemente dai generi; musica che certamente si lascia ascoltare, ma che tende a lasciare indifferenti il più delle volte. E, a mio modesto parere, l'indifferenza in ambito artistico è molto peggio dell'odio. I primi 5 brani oscillano tra il 4 e il 5 come voto, gli ultimi 2 possono quasi ambire al 6-7. In definitiva quindi, per me un album da 5,5.
....ma poi della copertina cosa si può dire?

Vi lascio qualche video qui sotto così da potervi fare un'idea se non conoscete l'album in questione.
E se capite l'inglese vi consiglio questa intervista a Pete Sinfield proprio su questo argomento.


martedì 27 marzo 2018

Genesis - Six Of The Best - Milton Keynes 02/10/1982

Reunion dei Genesis. Quanto se ne parla ancora oggi? Un articolo su due riguardante questa band ha la parola "reunion" nel titolo, spesso per negarne le possibilità di realizzazione. Piccola premessa/riflessione: io, personalmente, raramente riesco a cogliere il fascino delle reunion, esclusi i casi in cui esse portano musica nuova (VDGG, Deep Purple, pure i Beach Boys nella reunion del 2012 hanno tirato fuori un bell'album). In tutti, o quasi, gli altri casi ci si ritrova con orchestrine itineranti, meno performanti per comprensibili motivi di età , che ripropongono scalette di "greatest hits" con biglietti a prezzi spesso inarrivabili per poveracci come il sottoscritto. Diciamo che preferisco di gran lunga "sfruttare" le innumerevoli testimonianze disponibili, sia audio che video, per ricordare un passato che di fatto è, appunto, passato. E se da una parte è giusto celebrare il passato, credo sia sbagliato che esso sostituisca il presente.
Motivo per cui, ad esempio, preferisco di gran lunga un Hackett che fa album nuovi piuttosto di uno che ripropone i Genesis dal vivo (ricorderò sempre con nostalgia la scaletta di quando lo vidi nel 2009, prima del tour senza fine di Genesis Revisited: Darktown, Mechanical Bride, Fire On The Moon, Please Don't Touch, Clocks, solo 4 brani dei Genesis... bei tempi). Ma sono opinioni personali, ovviamente.
In ogni caso, pochi sanno o ricordano che una reunion dei Genesis "quelli veri" (ironia mode:on) in pratica già ci fu nel lontano 1982.
Ma partiamo dall'inizio: quell'anno Peter Gabriel organizzò il primo festival WOMAD, creato per diffondere la nascente world music ed in generale musica proveniente da culture ben diverse dalla nostra; ma essendo un progetto forse troppo immaturo (o forse erano i tempi a non essere ancora maturi per tutto ciò) finì per far perdere a Gabriel una montagna di soldi; soldi che causarono debiti difficilmente sanabili per Peter. Ed è qui che i suoi vecchi compagni di band corrono al soccorso, organizzando nientemeno che una sorta di reunion.
Gabriel, nonostante avesse passato gli ultimi anni cercando di allontanarsi il più possibile dal suo passato, si trovò di fatto costretto ad accettare, in mancanza di alternative. Questa reunion, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto essere composta dalla formazione dei Genesis live anni ‘80 (Collins, Banks, Rutherford, Thompson e Stuermer) con l'aggiunta di Gabriel, i quali avrebbero suonato una scaletta caratterizzata dai loro pezzi classici anni '70 più Turn It On Again per rappresentare gli attuali (all'epoca) Genesis (con Collins che passò temporaneamente alla voce solista cedendo il posto alla batteria a Gabriel, ebbene si) e Solsbury Hill a rappresentare Gabriel solista. Furono ricreate varie maschere e costumi per Peter (Rael, il fiore per Supper's Ready, il vecchio per The Musical Box) non avendo più le originali. Quindi, il 2 Ottobre 1982 (giorno del compleanno di Mike Rutherford tra l'altro) a Milton Keynes davanti a circa 50000 persone sotto la pioggia, Jonathan King (lo ricordate? Colui che scoprì i giovanissimi ragazzi alla Charterhouse e produsse il loro primo, in gran parte dimenticato, album From Genesis To Revelation e singoli vari) presentò questi "six of the best" (come recitava la discutibile locandina) ed il concerto iniziò con Gabriel portato sul palco all'interno di una bara bianca, per poi uscirne nelle vesti di Rael e dar via a Back In NYC. La scaletta fu questa: 

- Back In NYC
- Dancing With The Moonlit Knight (parziale)
- The Carpet Crawlers
- Firth Of Fifth
- The Musical Box
- Solsbury Hill
- Turn It On Again
- The Lamb Lies Down On Broadway
- Fly On A Windshield \ Broadway Melody Of 1974
- In The Cage
- Supper’s Ready
- I Know What I Like
- The Knife

Ma non si stavano forse dimenticando di qualcuno? Ebbene si, Steve Hackett, a quanto si dice, non fu chiamato, ma appena venne a sapere di questa reunion prese il primo aereo disponibile dal Sud America e arrivò sul posto in tempo per partecipare ai due bis (I Know What I Like e The Knife). Certo, si potrebbe teorizzare all'infinito sui motivi della mancata chiamata di Hackett, ma si tratterebbe, appunto, solo di teorie. E se invece Hackett fu effettivamente chiamato ma ritardò ad arrivare essendo all'epoca, appunto, in Sud America presumibilmente in tour? Magari fin da subito era incerta la sua presenza, il che spiegherebbe la mancanza del suo nome nella locandina ed il misterioso "plus Special Guests", che in questo caso poteva avere il doppio compito di creare curiosità e di salvarsi la faccia senza spararla troppo grossa. Dove sta la verità e dove la leggenda? Sarebbe da chiederlo ai diretti interessati...
L'esecuzione dei pezzi è caratterizzata da una generale alta velocità tipica dei Genesis live anni '80 (la versione di In The Cage in Three Sides Live ne è un perfetto esempio), e quindi Peter Gabriel a volte è in evidente difficoltà con brani che, oltre a non essere stati suonati/cantati da tempo, vengono riproposti in versioni a lui non molto familiari. In generale non si tratta di uno dei concerti migliori dei Genesis (complice anche la pioggia torrenziale di quella sera ed il fatto che fosse uno show isolato e non parte di un tour), specialmente se confrontati con gli standard dei primi anni '80, periodo in cui diventarono una band live devastante; ma è assolutamente da ricordare come un evento unico e di grande interesse per i fan. Di questo concerto esiste una registrazione amatoriale proveniente dal pubblico, purtroppo di bassa qualità (sempre a riprova dell'importanza di poter testimoniare certi avvenimenti, nonostante anche ai tempi tecnicamente fosse vietato stando alla locandina dell'evento. Poi però oggi ringraziamo questi strappi alle regole perchè ci permettono di rivivere momenti importanti; d'altronde anche chi tutt'ora difende le suddette regole poi finisce per pubblicare a sua volta dei bootleg, vero signor Fripp?) e recentemente è spuntata una registrazione di buona qualità delle prove! Qui sotto trovate entrambe le registrazioni intere, oltre ad altre foto interessanti.


