giovedì 27 settembre 2018

Jean Michel Jarre - Zoolook (1983) Recensione

Forse uno dei lavori più sperimentali di Jean Michel Jarre, si rivela essere a mio parere anche uno dei più interessanti e particolari. La sua caratteristica principale, che è poi ciò che lo rende un lavoro in sostanza unico nella sua discografia, è il ruolo di primaria importanza che ha la voce. Non si tratta però di parti cantate, bensì di un uso di diverse parti vocali (sia parlate che cantate) campionate e "suonate" attraverso il Fairlight, uno dei primi campionatori. L'album è infatti letteralmente ricoperto di frammenti vocali usati in sostanza come uno strumento, come un sintetizzatore, risultando quindi spesso in melodie costituite da una sillaba "suonata" a diverse altezze, oppure ritmi che partono da collage vocali... Il tutto usando parti in, pare, ben 25 lingue diverse. A questo viene aggiunta poi, altra cosa rara per Jarre, la presenza di una vera e propria band (Adrian Belew alla chitarra, Marcus Miller al basso e Yogi Horton alla batteria), ed il che dà un suono più organico al tutto, potando certi brani in territori quasi new wave, in totale contrasto con la freddezza e la resa quasi robotica delle voci. Altro particolare importante è l'influenza dell'altro progetto di Jarre, in sostanza contemporaneo: Music For Supermarkets (ne parlo qui). Senza scendere troppo nei particolari, basta ascoltare i due lavori per notare vari punti in comune, idee che da Supermarkets sono poi state riarrangiate ed inserite in questo Zoolook (ad esempio Blah Blah Cafè e l'ultima sezione di Diva).
Il risultato è un album con alti e bassi, di cui il punto più alto è senza dubbio la traccia di apertura Ethnicolor. L'inizio è caratterizzato da una lunga sezione atmosferica piuttosto sinistra, che comunica quasi un senso di desolazione, oscurità. Già qui ci sono suoni e voci (si fa subito notare Belew con i suoi elefanti chitarristici) che rendono il tutto davvero indescrivibilmente inquietante. Dopo un po' entra una sorta di loop ritmico formato da voci che è, di nuovo, qualcosa di particolarmente sinistro. Fa strano infatti sentire voci umane avere il ruolo di, sostanzialmente, macchine. Una cosa che continuerà certamente per tutto l'album, ma senza raggiungere vette di questo livello a mio parere. A questo punto si unisce il resto della band e fa subito notare quanto una presenza effettivamente umana possa aiutare non poco la resa di album di questo tipo, seppur strettamente elettronici per natura. La successiva Diva vede invece la presenza, questa volta davvero alla voce vera e propria, di Laurie Anderson, che offre un'interpretazione piuttosto particolare e sperimentale ad un altro brano che inizia sinistro per poi diventare più ritmico. Non uno dei miei preferiti, ma sicuramente interessante.
La title track è il classico pezzo da classifica di Jarre, molto melodico, ritmato, ma la cui melodia è creata con una voce "suonata". Il risultato è strano all'ascolto, e a mio parere con l'uso di un più normale sintetizzatore il risultato ne avrebbe giovato, ma in linea con l'identità dell'album direi che è quantomeno godibile. Wooloomooloo è in sostanza un brano atmosferico di transizione che ci porta a Zoolookologie, altro brano leggero e ritmato come che si fa apprezzare. Blah Blah Cafè è invece interessante: un brano un po' più lento e "pesante" nel ritmo, molto meccanico nella resa, ma con un suono di sintetizzatore che ho trovato identico a quello usato da Tony Banks nel finale di The Light Dies Down On Broadway in The Lamb Lies Down On Broadway. Una chicca per i proggettari.
L'album finisce poi per sfumare con Ethnicolor II, altro brano atmosferico che porta l'album a concludersi con toni simili all'apertura, anche se forse meno oscuri.
Insomma un album davvero molto interessante e "diverso" se confrontato con gli altri lavori di Jean Michel Jarre. Inizia alla grande e forse perde un po' man mano che va avanti, ma in quanto lavoro sperimentale va preso per quello che è. Non è di facile ascolto come i precedenti e gran parte dei successivi, ma non si tratta neanche del Trout Mask Replica della musica elettronica. Semplicemente può far strano l'uso delle voci ed un tono forse più che mai freddo e meccanico. L'uso dei sample prenderà poi via via un uso sempre meno interessante a livello puramente artistico nella musica, in bilico tra l'imitare la realtà (vedasi molti ottimi plugin), che forse è la cosa più utile e sensata, ed il citare opere d'altri totalmente decontestualizzate, cosa che ho sempre odiato. Qui siamo agli albori di questa tecnologia, che quindi viene usata un po' come un giocattolo, ma che a tratti permette a Jarre di raggiungere ottimi risultati, come in Ethnicolor.
Non il mio lavoro preferito di Jarre, ma un album che fa sempre piacere tornarci. Un 7,5 come voto.