 

 

 

 

 


domenica 25 marzo 2018

Dennis Wilson - Pacific Ocean Blue (recensione)

Mentre recensivo Sunshine Tomorrow dei Beach Boys ieri mi è tornato in mente questo album del più "misterioso" dei fratelli Wilson (forse anche a causa dei suoi trascorsi con quella simpatica personcina che era Charles Manson), quindi ho deciso di provare a parlarne qui.
Più volte Dennis Wilson è stato visto, specialmente nei primi anni dei Beach Boys, come "quello bello", oltre che l'unico che effettivamente sapeva fare surf (e che ha suggerito alla band quel "filone" allora di gran moda). Il suo contributo nei primi album è pressoché assente, se si esclude l'ovvia presenza nelle armonie vocali, la sporadica ma significativa presenza come voce solista (Do You Wanna Dance e la struggente In The Back Of My Mind ad esempio), e il suo ruolo di batterista, peraltro spodestato nel tempo a causa della presenza della Wrecking Crew in molte cose dal '64 al '66. Nel 1968 però ecco che, per la prima volta, propone un paio di brani scritti da lui per l'album Friends, e subito rivela la sua personalità nel cantato, spesso sofferente e carico di pathos; di certo non paragonabile alle voci decisamente più versatili e "morbide" dei suoi fratelli Carl e Brian. Una voce fumosa la sua, unita a canzoni spesso in bilico tra rock-blues e ballate che strappano il cuore, insomma un bel contrasto con gli altri!
Ed è interessante notare come il suo imporsi come compositore ed interprete coincida con l'allontanamento di Brian Wilson artisticamente (quando non anche fisicamente) dalla band a fine anni '60. Questo periodo ci ha regalato perle come Forever e Make It Good, brani forse poco rappresentativi dei Beach Boys così come li conosce la grande massa, ma certamente capolavori non trascurabili, insieme ad altri suoi brani. Questa sua tendenza artistica si trovò poi in totale contrasto con la direzione dei Beach Boys della seconda metà degli anni '70, che per la prima volta ci mostravano un gruppo segnato sia dal ritorno di Brian Wilson, ma anche da una tendenza auto-celebrativa che si trascina fino ad oggi nella formazione, piuttosto triste, guidata da Mike Love e Bruce Johnston. Si potrebbe facilmente pensare che questo Pacific Ocean Blue sia nato a causa di questo contrasto, e probabilmente in parte fu così, ma pare che i primissimi tentativi risalgano addirittura al 1970. Di fatto, però, bisognerà aspettare fino al 1976 per vedere i primi seri risultati che porteranno alla realizzazione di un album carico di fascino e, per natura, fortemente divisivo, ma ci tornerò dopo su questo. Il brano in apertura, River Song, pur essendo uno dei più movimentati, rende perfettamente l'idea di ciò che caratterizza quest'album: composizioni semplici sulla carta condite però da arrangiamenti ottimi e spesso audaci, con sopra la tipica interpretazione sofferta di Dennis. In questo caso un inizio alla Tiny Dancer di Elton John ci trasporta poi in un brano dalle tinte gospel, con intrecci vocali incredibilmente potenti e riusciti, seppur ben distanti dall'approccio tipico dei Beach Boys. Brano da pelle d'oca, il primo di tanti. What's Wrong è il primo brano "minore", che per forza di cose sfigura dopo la magnificenza che l'ha preceduto. Discorso diverso per Moonshine, primo esempio di lenta ballata come ne ritroveremo più avanti. Un brano che letteralmente adoro, e che ancora una volta mostra una produzione e un arrangiamento che è una goduria e che appartiene, tristemente, al passato. Friday Night è uno dei picchi assoluti dell'album, con una introduzione strumentale che tra archi, piano, synth e chitarra slide crea un'atmosfera sospesa che poco dopo va a spezzarsi in tonalità più rock, pur mantenendo sonorità molto interessanti.
E poi Dreamer. Che dire? Un brano che definire geniale sarebbe riduttivo: di base è un blues, guidato però da un'armonica bassa, seguita poi da una banda di ottoni che, in modo totalmente inaspettato, appare e sparisce più volte. Ad ulteriore prova della natura sperimentale di un album che è semplice in superficie, ma terribilmente complesso ed interessante al di sotto, con un fascino che si rivela gradualmente dopo ripetuti ascolti. Thoughts Of You si presenta come un'altra semplice ballata rarefatta "alla Dennis Wilson", però ecco che lentamente entrano gli archi, quasi in modo impercettibile, e ci trasportano ad un parte centrale letteralmente straziante, con un Dennis al massimo delle sue capacità interpretative, fino all'urlo "look what we've done", che strappa letteralmente il cuore. "To forget is something that I've never done". E se dopo un pugno nello stomaco simile non fossimo ancora soddisfatti, ecco Time: che si, è un'altra ballata, e che forse all'inizio colpisce meno della precedente, ma che si rivela ugualmente emozionante nella sua disarmante sincerità. Qui infatti Dennis ci regala una dichiarazione d'amore che è anche una riflessione sulla sua vita, dicendo infatti che nonostante lui sia, come dire, "un donnaiolo", nessuna è in grado di riempirgli il cuore come colei a cui è diretta la canzone. "Hold me close, completely free" e poi bam! Pugno sonoro che trasporta la canzone in un territorio completamente diverso, con intrecci vocali, chitarra e piano ritmico. Bellissima. You And I è un brano più leggero, e devo dire che è il benvenuto dopo i brani precedenti. Un pezzo che ha un che di hawaiano, di certo non efficace come i precedenti, ma che mantiene discretamente alto il livello dell'album. Pacific Ocean Blues ci riporta il Dennis Wilson rocker con quello che è, in sostanza, un blues. La rabbia nel cantato rende bene quello che si rivela essere un testo contro l'uccisione di coloro che l'oceano lo abitano. Farewell My Friend è un ritorno alle ballate intense, e il titolo dice tutto. Una dedica all'amico Otto Hinsche che però ben si adatta ad essere un addio più generale a qualche vecchio amico. "I love you, in a funny way". Rainbow è un altro brano che adoro nella sua positività. Bellissimi gli inserti di mandolino, specialmente nel ritornello che spezza il ritmo in modo perfettamente riuscito. L'album si conclude con End Of The Show, altro brano lento che però chiude l'album in modo appropriato. "It's wonderful to know we're alive, at the end it's over". Altro bell'arrangiamento anche qui.
Dopo la realizzazione di quest'album (pare anche durante), Dennis si dedicò ad un altro progetto dal titolo Bambu, che però non ultimò mai. Molte tracce tratte da quelle session sono fortunatamente state pubblicate in una versione rimasterizzata di Pacific Ocean Blue, permettendoci così di ascoltare altri brani che poco hanno da invidiare a quelli presenti in questo album (da segnalare l'incompleta Holy Man cantata da un vocalmente molto somigliante Taylor Hawkins, che fa un ottimo lavoro, e lo dico da NON fan dei Foo Fighters).
Un album, questo, che è per me uno dei pochissimi esempi di musica spudoratamente americana che riesce a colpirmi, piacermi, emozionarmi. Le composizioni sono semplici, ciò che però rende l'album estremamente interessante sono gli arrangiamenti spesso audaci, ma mai fuori luogo, e l'interpretazione vocale di Dennis quasi sempre sofferta, intensa, che spesso sembra quasi regredire ad un'innocenza infantile nell'uso di poche, semplici parole per andare dritto al punto. Dicevo all'inizio che lo trovo un album divisivo, mi spiego meglio. Lo ascoltai già anni fa, e non mi piacque; quando però ci tornai lo scorso anno mi colpì come pochissimi altri. Perchè mai? Io credo che qui, più che in altri casi, conti l'immedesimazione nei testi e nelle atmosfere. Credo che per amare un album simile sia necessario essere in un "luogo" nella propria vita in cui gli argomenti qui presenti e il modo in cui sono esposti, oltre che il punto di vista, "risuoni" con noi. Non credo sia un album apprezzabile appieno senza immedesimazione insomma, seppur possa piacere anche ad un livello più superficiale. Trovo però, ed ecco che si spiega il termine "divisivo", che sia più facile che lasci indifferenti gli ascoltatori in caso manchi la "connessione" di cui sopra, spesso causando quindi l'idea di un album "sopravvalutato", secondo me ingiusta.
E dispiace parecchio, ascoltando Pacific Ocean Blue e le tracce di Bambu, di aver perso Dennis così presto, proprio quando la sua identità artistica era sbocciata, prima di un declino tra droghe e problemi personali che lo accompagnarono nella sua triste, seppur poetica in un certo senso, fine.
Un album che chiunque dovrebbe ascoltare, e che meriterebbe un 10 se solo mi lasciassi andare a ciò che mi trasmette, ma che più oggettivamente (anche a causa di brani sparsi un po' meno efficaci), si merita almeno un 8,5 - 9.

sabato 24 marzo 2018

The Beach Boys - 1967 - Sunshine Tomorrow (recensione)

Un'uscita piuttosto recente (risale allo scorso anno) che copre un periodo molto interessante della carriera dei Beach Boys. Siamo nel 1967, il grande progetto di Brian Wilson, Smile, è naufragato; ciò che segue è un periodo di ricerca, cambiamenti, ridimensionamenti, in un certo senso sperimentazione ulteriore seppur in altri termini rispetto a prima. Subito con Smiley Smile, album da un lato deludente a causa dell'ombra ingombrante di Smile, dall'altro terribilmente interessante e fuori dal tempo: un "ritorno alle basi" fatto di voci in primissimo piano, brani il cui tessuto strumentale si riduce all'osso (Vegetables ha solo il basso), insomma quasi l'opposto dei lavori immediatamente precedenti. Pochi mesi dopo segue Wild Honey, album molto diverso seppur semplice a sua volta: brani più ritmati, suoni più caldi, una presenza importante di rhythm & blues e funk e una produzione lo-fi che ne ha sempre caratterizzato sia il suo fascino che il suo più grande limite.
Sunshine Tomorrow è una sorta di raccolta, su doppio CD, che contiene un po' una panoramica su quell'anno; esaustiva ma tristemente non completa (ci tornerò dopo su questo punto). L'attrazione principale è indubbiamente il remix in stereo di Wild Honey: una cosa che molti fan aspettavano dalla sua uscita. Si, perchè la suddetta produzione lo-fi viene qui "ripulita" potendo finalmente sfruttare 2 canali anziché uno, e permettendo quindi agli strumenti e alle voci di respirare e di mostrarsi in tutta la loro bellezza, tra l'altro anche con una sorprendente nitidezza! Ovviamente ci sono brani che rendono meglio di altri: Darlin' è letteralmente impressionante, Aren't You Glad segue a ruota, Country Air è forse fin troppo"brillante" e la title track soffre di una grossolana dimenticanza (si sono persi il raddoppiamento della voce di Carl Wilson). Insomma, non sto a fare il track by track, ma in generale, seppur non perfetto, è un ascolto piacevolissimo che già da solo giustifica l'acquisto, a mio parere. Ma non finisce qui! A seguire infatti c'è una lunga serie di outtakes, sia di brani presenti in Wild Honey che di "scarti" (spesso incompleti ma interessanti), ma anche di brani presenti in Smiley Smile. E su questo vorrei soffermarmi un secondo, perchè se è vero che il remix stereo di Smiley Smile è effettivamente uscito qualche anno fa, quindi sulla carta ha senso non averlo qui, d'altro canto quel CD è tristemente fuori catalogo ormai da un po', quindi sarebbe stato bello avere entrambi gli album del '67 in stereo raccolti qui, giustificando quindi ancora di più il titolo. Oltre al fatto, appunto, che troviamo delle outtakes da un album qui assente. Non si può avere tutto immagino, ma secondo me è un po' un'occasione persa. Ascoltando queste outtakes oltretutto si può notare come Brian Wilson fosse ancora fortemente presente nella band, magari comandando meno rispetto al passato, ma di certo non intervenendo sporadicamente e stando nel suo letto gran parte del tempo come vuole la leggenda sul periodo post-Smile. Detto fra noi, credo che il "crollo" sia stato molto più graduale e di certo non era evidente in questo periodo. Anche perchè, come testimoniano altre tracce presenti in questo Sunshine Tomorrow, il '67 segna anche un ritorno, seppur breve, sui palchi per Brian. Sto parlando, ovviamente, dei famosi concerti alle Hawaii nell'estate del '67, registrati in vista di un album live e poi giudicati non abbastanza buoni, tanto da spingerli a ri-registrarlo "live in studio" prima di rinunciare totalmente al progetto e dedicarsi a quello che diventerà Wild Honey.
Qui non abbiamo le intere registrazioni di quei concerti (per questo consiglio Live Sunshine, un'uscita esclusivamente in download dello scorso inverno dedicata a vari live del '67, comprese le prove per i live in Hawaii, uscita insieme a Sunshine Tomorrow 2 che raccoglie altre outtakes), ma una rappresentazione sommaria di ciò che furono sia i concerti che le re-incisioni in studio successive. Registrazioni molto "rilassate", riarrangiamenti in linea con il suono di Smiley Smile e con la forte presenza di Brian Wilson all'organo Baldwin. Davvero interessanti versioni, seppur molto "incerte" e non certo all'altezza dei migliori periodi live di questa band. Sparse qua e là troviamo anche varie tracce di Wild Honey dal vivo prese da concerti di fine '67 e del '70, 2 mix di Surf's Up, altre tracce live di fine '67.... Insomma tanta, tanta roba. Se combinata con la, purtroppo mancante, versione stereo di Smiley Smile e le altre 2 uscite Live Sunshine e Sunshine Tomorrow 2 (e magari pure le Smile Sessions), ci permette di avere una panoramica chiara su di una fase di questa band che meriterebbe molti più riconoscimenti. Preso a sé Sunshine Tomorrow è un doppio CD ben fatto, ascoltabilissimo, godibile ed interessante, condito con un libretto generoso di informazioni sui contenuti. Sperando in un'uscita simile per Friends quest'anno, quest'uscita, nonostante i suoi difetti e le sue mancanze, si merita un bel 9. Perchè a volte è meglio gioire per ciò che si ha piuttosto che per le mancanze, specie se quello che si ha è in generale ben fatto e ben presentato.