martedì 25 settembre 2018

Sparks - N. 1 In Heaven (1979) Recensione

Dopo il trittico perfetto di Kimono My House, Propaganda e Indiscreet, gli Sparks pubblicarono una serie di album un po' meno a fuoco dei precedenti. I risultati in termini di successo, che già all'uscita dell'ambizioso Indiscreet iniziarono a calare, ne risentirono non poco. Ciò porto i fratelli Mael a cercare una direzione totalmente diversa, abbandonando di fatto il rock. Ci fu infatti l'idea di una collaborazione con Giorgio Moroder, all'epoca rinomato produttore famoso soprattutto per il lavoro con Donna Summer, proprio per portare gli Sparks ad un suono più elettronico ed affine alla disco music.
Via libera quindi a sintetizzatori di ogni tipo che letteralmente dominano ogni brano di questo disco, uniti ai tipici ritmi ossessivi del genere. Ritmi particolarmente coinvolgenti soprattutto in quanto caratterizzati dalla presenza di una batteria acustica e non di una drum machine.
Il tipico gusto melodico e stralunato unito a testi divertenti dall'umorismo tra il demenziale ed il "tongue in cheek" che tanto hanno caratterizzato gli Sparks precedenti è ovviamente presente, ma le tipiche prestazioni vocali di Russel Mael sono qui in un certo senso meno "taglienti" e più potenti, grazie soprattutto alla scelta di raddoppiare le tracce vocali e di aggiungere un supporto corale.
Difficile scendere nel dettaglio di ogni brano, tanto è compatto e unito il risultato, senza però per questo risultare noioso o ripetitivo. I suoi 33 minuti di durata scorrono via senza che neanche ce ne si accorga, e forse questo è il suo più grande difetto: la brevità. Difetto, o caratteristica, che però condivide con gran parte degli album di disco music contemporanei.
Ogni brano è un ottimo esempio di come la disco possa essere un genere interessante e godibile anche da chi, come il sottoscritto, non è particolarmente amante del genere. Sì, perchè seppur la resa sonora generale sia totalmente vittima di tutti i pregi ed i difetti di quel genere, la composizione si rivela essere decisamente più originale della media. Stiamo parlando degli Sparks dopotutto, seppur con l'importante contributo di Giorgio Moroder. Contributo che, ricordiamo, non si limitò alla produzione ma anche alla composizione e agli arrangiamenti, esempio più unico che raro in una band dove di solito Ron Mael si occupa quasi esclusivamente di questi ultimi aspetti.
Un album leggero, divertente, interessante, che può far venire voglia di ballare e stampare un sorriso in faccia anche al più insensibile pezzo di legno di questo mondo.
Purtroppo la perfezione di questo lavoro non ebbe un seguito, in quanto il successivo Terminal Jive, di nuovo con Moroder, si rivelò essere molto meno brillante. Ciò portò Ron e Russel a riconsiderare le sonorità più affini al rock, stavolta però tinte da una piacevolissima new wave in piccoli gioiellini come Whomp That Sucker e Angst In my Pants, i loro migliori lavori degli anni '80.
Ma tornando a N. 1 In Heaven, fu curiosamente anche uno dei loro pochi lavori, se non l'unico, che riuscì ad arrivare nell'ottusa Italia grazie al singolo Beat The Clock, che spesso è l'unica canzone a cui si associa il nome Sparks qui, e parlo per esperienza (in casi più fortunati si può parlare di This Town Ain't Big Enough For Both Of Us, ma non allarghiamoci troppo). Da un lato mi fa piacere vedere che comunque un minimo siano riusciti ad arrivare anche qui, ma dall'altro è un grande dispiacere notare che in sostanza fu l'unico caso, portando alcuni ad associare il nome Sparks a Beat The Clock, che non è affatto un brano rappresentativo della loro lunga ed eclettica carriera.
Ma a parte questo, è un album consigliatissimo a chiunque, un capolavoro della disco music. Un 8,5 per me.


martedì 18 settembre 2018

Pink Floyd - I Migliori Bootleg (1967-1977)

Quindi, dopo Queen e Led Zeppelin, tocca ad un'altra delle mie band preferite. Di nuovo, ho selezionato alcune registrazioni che mi piacciono e le ho riportate in ordine cronologico, ma stavolta è stato più difficile trovare registrazioni di buona qualità, quindi alcune di queste potrebbero non essere facilmente ascoltabili da qualcuno che non ha molta esperienza con i bootleg.

Ho deciso di concentrarmi su un periodo di 10 anni, dal 1967 al 1977, fondamentalmente perché, a mio parere, si tratta della fase più interessante per quanto riguarda le esibizioni dal vivo. A poco a poco hanno smesso di improvvisare intorno al 1975, ma lo facevano ancora qua e là nel 1977. Dopo di che, con The Wall e i tour post-Waters, era tutta un'altra cosa: grandi spettacoli, ma ogni concerto suona all'incirca uguale. Inoltre, abbiamo delle uscite ufficiali per tutti questi tour, quindi non ci sono molti motivi per andare a cercare bootleg, a meno che non amiate quei tour e ne desideriate di più.

PREMESSA

Per anni, se non per decenni, alcuni bootleg molto famosi sarebbero venuti inevitabilmente in mente ogni volta che ci fosse stato bisogno di parlare dei Pink Floyd dal vivo: cose come le BBC Sessions '67 -'71, Wembley '74, Amsterdam '69 ... Ma dalla pubblicazione del grande cofanetto "The Early Years 1965 - 1972" molte di quelle registrazioni sono state pubblicate ufficialmente (Wembley '74 faceva parte delle versioni di Dark Side e Wish You Were Here del 2011, divise in due parti, e l'encore di Echoes è in The Early Years), quindi qui non parlerò di quelli, e cercherò alternative. Tuttavia, ci sono state discussioni sulla qualità del suono di quelle versioni ufficiali (specialmente quelle della BBC), e sembra che ci siano alcune versioni bootleg che suonano meglio; quindi potrebbe valere la pena cercarli. Inoltre, alcuni outtake in studio di The Early Years sono stati remixati (in particolare Vegetable Man e Scream Thy Last Scream), quindi se volete ascoltare il mix originale, i bootleg sono ancora la strada da percorrere.

Rotterdam il 13/11/1967

Iniziamo con l'unica registrazione con Syd Barrett che ho scelto. Lo show di Stoccolma su The Early Years è senza dubbio la migliore rappresentazione di questa formazione dal vivo (insieme alle BBC Sessions), ma se ne volete di più nonostante la qualità del suono appena accettabile, potreste prendere in considerazione questo. La setlist è più o meno la stessa di Stoccolma, e in entrambi questi concerti le voci sono appena udibili. Quindi immagino che non si trattasse di un problema tecnico, quanto più una scelta o un risultato di un'amplificazione inadeguata. Per i completisti e i fan di Syd Barrett. Inoltre, è interessante ascoltare Set The Controls For The Heart Of The Sun con Syd Barrett.

Paradiso Amsterdam il 23/05/1968

Ancora una volta, non la migliore qualità sonora qui, ma uno dei migliori documenti dei primi Pink Floyd con David Gilmour oltre alle BBC Sessions. La maggior parte delle versioni bootleg di questa data contengono due spettacoli dello stesso giorno, entrambi della durata di circa 50 minuti ciascuno. Possiamo sentire nuove canzoni che trovano spazio nelle scalette, come Let There Be More Light, A Saucerful Of Secrets, Keep Smiling People (un primordiale Careful With That Axe Eugene), insieme a "classici" come Interstellar Overdrive e Flaming.

Royal Albert Hall London 26/06/1969

A causa dell'uscita ufficiale di Amsterdam 1969 in The Early Years, ora abbiamo le versioni migliori di The Man And The Journey disponibili, quindi ho pensato di cercare un'altra registrazione di quell'epoca. Questa è tristemente incompleta (inizia con Afternoon / Biding My Time) e non suona bene come Amsterdam, ma è comunque molto interessante da ascoltare. Probabilmente il più grande punto di interesse è The End Of The Beginning, dove Richard Wright va all'organo a canne della Royal Albert Hall e la Royal Philarmonic Orchestra con il coro Ealing Central Amateur si aggiunge successivamente, creando un climax incredibile, oltre che i primi segni di cosa sarebbe successo un anno dopo (Atom Heart Mother).