lunedì 19 marzo 2018

Queen - Golders Green Hippodrome 13/09/1973

Non si tratta propriamente di una recensione, ma semplicemente di qualche parola sul concerto in questione. Si, lo so, ultimamente ho scritto vari articoli sui Queen, ma solamente perchè sono nel pieno di una "fase" dove ho ripreso ad ascoltarli abitualmente e a "studiarne" la parte riguardante i bootleg. Oggi vorrei parlare di quella che di fatto, finora, altro non è che la prima registrazione di un concerto dei Queen. Si vocifera di registrazioni precedenti, come ad esempio al Marquee nel 1972, ma per ora non ci sono prove concrete a riguardo purtroppo. Quindi siamo nel Settembre del 1973, nel periodo successivo alla pubblicazione del loro primo, omonimo, album e precedente alle registrazioni del secondo. Il concerto in questione fu suonato davanti ad un pubblico di poche persone, registrato dalla BBC e trasmesso in radio il mese successivo, con Alan Black a presentare e a fare commenti tra una canzone e l'altra.
Certo, esistono sessioni precedenti a questa per la BBC (la prima è addirittura di Febbraio 1973), ma si tratta in realtà di brani in versione "studio" leggermente rimaneggiati o con take vocali diverse, raramente vere e proprie take live, quindi si può comunque tranquillamente affermare che questa è la prima registrazione live dei Queen, perlomeno di un concerto "intero" seppur breve. La scaletta offre un misto tra scelte tipiche di quell'epoca (ritroveremo tutti questi brani anche ai concerti al Rainbow Theatre dell'anno successivo) e piccole curiosità. Fin da subito infatti notiamo che il concerto si apre con Procession, brano strumentale caratterizzato da sovraincisioni di chitarra di May quasi a simulare un'orchestra, e che ritroveremo in apertura di Queen II l'anno dopo. La cosa interessante è il fatto che la versione di questo concerto è ancora embrionale, a tratti più scarna, specialmente all'inizio. Subito dopo segue, come in Queen II, Father To Son; e qui si nota quella che è la migliore e la peggiore caratteristica di questa registrazione: gli strumenti sono di una chiarezza quasi impressionante per l'epoca, in grado di rivaleggiare (e in alcuni casi di superare) alcuni altri live ufficiali, permettendoci finalmente di sentire perfettamente l'egregio lavoro di Brian May, Roger Taylor e SOPRATTUTTO John Deacon, spesso sommerso nel mix come quasi ogni bassista. Tutto ciò però al costo di "perdere" la voce di Freddie Mercury, che invece è piuttosto bassa nel mix e sembra che canti da un'altra stanza. Per carità, si sente comunque, però è un prezzo da pagare in questo caso... Father To Son dicevo, altro brano allora ancora di fatto inedito, ed infatti con ancora un testo non definitivo: aspetto che ritroveremo in un altro brano più avanti e che trovo estremamente interessante, quasi come ascoltare un "work in progress" da parte di una band, di fatto, allora emergente (pare addirittura che sia la prima performance pubblica di questo brano). See What A Fool I've Been è invece un pezzo spesso presente nelle scalette dei primi concerti, e ho sempre trovato strano che sia stato relegato a "b-side" di un singolo, anche se forse tutto sommato comprensibile vista la sua natura di blues più canonico. Buona performance qui, ma avrà modo di maturare notevolmente negli anni successivi fino al picco nel '77, quando fu suonata per l'ultima volta al mini-concerto improvvisato dopo aver filmato il video di We Are The Champions. Ed ecco un altro brano interessante: Ogre Battle, altro caso di work in progress con testo embrionale. Da notare che è una delle poche volte, se non l'unica, in cui non viene raddoppiato il tempo nella parte strumentale centrale. Anche qui, ottima performance considerando che neanche erano iniziate le registrazioni del secondo album. Son And Daughter è uno dei pezzi forti dei primissimi Queen, anche e soprattutto essendo il veicolo per il classico assolo di Brian May (nato nel brano Blag degli Smile e poi consacrato in Brighton Rock nel loro terzo album Sheer Heart Attack, continuando poi però ad essere ben presente ad ogni concerto dei Queen in forme diverse). Assolo che viene ricordato soprattutto per le armonizzazioni di Brian con un Echoplex che manda il segnale della sua chitarra in ritardo ad un altro amplificatore, permettendogli quindi di "duettare" con sé stesso. Interessante notare che qui usa un delay ad una sola ripetizione, mentre da lì a poco porterà oltre questa sua tecnica implementando una ulteriore ripetizione: mandando il primo segnale al centro, il secondo da un lato dello stereo ed il terzo dall'altro (tecnica poi usata anche per la voce di Mercury in The Prophet's Song). Curioso come alla fine di questo brano, durante la presentazione della band, John Deacon venga presentato come Deacon John, che è effettivamente il nome con cui appare nel primo album (pensavano suonasse meglio così? Mah). Segue un altro importante pezzo dei primissimi Queen: Liar, in una versione in linea con molte altre, anche se non ancora estesa quanto le successive. Il tutto si conclude con il canonico medley rock and roll con citazioni a Jailhouse Rock, Stupid Cupid, Bama Lama Bama Loo e via dicendo. Strana l'esclusione di Keep Yourself Alive dalla scaletta, ma immagino che abbiano dovuto stare all'interno di certi limiti di tempo, ed abbiano quindi preferito provare un paio di brani nuovi in questa occasione.
Forse una delle registrazioni più importanti per la carriera di questo gruppo, una delle più "bootlegate" e che è anche stata pubblicata ufficialmente nel 2016. Tutto perfetto? Ma certo che no! Stiamo parlando di pubblicazioni dei Queen, non può essere tutto perfetto!

Nel 2016 esce On Air, che si presenta come una raccolta delle BBC sessions, come molti altri artisti di quell'epoca hanno pubblicato. Esce in due versioni: 2 CD e 6 CD. La versione "base" a 2 CD, che poi è anche quella che tutt'ora si trova nei negozi, di fatto è inattaccabile: raccoglie tutte e 6 le sessions (quelle brevi da 3 o 4 canzoni, non il concerto in questione) registrate tra il '73 ed il '77 nella migliore qualità disponibile, e si tratta quindi di un'uscita tutto sommato interessante. La versione a 6 CD invece è un altro clamoroso esempio di occasione sprecata. Si, perchè in quello che è il terzo CD ci presentano quelle che loro definiscono "Highlights from three concert broadcasts". In un solo CD... Tre concerti... E già le Madonne si preparano a partire ancor prima di vedere la tracklist. Solo che poi la vedi la tracklist, e noti che il concerto al Golders Green del '73 è effettivamente presente, ma incompleto ovviamente (vengono tagliate See What A Fool I've Been e gran parte del medley rock and roll). Sono riusciti a tagliarlo nonostante la sua durata di soli 40 minuti: ottimo lavoro! Beh, ma l'avranno fatto per poterci dare altro materiale! Sicuramente, ma era quasi meglio non averlo. Si, perchè il resto del CD è occupato da una selezione di (poche) tracce tratte dallo stadio Morumbi di San Paolo nel 1981 e da Mannheim nel 1986. In pratica 6 pezzi circa a concerto.
Giuro che non ho parole per descrivere questa totale mancanza di senno, vista anche la discreta qualità dei concerti presenti, specialmente quello di San Paolo, migliore dei bootleg in circolazione. Ma non avevamo detto che i CD erano 6? Eh si, gli altri 3 CD sono per le interviste. Mi immagino quanti si ascolteranno quei CD più di una volta, soprattutto sapendo che per far spazio a quelle interviste si è vanificata la possibilità di ascoltare finalmente qualche concerto inedito INTERO. Ma no, non sarebbero i Queen altrimenti.
Per fortuna tutti e tre i concerti sopra citati si trovano facilmente in bootleg e si sentono più che bene (di quello di Mannheim ho parlato poco tempo fa, in occasione dell'apparizione di Fish), compreso quello al Golders Green di cui ho parlato oggi. Infatti colgo l'occasione per linkarvi qui sotto una versione completa del suddetto concerto; creata combinando più fonti, tra cui la mezz'ora scarsa uscita su On Air e altre di varia provenienza (tra l'altro risolvendo un problema di distorsione su See What a Fool I've Been, che forse ha impedito la sua pubblicazione su On Air). Nelle informazioni del video trovate anche un link per scaricarlo se siete interessati. E ci tengo anche a consigliarvi di seguire questo canale YouTube se siete fan dei Queen e vi piacciono i bootleg, perchè ne potete già trovare molti ora nella miglior versione possibile, e poi è in continuo aggiornamento!