9th National Jazz Pop Ballads & Blues Festival Race Tracks Plumpton 08/08/1969

Un altro documento interessante del 1969, con una scaletta che si colloca tra The Man & The Journey e quella base dell'epoca, che è finita su Ummagumma. Quindi ci sono cose come The Narrow Way pt. III e The Pink Jungle, ma anche Set The Controls, Interstellar Overdrive e così via ... Il suono non è molto buono, ma è comunque ascoltabile.

Festival Actuel Amougies Belgio 25/10/1969

Il suono è forse anche peggiore qui, ma se si riescea sopportare ciò e più o meno la solita scaletta, ci possiamo godere la presenza unica di Frank Zappa su Interstellar Overdrive! Ovviamente ora abbiamo un video su The Early Years, ma l'intero concerto lì non c'è, quindi ...

Fillmore West San Francisco 29/04/1970

Qui le cose cominciano a diventare molto interessanti. Il suono è fantastico, il migliore senza dubbio fino a questo punto, la setlist è lunga e molto buona (insieme alle solite canzoni del 1969, otteniamo la versione della band di Atom Heart Mother e Embryo). È probabilmente uno dei migliori bootleg in generale, insieme ad alcune ottime alternative che stiamo per vedere.

Civic Auditorium Santa Monica 01/05/1970

Solo due giorni dopo e con la stessa setlist, quindi perché lo sto suggerendo? Beh, perché il suono è forse anche migliore, e gli spettacoli del 1970 non sono mai abbastanza! Questo non è completo, quindi ci sono alcune "toppe" da altri spettacoli per offrire un'esperienza di concerto completa. Caldamente consigliato!

Civic Auditorium Santa Monica 23/10/1970

Ancora una volta a Santa Monica, ma pochi mesi dopo. Questo offre di nuovo la stessa scaletta, ma su Atom Heart Mother abbiamo orchestra e coro! Un'altra registrazione di grande qualità! È interessante vedere che Fat Old Sun, se paragonata alla registrazione della BBC del 1970, ha già ottenuto l'arrangiamento più lungo che rimarrà fino al 1971.

Casino Montreux 21-22 / 11/1970

Questi due concerti consecutivi sono sicuramente alcuni dei migliori bootleg dei Pink Floyd di sempre. La setlist è molto simile tra loro (ci sono due tracce blues improvvisate alla fine della prima e Interstellar Overdrive alla fine della seconda), e la versione della band di Atom Heart Mother su The Early Years è stata presa dalla 21. Un ottimo paio di concerti, altamente raccomandati.

Taft Auditorium Cincinnati 20/11/1971

La BBC Session del 1971 è probabilmente ancora il miglior documento di quest'anno, insieme forse a qualche concerto giapponese. Ma questo l'ho scelto perché, nonostante non suoni così bene a livello di qualità, ha la Embryo più lunga mai suonata: circa 26 minuti, con un sacco di improvvisazioni a causa delle tastiere che hanno problemi tecnici. La cosa interessante qui è la possibilità di cogliere alcuni spunti per canzoni future come Obscured By Clouds and Childhood's End. Inoltre, ovviamente Echoes ha trovato il suo posto nella scaletta. È anche l'ultima volta che Embryo e Cymbaline sono state suonate, essendo l'ultima data del tour.

Rainbow Theatre Londra 20/02/1972

Questa è probabilmente la versione migliore come qualità audio di The Dark Side Of The Moon quando si chiamava ancora Eclipse. Hanno suonato l'intero album per tutto il 1972 e tutto è andato lentamente al suo posto. La cosa interessante è ascoltare The Travel Sequence, una jam funky al posto di On The Run, The Mortality Sequence, un brano all'organo con voci registrate al posto di The Great Gig In The Sky, e differenze generali come una Time più lenta cantato in armonia da Gilmour e Wright. E ovviamente, nessuna corista e sax aggiunti. La seconda parte del concerto non suona così bene purtroppo, ma ne vale comunque la pena anche solo per Eclipse.

Hollywood Bowl LA 22/09/1972

Un altro con la stessa scaletta, interessante se volete sentire come Eclipse / Dark Side si è sviluppato durante il tour, oltre ad una seconda parte del concerto decisamente migliore rispetto a quella del Rainbow. Un ottimo concerto.

Hallenstadion Zurich 9/12/1972

Questa è una delle ultime date di questo tour, quindi Eclipse / Dark Side è quasi completamente sviluppato, ma ciò che è interessante qui è la rara ed estesa performance di Childhood's End! Ne vale davvero la pena anche solo per quella canzone, di gran lunga superiore alla sua versione da studio. Un'ottima alternativa a questa, sempre con Childhood's End nel set, è Bruxelles il 5/12/1972.

Radio City Music Hall New York 17/03/1973

Una grande registrazione del tour di supporto a The Dark Side Of The Moon. Qui l'album è riprodotto nella sua versione finale, molto vicina all'album (a parte un po 'di improvvisazione in Money e Any Color You Like), quindi niente di veramente interessante o unico qui, soprattutto perché possiamo ascoltare una versione live di Dark Side dal 1974 in qualità molto migliore (la già citata registrazione di Wembley), quindi perché sto suggerendo questo? Beh, principalmente a causa della prima metà del concerto, dove aprono lo show con Obscured By Clouds e When You're In, entrambi in una versione più lunga e più improvvisata. Il resto della setlist è occupato da Set The Controls, Careful, Echoes e One Of These Days, quindi niente di nuovo qui. Vale la pena soprattutto per l'apertura. Una buona alternativa è Music Hall Boston il 14/03/1973.

Earls Court London 19/05/1973

Identica setlist ma un'altra grande registrazione. Vale la pena di ascoltarlo se vi piace questo tour e volete di più, è sicuramente un'ottima alternativa a quella di New York.

The Palace Theatre Manchester il 09/12/1974

Ovviamente lo show di Wembley pubblicato sulle edizioni Experience di The Dark Side Of The Moon e Wish You Were Here è la prima scelta per questo tour, ma se ne volete un altro, allora probabilmente questo è una valida scelta. Ovviamente il suono non è altrettanto buono, essendo una registrazione del pubblico, ma trovo che sia almeno accettabile. Il principale punto di interesse è ovviamente ascoltare Raving And Drooling, You Gotta Be Crazy (Sheep and Dogs) e Shine On You Crazy Diamond nella loro forma iniziale. L'intero Dark Side viene anche suonato sia qui che in tutti i concerti del 1975, insieme ad Echoes come bis.

Sports Arena LA 26/04/1975

Probabilmente uno dei migliori bootleg del 1975 in termini di qualità del suono. La setlist è leggermente diversa da quella del 1974: Raving And Drooling e You Gotta Be Crazy (questo secondo brano in particolare) sono più vicini alle loro versioni che finiranno su Animals un paio di anni dopo, e Shine On You Crazy Diamond è divisa in due parti come la versione da studio, interrotta per ora solamente da Have A Cigar. Personalmente ho ancora un po 'di problemi con Echoes suonata con coriste e sax, ma diciamo che è perlomeno interessante.

Boston Garden, Boston 18/06/1975

Semplicemente un'alternativa valida al concerto di LA se volete di più. Buona qualità del suono, anche se non quanto il precedente.

Alameda Coliseum Oakland il 05/09/1977

Il miglior bootleg del 1977, con una grande qualità del suono e una spettacolare setlist. Entrambi Animals e Wish You Were Here vengono suonati nella loro interezza (l'ordine dei brani su Animals è un po 'diverso: Sheep, Pigs On The Wing 1, Dogs, Pigs On The Wing 2, Pigs) molto vicino alle versioni in studio. Tuttavia improvvisano un po 'sul finale di Pigs e su Shine On pts. 6-9, portando queste due tracce ben oltre la loro versione in studio. Money and Us And Them sono i primi bis. Curiosamente, solo in questa data, chiudono lo show con Careful With That Axe Eugene, una canzone che non hanno suonato dal 1973 e che non suoneranno mai più dopo questo concerto.