domenica 18 marzo 2018

Quella volta che Jonh Lennon e Yoko Ono suonarono con Frank Zappa

6 Giugno 1971, Fillmore East a New York. Frank Zappa e i Mothers Of Invention quella sera avrebbero fatto un concerto proprio in quella sede con l'intenzione di registrarlo per un'eventuale pubblicazione. Come ha poi raccontato Zappa successivamente, durante la giornata un giornalista arriva alla sua porta presentandogli John e Yoko, e lui, dopo aver parlato un po' con loro, propone di ritrovarsi la sera per una jam a fine concerto. Quella sera infatti i presenti furono piuttosto sorpresi di vedere questi ospiti estemporanei salire sul palco, e credo sia comprensibile! Su ciò che fu suonato ci arrivo più avanti. Avendo registrato questo concerto, Zappa, Lennon e Ono fecero quindi un accordo che permetteva l'accesso alle tracce in questione ad entrambe le parti, nel caso in cui si fosse voluto pubblicarle. L'anno successivo John e Yoko pubblicarono il doppio album Some Time In New York City, il cui secondo disco era interamente live: il primo lato conteneva Cold Turkey e la lunga jam Don't Worry Kyoko registrate nel 1969 a Londra, ed il secondo lato le famose tracce con Zappa.
Il problema, stando a Zappa, oltre al mix pesantemente rimaneggiato da Spector (che a quanto pare fu fatto e pubblicato senza che il buon Frank ne sapesse nulla, nonostante pare avessero dovuto discutere fra di loro i dettagli di una eventuale pubblicazione) che comprendeva anche sovraincisioni varie coinvolgendo anche Klaus Voorman al basso, fu la scelta di rinominare il brano King Kong (tratto da Uncle Meat di Zappa del 1969) come Jamrag, ed accreditarlo a "Lennon/Ono", di fatto rubando i diritti su quella composizione. Non si sa se per malizia o per semplice ignoranza, magari neanche sapevano che fosse un brano vero e proprio e credevano fosse una jam come le altre; certo che però potevano accreditarlo a tutti perlomeno nel dubbio... In realtà, basandomi totalmente sulle mie orecchie ignoranti, il brano di Zappa viene citato all'interno dell'improvvisazione, che poi procede in altri "territori". Quindi certo, Lennon e Ono hanno torto, ma non hanno suonato neanche l'intero brano alla fine; quindi la verità, a mio modesto parere, sta un po' nel mezzo. Nel 1992, nell'album Playground Psychotics di Zappa è presente l'intero concerto al Fillmore, compresa la sezione con John Lennon e Yoko Ono in un mix diverso che, comprensibilmente, enfatizza decisamente di più le parti strumentali di Zappa e compagni. Qui sotto vi riporto le tracklist di questa esibizione come appaire nelle due rispettive versioni, perchè ci sono molte differenze.

Versione di John Lennon e Yoko Ono su Some Time In New York City:

1 - Well (Baby Please Don't Go) (Walter Ward) - 4:41
2 - Jamrag (John Lennon/Yoko Ono) - 5:36
3 - Scumbag (John Lennon/Yoko Ono/Frank Zappa) - 4:08
4 - Aü (John Lennon/Yoko Ono) - 6:23

Versione di Frank Zappa su Playground Psychotics:

22 - Well (Walter Ward) - 4:43
23 - Say Please (John Lennon/Yoko Ono/Zappa) - 0:57
24 - Aaawk (Lennon/Ono/Zappa) - 2:59
25 - Scumbag (Lennon/Ono/Howard Kaylan/Zappa) - 5:53
26 - A Small Eternity with Yoko Ono (Lennon/Ono) - 6:07

Insomma si possono notare molte differenze: la cover di Well (Baby Please Don't Go), un brano che Lennon già suonava con i Beatles ai tempi del Cavern Club, è rimasta pressoché identica (se sorvoliamo sulle differenze a livello di mix); notevole l'assolo di Zappa. Say Please nella versione di Zappa altro non è che l'introduzione di Jamrag su quello di Lennon, Aaawk invece è una sezione di Jamrag (non Aü reintitolata come dice Wikipedia), a cui Zappa ha di fatto tagliato la sezione "incriminata" tratta da King Kong. Scumbag è un'altra improvvisazione che si fa notare per il titolo ripetuto come fosse un mantra, ed in sostanza è la stessa in entrambe le versioni, seppure più breve nell'album di Lennon e Ono, ma solamente perchè la fine è all'inizio della traccia successiva Aü, da Zappa poi reintitolata A Small Eternity With Yoko Ono (che poi in altro non è che una improvvisazione a suon di feedback e Yoko Ono).

Quindi, un avvenimento interessante e di importanza storica che, purtroppo, ha fatto nascere una controversia tra gli artisti coinvolti ma che, per fortuna, è stato ampiamente documentato. Si perchè oltre ai due album citati qui sopra e varie foto, in anni recenti è emerso anche un video! Ve lo allego qui sotto:

Vi allego anche una registrazione in cui Zappa parla dell'avvenimento: 

                                                     

giovedì 15 marzo 2018

Robert Fripp - Exposure (recensione)