Olympic Stadium di Montreal 06/07/1977

Stessa scaletta, qualità del suono un po' peggiore, ma uno dei concerti storicamente più importanti. Questa è la famosa sera in cui Roger Waters avrebbe sputato addosso ad un fan in prima fila. Ovviamente non possiamo sentirlo, ma è chiaro che qualcosa sta succedendo durante la jam alla fine di Pigs, dove Waters urla cose come "come on boy, all is forgiven", portando il pezzo ad un climax incredibile come nessun'altra versione. Possiamo anche sentirlo lamentarsi di petardi durante Pigs On The Wing. Uno spettacolo molto interessante, da non perdere.

domenica 16 settembre 2018

Paul McCartney - Egypt Station (2018) Recensione


Ed eccoci a parlare di un nuovo album di un ex-Beatle, un evento di cui dovremmo in ogni caso ringraziare della fortuna che abbiamo nel potervi assistere. Preceduto da tre singoli, arriva a ben cinque anni dal precedente New e si rivela essere un lavoro piuttosto diverso, come vedremo più avanti. Dicevo preceduto da tre singoli, di cui i primi due usciti in coppia (Come On To Me e I Don't Know, di cui ne ho parlato qui e la mia idea a riguardo non è cambiata), ed un terzo che mi lasciò alquanto perplesso. Fuh You infatti mi convinse a non preordinare l'album ed aspettare di ascoltarlo su Spotify all'uscita prima di spenderci dei soldi, tanto mi colpì in negativo. Si tratta infatti del prototipo di un tipico brano millenial pop, dalla composizione con i soliti accordi triti e ri-triti alla (orribile) produzione, senza neanche parlare dell'inutile e vuoto testo. Il tutto però con la voce di un ultrasettantenne, tanto per lasciare un enorme punto di domanda a chi ascolta. C'è però da dire che il bell'intermezzo con archi che tanto ricorda alcune cose degli ELO fa imbestialire ancora di più, in quanto bisogna sopportare tutto il resto della canzone per arrivarci.
Quindi diciamo che, alla luce di ciò, ho affrontato l'album con cautela. Un album le cui canzoni dovrebbero esser viste come delle stazioni di un viaggio, il che può esser visto tanto come un concetto banale, forzato, inutile o semplicemente carino; per me è abbastanza irrilevante. A giustificare ciò ci sono due brevissimi strumentali (Opening Station e Station 2) che, seppur non necessari, sembrano voler dare appunto un senso di unità al tutto. L'album è, in generale, l'ennesimo esempio del McCartney moderno: costantemente in bilico tra tendenze, appunto, moderne e ovvi rimandi al gusto melodico e agli arrangiamenti dei lontani tempi dei Beatles. Può esser strano aprire con la lenta I Don't Know, ma essendo un gran bel pezzo si può dire che funzioni alla grande. Si rimane nel familiare con Come On To Me per poi lasciar spazio all'acustica Happy With You, che è un po' la Blackbird del disco: un grazioso quadretto acustico con un che di nostalgico. E già qui si può notare come gli arrangiamenti siano decisamente più variegati e "colorati" rispetto al precedente New. Who Cares ci porta il Paul più rockeggiante "alla Get Back" che torna sempre almeno una volta in ogni album. Poi arriva la temibile Fuh You e facciamo un saltino a Confidante, altro brano acustico questa volta però piuttosto anonimo a mio parere. Insomma questo duo di brani può esser visto come il punto basso dell'album, che per fortuna da qui in poi si riprende gradualmente. Sì, perchè la pur banalotta People Want Peace non può non essere contagiosa, al di là del sempre valido messaggio che a questo punto dovremmo aver compreso da tempo ma evidentemente non è così. Hand In Hand è invece uno dei brani che preferisco in assoluto in questo disco. Un McCartney particolarmente malinconico letteralmente da pelle d'oca; qua siamo ai livelli della bellissima Jenny Wren da quel capolavoro di Chaos And Creation In The Backyard. Poi, detto fra noi, capisco che voglia arrivare ai giovincelli, ma Hand In Hand sarebbe stato un singolo 100 volte migliore di Fuh You. 
Dominoes è un altro gran bel pezzo in cui ho notato una piccola curiosità, non penso voluta. Verso la fine possiamo notare un assolo di chitarra registrato al contrario, che certamente non è una novità per Paul, ma curiosamente è la stessa cosa che accade alla fine dell'omonimo (anche se diverso) brano di Syd Barrett. Curiosità a parte, è un brano che ho davvero apprezzato, che mi ricorda certe cose dei tempi dei Wings. Back In Brazil invece secondo alcuni si tratta del peggiore brano del disco: ora, non è un capolavoro, ma non è neanche Fuh You. Si tratta di un altro brano ballabile del Macca più moderno, ma non per questo irritante. Apprezzabile direi, anche se indubbiamente fa un po' inciampare un album che stava andando alla grande. Do It Now è invece un'altra gran bella ballata piano e clavicembalo in quello stile che tanto gli viene bene. Davvero molto bella, fa capire in che genere di canzoni il Macca ultrasettantenne sappia ancora eccellere come pochi. Ceasar Rock è una bella sorpresa: uno strambo pezzo rock che lascia spazio ad un sorprendente Paul versione urlatore alla "Monkberry Moon Delight", cosa che personalmente credevo ormai oltre le sue possibilità, e invece... Ed eccoci finalmente a Despite Repeated Warnings, indubbiamente la punta di diamante dell'album. Sette minuti di saliscendi e cambi con un testo metaforico e critico nei confronti di certi personaggi che negano la grave situazione climatica che stiamo vivendo. C'è chi dice che sia sulla Brexit, chi su Trump, a ognuno la sua... Fatto sta che, tolti un paio di cambi forse leggermente forzati, a mio parere si tratta di uno dei risultati più sorprendenti e riusciti del McCartney più recente. La breve Station 2 ci porta alla conclusione con il medley Hunt You Down\Naked\C-Link. L'inizio è un rock piuttosto semplice e, presumo, volutamente banalotto, mentre la bellissima Naked sembra davvero arrivare dai tempi dei Wings con quel suo andamento cadenzato non lontano da cose come Call Me Back Again. C-Link invece è un interessante e inaspettato strumentale con Paul che si improvvisa chitarrista dalla vena blues su un bordone d'orchestra, presumo, in do. Una particolare e, in un certo senso, audace conclusione dell'album come spesso è capitato in altri suoi lavori recenti (dove spesso erano presenti ghost track). 
Quindi che dire in conclusione? Beh, per quanto mi riguarda è un album decisamente più solido di New, pur non offrendo forse brani memorabili come Queenie Eye o la title track, è comunque innegabile che in Egypt Station ci siano in generale molti meno brani deboli. Un album che sa suonare vario ma coerente; merito anche di una produzione ottima (oltre alla presenza di un solo produttore, a differenza di New che se non ricordo male ne contava tre e suonava sconnesso per quel motivo). Produzione che però, a mio parere, viene "schiacciata" dal consueto mastering da omicidio che spinge ogni cosa al massimo del volume: che si tratti di un intero gruppo o della sola chitarra acustica, il volume è esattamente lo stesso. Ma ormai si sa che questa è la tendenza, e perlomeno non si è arrivati al clipping come in Toto XIV. Bella anche la copertina, realizzata dallo stesso McCartney, con il suo tripudio di colori e dettagli, come ormai se ne vedono sempre più raramente purtroppo.
In definitiva, un album non certo perfetto ma in generale il migliore da Chaos And Creation In The Backyard, oltre che uno dei migliori usciti quest'anno. Un 8 come voto. 