Volevo parlare di questo album da un po' di tempo ormai, ma ogni volta che tentavo di approcciarlo desistevo. Non perchè sia un brutto album, lo ascolto spesso con piacere, ma perchè ci si può potenzialmente scrivere libri interi a riguardo se solo ci si perdesse in nomi coinvolti, fasi di lavorazione, versioni multiple, importanza nel percorso musicale di Fripp... Però alla fine sono certo che si sia già detto tutto a riguardo da gente ben più esperta ed informata di me, quindi perchè non parlarne un po' a caso per il puro piacere di farlo?
Dunque, siamo nel 1979, Fripp sciolse i King Crimson qualche anno prima e passò gli anni successivi tra collaborazioni e studi che lo portarono sia in contatto con personalità importanti nel suo futuro (conobbe Tony Levin durante le registrazioni del primo album di Peter Gabriel nel 1976/'77 ad esempio), sia verso sperimentazioni sonore con le frippertronics. Oltre alla collaborazione con Bowie ed Eno in quegli anni, Fripp concepì una sorta di ideale trilogia di album in cui puntava ad esplorare la musica "pop" e le potenzialità della forma canzone; trilogia che avrebbe dovuto essere composta dal secondo album di Gabriel, Sacred Songs di Daryl Hall (entrambi prodotti da Fripp) e quello che poi sarebbe diventato Exposure. L'album di Hall fu poi rimandato di 3 anni dalla casa discografica, e lo stesso Exposure, che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi The Last Great New York Heartthrob, subì varie modifiche rispetto alle intenzioni iniziali. Fripp infatti non solo aveva in mente una diversa sequenza di brani, ma avrebbe voluto Daryl Hall come unico cantante.
Il management di Hall però insistette per far accreditare l'album ad entrambi i nomi nel caso, e Fripp rifiutò, di fatto sostituendo molte parti vocali con altri cantanti e rimettendo le mani sul progetto in generale. Ovviamente a quel punto il concetto di trilogia così come la aveva intesa era saltato, ridirezionandosi col nome di "The drive to 1981" e comprendendo altri progetti di Fripp legati alle frippetronics e alla musica disco. Gli altri cantanti coinvolti in questo progetto si sono poi rivelati essere nientemeno che Terre Roche e Peter Hammill, oltre che un'apparizione piuttosto importante di Peter Gabriel (difficile dire se essa fosse stata presente anche nelle intenzioni iniziali). L'album si rivela essere una schizofrenica raccolta di "canzoni" di varie tipologie, andando a toccare a volte territori affini ai King Crimson passati e futuri, e a volte sperimentazioni piuttosto inaspettate per chi ha un'idea ristretta del signor Fripp. Dopo un particolare inizio corale, l'album in sostanza inizia da un telefono, dove la chitarra distorta di Fripp introduce il frenetico rock and roll di You Burn Me Up I'm A Cigarette, prima ottima interpretazione di Hall. Fripp rock and roll? Già! Breathless avrà causato un tuffo al cuore a coloro che sentivano la mancanza dei King Crimson più "riffosi" di Red e Larks' Tongues In Aspic, essendo in sostanza quasi una seconda parte di Red e un anello di congiunzione tra la suddetta e VROOOM, da Thrak del 1994. Si, perchè nei King Crimson anni '80 i classici riffoni pesanti erano praticamente assenti, lasciando spazio a dialoghi chitarristici più puliti e scheletrici. Disengage è forse il brano che preferisco di questo album: una combinazione micidiale di riff malati frippiani ed una performance sovrumana di un Peter Hammill al massimo della forma, chiamato qui ad improvvisare il testo in poche take. Indescrivibile. Lo ritroveremo più avanti, e ammetto che in generale le sue performance, per quanto mi riguarda, aggiungono un valore enorme a questo album. E Phil Collins alla batteria in questo brano non lo vogliamo citare? North Star è una ballata molto delicata di nuovo cantata da Hall, ed è quasi incredibile la somiglianza con alcune cose dei King Crimson epoca Belew come Matte Kudasai, anche nell'interpretazione. Proprio nel contrasto tra brani come questo e Breathless credo che questo album sia importantissimo per capire il processo che lega i Crimson anni '70 a quelli anni '80. Chicago ci riporta un Hammill di nuovo incredibile alle prese con quello che in sostanza pare essere un blues, o per lo meno un brano con suddette tinte (altra cosa inaspettata tra l'altro). Da ascoltare assolutamente se siete fan di Hammill.
NY3 è un caso molto particolare: un'alternanza tra riff quasi Hendrixiani ma rigorosamente in dispari e scale frenetiche tipiche di Fripp, con in sottofondo, presumo, un litigio di coppia che sembra provenire da un appartamento di fianco a noi che ascoltiamo. Wow... Mary è un'altra ballata che oltre a guardare avanti ha un che di cose tipo Book Of Saturday a mio parere, questa volta però troviamo Terre Roche alla voce: una pausa gradita dalla frenesia precedente sicuramente. La title track era già presente nel secondo album di Peter Gabriel, con una bella performance vocale del suddetto. Qui troviamo invece di nuovo la Roche che in sostanza urla il titolo in modo ben meno gradevole di Gabriel, con tanto di voce "rotta" più volte. Capisco che sicuramente era nelle intenzioni, e tutto sommato non è che sia totalmente fuori posto, ma preferisco di gran lunga la versione di Gabriel. Haaden Two ci riporta classici riff crimsoniani con varie vparti parlate ad intervallarli, in un brano che alla fine è di passaggio. I May Not Have Had Enough Of Me But I've Had Enough Of You invece è un altro frenetico pezzo in cui torna Peter Hammill a deliziarci, questa volta però in duetto con Terre Roche, e devo dire che le due voci ben si accompagnano in questo caso. Altra performance di tutto rispetto da parte di tutti, in un brano dalle tinte quasi punk. E quando pensi di aver già sentito il meglio, ecco che, in mezzo alle due parti di Water Music (brani atmosferici guidati dalle frippertronics) spunta Peter Gabriel con la sua Here Comes The Flood. Ebbene si, perchè a quanto pare né Gabriel né Fripp erano soddisfatti della versione di questo brano uscita nel primo album dell'ex Genesis, eccessivamente prodotta da Bob Ezrin (cosa che portò alla produzione frippiana del secondo album), decisero quindi di riproporla qui in una versione molto più essenziale: pianoforte, voce e inserti di frippetronics. Secondo molti questa è la migliore versione di questo magnifico brano, e chi sono io per dire il contrario? Pur apprezzando anche la versione di Ezrin a dire il vero... Water Music II ci accompagna alla fine dove verrà poi riattaccato il telefono dell'inizio e colui che, a quanto pare, è rimasto all'ascolto per tutta la durata dell'album, si allontana e chiude la porta. Cliché, certo, ma appropriato.
Exposure fu poi remixato nell'83 e ripubblicato nell'85, diventando di fatto per anni l'unica versione disponibile in Cd e cassette. Ciò causò l'insoddisfazione di molti che, viste le notevoli differenze tra le due versioni (il remix utilizzava anche take diverse), preferivano l'originale, che però era disponibile solo in vinile. Nel 2006 per fortuna Fripp ripubblicò l'album in versione doppia, raccogliendo il mix originale nel primo Cd, una terza versione nel secondo Cd e una manciata di bonus track. La terza versione in sostanza si tratta del remix del 1985, con però sostituite alcune tracce con le originali cantate da Daryl Hall prima di venire sostituito dagli altri cantanti per i motivi sopra citati, creando in definitiva una versione forse più in linea con le intenzioni iniziali. Le bonus track invece non sono altro che le canzoni che sono state sostituite (quindi quelle cantate da Hammill e Roche), permettendoci quindi di creare noi stessi la versione che preferiamo di questo album semplicemente riordinando le tracce a nostro piacimento. Si, lo so, un casino, e non ho neanche citato il discorso sulle differenti durate di Water Music II!
Insomma, un album molto particolare, vario, difficile da inquadrare, e forse proprio per questo un album che adoro. Si, perchè se c'è una cosa che mi fa veramente impazzire sono gli album in cui un artista o un gruppo va in più direzioni diverse senza porsi troppi problemi. Un album che consiglio a chiunque non lo conosca, poiché nella peggiore delle ipotesi potrebbe rivelarsi un ascolto molto interessante e sicuramente godibile, anche grazie ai numerosi ottimi musicisti partecipanti (non ve li elenco tutti qui, sono troppi, volendo c'è Wikipedia).
Ci sono brani ottimi e altri un po' "buttati lì" secondo me, per questo credo che come voto oscilli tra l'8 e l'8,5 a seconda dell'umore.

lunedì 12 marzo 2018

Marillion - Marbles (recensione)

Io, come tanti, ho conosciuto i Marillion grazie ai loro lavori anni '80 con Fish alla voce. Inutile negare che l'interesse è stato causato dalla loro somiglianza superficiale con i primi Genesis; solo successivamente scoprii l'innegabile personalità del loro suono anche nei primi anni, specialmente quando poi maturarono con Misplaced Childhood e Clutching At Straws (il mio preferito di questa prima fase). Comprensibilmente il cambio di voce e frontman con l'arrivo di Steve Hogarth non mi attirò molto all'inizio, tanta era la differenza non solo di voce ma anche a livello stilistico della band dagli anni '90 in poi (pur con un cambio graduale). Certo, brani come The Space non potevano non piacermi, ma il resto mi lasciò un po' perplesso. Gli anni passarono e per qualche motivo mi ritrovo oggi con un'idea a riguardo quasi totalmente opposta, quasi più a favore dell'era Hogarth rispetto all'era Fish, pur adorandole entrambe. E quando si parla di "miglior album" di questa seconda fase la lotta alla fine si riduce ad un duello tra Brave e Marbles (senza nulla togliere agli altri album, comunque in gran parte più che meritevoli, con molti lavori eccellenti)... Brave è un ottimo album, sicuramente tra i migliori, ma non mi ha mai catturato del tutto: molte vette ma anche pezzi un po' più anonimi a mio parere, e a tratti non scorre benissimo. Marbles invece l'ho sempre preferito a tutti gli altri sotto molteplici aspetti. Ah premessa: parlo ovviamente della versione intera doppia, che a quanto pare ne esiste anche una singola di cui non capisco molto il senso sinceramente...
Fin dall'inizio con The Invisible Man si capisce che siamo di fronte a qualcosa di molto intenso: la struggente storia di un uomo che non può più interagire con la realtà, pur essendone ancora parte. 13 minuti e mezzo di saliscendi magistralmente orchestrati come poche altre loro cose ed un finale struggente: sicuramente una delle cose migliori dell'album e non solo. Dopo un inizio di altissimo livello segue la prima delle 4 parti della title track: i 4 intermezzi a nome Marbles 1-2-3-4 sparsi nell'album sono, appunto, niente altro che intermezzi, in cui spicca però la 3 che ho sempre apprezzato particolarmente. Il primo Cd procede con un trio di pezzi più "tranquilli" a partire dalla più "poppettara" Genie, cui segue la bellissima ed atmosferica Fantastic Place, un altro dei miei pezzi preferiti di questa fase dei Marillion. Discorso simile per The Only Unforgivable Thing, altro brano di gran classe. E dopo Marbles 2 ecco un altro pezzo da 90: Ocean Cloud. Dall'alto dei suoi 18 minuti che non pesano affatto, ci racconta una storia di un uomo di mare tra i loro tipici saliscendi, assoli quasi Gilmouriani ed in generale un approccio alle suite per loro tipico, che rivedremo esteso a dismisura nel loro ultimo album F.E.A.R., in modo però, secondo me, a tratti un po' meno efficace.
Il secondo Cd viene aperto dalla già citata Marbles 2, che adoro, e poi ci regala la parte più pop ed accessibile dell'album.
A partire dalla beatlesiana The Damage (bellissima), la godibile Don't Hurt Yourself e You're Gone, brano di discreto successo di classifica ai tempi che però, specialmente a causa del ritmo che si trascina per tutto il brano, ci ho messo un po' per apprezzare. Angelina è un altro brano che subito può lasciare un po' interdetti, con questo suo fare quasi sonnolento, ma che acquista presto fascino e senso una volta fatto caso al testo (che di fatto si presenta quasi come uno spot di una radio\programma notturno) con fare jazzato-swing (anche se poi si evolve in un brano più tipicamente "alla Marillion") che si aggiunge alla già notevole varietà di stili presenti nell'album. Drilling Holes è un brano che non può non colpire fin da subito con il suo fare inquietante e martellante, in totale contrasto con il testo, intervallato da parti più distese: un gran bel pezzo. Dopo Marbles 4 eccoci ad un altro innegabile picco dell'album e dell'intera carriera di questo gruppo: Neverland. Questo brano e The Invisible Man sono quelli che fin da subito mi hanno attirato all'album, il resto è "arrivato" dopo. Neverland è piuttosto semplice a livello compositivo, e forse il bello è proprio quello; ma un po' l'atmosfera, un po' il testo, un po' la combinazione micidiale dell'interpretazione di Hogarth ed un Rothery ispiratissimo alla chitarra, è quasi impossibile arrivare alla fine con gli occhi asciutti. Posso solo immaginare, guardando i numerosi video live, cosa possa essere sentirla dal vivo.
Insomma un album che naturalmente, essendo doppio, ha alti e bassi; però per qualche motivo lo preferisco a Brave. Sarà per una certa atmosfera che percepisco un po' in tutti i brani, qualcosa che non so spiegare, qualcosa che unisce il tutto, brani capolavori e semplici composizioni oneste, e li racchiude in un tutt'uno che scorre come pochi altri album di questa lunghezza. Credo ci sia anche un concept di fondo, legato al "losing marbles", modo di dire che significa in sostanza impazzire, però lo trovo un collegamento un po' labile e giustificato praticamente solo dalle 4 parti della title track sparse e da qualche frase ricorrente nei vari brani. Ma questo non diminuisce il valore di un album che sa emozionarmi ogni singola volta, forse anche nelle imperfezioni che ha, e che per questo si merita un 9.

sabato 10 marzo 2018

Quella volta che George Harrison suonò Lucille con i Deep Purple






Proprio mentre scrivevo la recensione di Live In Paris 1975 dei Deep Purple, mi tornò in mente un altro caso particolare da inserire in questa ideale serie "quella volta che..."
Siamo nel 1984, i Deep Purple dopo anni di voci finalmente si riuniscono, creando di fatto una delle prime importanti reunion della storia; importante anche visto il casino successo nel 1980, in cui un gruppo totalmente a caso con Rod Evans alla voce (creazione di qualche promoter geniaccio) andò in giro con il nome Deep Purple finendo ovviamente per dissolversi per problemi legali (senza neanche parlare delle orribili performance, stando ai testimoni). Da allora purtroppo si persero le tracce di Rod Evans, ma non è questa la sede per parlarne. Dicevamo, siamo nel 1984, i membri di quella che fu la formazione mark 2 dei Deep Purple hanno già raggiunto un più che rispettabile, a volte enorme, successo con band come Gillan, Whitesnake e Rainbow, dimostrando quindi il loro innegabile valore anche senza la presenza degli altri membri, cosa alquanto rara.                               
I Deep Purple quindi non solo si riuniscono, ma pubblicano anche uno dei pochissimi album in grado di stare al fianco di Machine Head (Perfect Strangers) e si imbarcano in un tour. Tour che, dopo una data segreta in Germania, viene di fatto inaugurato in Oceania, con date sparse sia in Nuova Zelanda che in Australia. Dalla prima data di Sydney nel 2013 viene pubblicato Perfect Strangers Live: ottima testimonianza di una band forse ancora un po' "arrugginita" ed in fase di rodaggio, ma perfettamente in grado di reggere il confronto con il passato, nonostante le manie rumoristiche e la "sporcizia" nel tocco di Blackmore a metà anni '80 (si riprenderà alla grande qualche anno dopo a mio parere). La serata successiva a quella pubblicata ufficialmente, sempre a Sydney, il 13 Dicembre, ecco che a fine concerto succede qualcosa di molto curioso. A far loro compagnia per il bis a fine concerto viene invitato sul palco nientemeno che George Harrison! Combinazione di personalità piuttosto curiosa direte voi, ma forse non così tanto nella realtà. A quanto pare, infatti, Harrison e Jon Lord si conoscevano fin dagli anni '60, abitando non lontano ed essendosi conosciuti alla Apple Fashion Boutique. Lord collaborò anche all'album solista di Harrison, Gone Troppo.
Per qualche motivo Harrison in quella occasione si trovava nei paraggi e quindi perchè non invitarlo a suonare? Dopo essersi in sostanza auto-presentato come "Arnold from Liverpool", ecco che si buttano in una divertente versione improvvisata di Lucille, classico bis presente in molti concerti dei Deep Purple fin dagli anni '70.
Certo, se da una parte è un po' triste il fatto che il video ufficiale sia stato tratto dalla sera prima e non da questa visto l'evento, dall'altra possiamo comunque goderci varie testimonianze di questa serata: un filmato (seppur di qualità non eccelsa) e varie foto sia sul palco che dal backstage (tra cui quella, tristemente indimenticabile, con un Gillan poco vestito ma "calzino-dotato").

 
 




giovedì 8 marzo 2018

Deep Purple - Live in Paris 1975 (recensione)

Ho sempre avuto un debole per la formazione cosiddetta mark 3 dei Deep Purple: quella formata da Ritchie Balckmore, Jon Lord, Ian Paice, Glenn Hughes e David Coverdale e che pubblicò Burn e Stormbringer. E questo nonostante ci siano casi in cui Hughes sfiorava l'insopportabilità con urla fuori luogo che, se unite alla vena funk-soul di Stormbringer (l'album) quasi mi fa desistere dall'esplorare oltre (ovviamente Burn non lo tocca nessuno). Ma c'è un ma: questa formazione in sede live era devastante. E se già il Live in London o la loro esibizione al California Jam rendeva bene l'idea delle potenzialità di questa band, a mio modesto parere è qui che raggiunsero l'apice. Live in Paris 1975 è in sostanza l'ultimo concerto prima dell'abbandono di Blackmore, tra l'altro già rappresentato parzialmente nel bel Made In Europe, che già era un ottimo album, ma non conteneva la scaletta completa (essendo, a differenza dal Made In Japan, un album singolo tra l'altro composto da 3 serate, non solo da quella di Parigi). Qui abbiamo quindi un concerto storico, vista l'imminente defezione dell'uomo in nero, ma anche il massimo che questa formazione era in grado di offrire. Perchè se da un lato abbiamo delle ottime versioni di brani già consolidati come Burn, Mistreated (entrambe devastanti), la Smoke On The Water con le strofe cantate a turno da Coverdale e Hughes (anche se mai digerirò la ripetizione della prima strofa al posto della terza) e le consuete, infinite versioni di You Fool No One e Space Truckin' con assoli vari a far da contorno; dall'altro abbiamo la freschezza di brani nuovi in versioni spesso superiori a quelle del disco! Basti sentire Stormbringer, che già in studio si distingueva dal resto dell'album in quanto a potenza, ma qui tira giù i muri. The Gypsy ammetto che era spesso altalenante dal vivo, essendo la sua resa totalmente in mano alle armonie di Coverdale e Hughes che diciamocelo, spesso non erano lucidissimi...
Qui fanno un buon lavoro davvero, e l'assolo di Blackmore è devastante. Lady Double Dealer invece, a parte l'inizio zoppicante, si conferma come discreto brano come tanti altri, ma fa la sua figura in scaletta. L'assolo di Blackmore in You Fool No One come al solito è disumano, anche se forse a tratti preferisco la versione un po' più "ordinata" del tour di Burn. Ovviamente prima dell'inizio del suddetto brano possiamo goderci il consueto assolo di Lord sempre in bilico tra classicismi e rumorismi con la sua consueta classe insuperabile. Space Truckin non riuscirò mai ad apprezzarla appieno cantata da Coverdale (come in sostanza tutte le cose di Gillan), però si sa che l'attrazione principale, anche qui, sono le improvvisazioni: e se apprezzate cose come Also Sprach Zarathustra, quasi 20 minuti di Lord e Hughes che si lasciano andare completamente e citazioni estemporanee e Child In Time, allora adorerete questa versione. La sorpresa di questo live però sono i bis, in gran parte improvvisati. E se Going Down di Don Nix è una costante sia nella mark 3 che nella mark 4, Highway Star decisamente no. Ok, oggettivamente è un po' una versione "stuprata" di Highway Star, con Coverdale e Hughes assolutamente non paragonabili a Gillan qui (ma d'altronde non è un loro pezzo, quindi li si può perdonare, hanno fatto di molto peggio altrove), però a metà succede l'inaspettato: Blackmore praticamente "ruba" l'assolo a Lord e....non si ferma! Va avanti per 5 minuti buoni tra libera improvvisazione e quello che sembra il consueto rituale di distruzione chitarristica. Cacofonia? Certo! Ma che cacofonia!
Un live che consiglio assolutamente ai fan e che, pur con le dovute differenze, ho sempre visto come "il Made In Japan della Mark 3". E poi, sarà perchè già sapeva che da lì a poco avrebbe lasciato la band (anzi, pare che l'abbia comunicato agli altri prima di questo concerto) ma Blackmore è inarrestabile per tutto il concerto, perfettamente in bilico tra le follie degli anni precedenti e le derive più melodiche dei prossimi Rainbow. Un voto? Si merita un 8,5 direi. Anche perchè ci sono tante imperfezioni, specialmente da parte di Hughes e Coverdale, che certo, non si fanno troppo sentire vista la "carica" di tutta la band, però se ci si fa caso... Ah, non ho citato Ian Paice? Ma perchè lui è una macchina da guerra sempre, è implicita la sua performance disumana, qui come altrove!
Se volete di più di quest'epoca, è uscito in tempi recenti anche il live a Graz, anch'esso parte del citato Made In Europe e registrato pochi giorni prima. Se invece volete solo un assaggio, il Made In Europe è perfetto.