venerdì 14 settembre 2018

Love - Forever Changes (1967) Recensione

Un album di recente scoperta per quanto mi riguarda. Terzo lavoro degli americani Love oltre che il loro migliore a mio modesto parere, si discosta molto dai loro lavori precedenti. I Love erano infatti conosciuti come band psichedelica, a tratti proto-punk, quindi l'uscita di un album sostanzialmente acustico poteva essere fonte di discussioni. Discussioni che infatti ci furono, anche all'interno della band. Come se non bastassero le tensioni fra i due principali compositori Arthur Lee e Bryan MacLean che erano in costante competizione, a ciò si aggiunse il rifiuto da parte di Lee di fare tour in supporto alla loro musica. Quando il produttore Bruce Botnick (che ebbe un ruolo importantissimo nella realizzazione di Forever Changes) consigliò a Lee di adottare un approccio più folk in questo nuovo lavoro, fu tirato fuori il nome di Neil Young come co-produttore, ma la cosa non durò, e del contributo di Young pare non esserci traccia. I brani mantennero la venatura folk, ma si rivelarono essere piuttosto complessi sia a livello strutturale (pochi o nessun brano ha una classica struttura da brano folk, ed anzi molti di essi sono caratterizzati da sezioni uniche che non vengono ripetute), sia a livello tecnico. Ciò causò difficoltà agli altri membri della band, che nelle prime sessions furono sostituiti da turnisti di lusso su consiglio di Botnick. Membri della rinomata Wrecking Crew infatti vennero chiamati e furono usati nei brani The Daily Planet e Andmoreagain. Ciò fece "risvegliare" gli altri membri della band che, avendo ora una concreta paura di perdere il loro ruolo, si impegnarono a suonare il resto dell'album in un modo che non ha nulla da invidiare ai turnisti sopra citati. Si dice che il piano di Botnick di chiamare quei turnisti fosse effettivamente studiato apposta per convincere i membri della band a partecipare.
L'album, come detto, è in gran parte acustico, in totale contrasto con le tendenze di quel magico e colorato 1967 (una tendenza non dico analoga ma perlomeno simile non si avrà prima di un anno dopo, ad esempio nel White Album dei Beatles). Lee infatti non vedeva di buon occhio tutta la questione del flower power, e si teneva ben al di fuori da quel mondo. Ciò spiegherebbe il netto contrasto stilistico tra Forever Changes e molti lavori dello stesso periodo. Allo stesso tempo però non manca la genialità tipica del periodo. Infatti la presenza di archi e fiati ad "aumentare" il suono è a dir poco sublime: si passa da "semplici" tappeti d'archi ad assoli di tromba che sembrano arrivare direttamente dal Messico. Ed il tutto senza mai avere un singolo elemento fuori posto o risultare banale, creando così un diamante pop di rara bellezza. A prova del punto di vista di Lee sul mondo che lo circondava, e della distanza che percepiva basta leggere il testo di The Red Telephone: "Sitting on a hillside, watching all the people die, I'll feel much better on the other side, I'll thumb a ride". Insomma Lee guarda il tutto da lontano, da sopra una collina, probabilmente quella di Hollywood, sulla quale amava "rinchiudersi" in una sorta di isolamento. C'è chi ha fatto un parallelo con Brian Wilson, il quale era così lontano dal surf quanto Arthur Lee lo era dalla scena musicale di Los Angeles. Scena a cui fa riferimento anche nel brano Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale, dove "tra Clark e Hilldale" indica il luogo di LA dove è sito il Whisky a Go Go, in Sunset Boulevard: "Crowds of people standing everywhere, 'cross the street I'm at this laugh affair, and here they always play my songs...". Lee però non guarda solo alla scena musicale di Los Angeles, come possiamo ad esempio intuire leggendo un passaggio da A House Is Not A Motel: "By the time that I'm through singing, the bells from the schools and walls will be ringing, more confusions, blood transfusions, the news today will be the movies for tomorrow, and the water's turned to blood...". Quindi non mancano riferimenti alla guerra, senza però specificare quale (anche se può esser facile pensare a quella in Vietnam, in atto in quegli anni), e ciò potrebbe spiegare perchè, secondo molti, Forever Changes rappresenti un perfetto quadro di quegli anni. Tornando poi al passaggio da The Red Telephone riportato sopra, si nota però un altro non troppo velato riferimento alla morte. Lee infatti disse: "all'epoca di Forever Changes pensavo che sarei morto in quel momento, quindi quelle (nell'album) erano le mie ultime parole." Una sensazione, quella di Lee, che ovviamente non si avverò, ma che impose all'album un tono particolare. Andando infatti avanti fino all'ultima e risolutiva traccia, You Set The Scene, troviamo passaggi come "This is the time and life that I am living, and I'll face each day with a smile, for the time that I've been given's such a little while..." oppure "This is the only thing that I am sure of, and that's all that lives is gonna die, and there'll always be some people here to wonder why, and for every happy hello, there will be goodbye". Insomma, frasi piuttosto profonde quanto semplici e, a tratti, elementari, che rappresentano perfettamente lo "scontro" tra profondità ed innocenza tipica della musica di fine anni '60.
Bryan MacLean ha però descritto lo stile dei testi di Lee come una sorta di flusso di coscienza, ed il che spiegherebbe parti come "Oh, the snot has caked against my pants, it has turned into crystal" immediatamente seguita da "There's a bluebird sitting on a branch, I guess I'll take my pistol, I've got it in my hand, because he's on my land" in Live And Let Live: osservazioni così basilari ed apparentemente irrilevanti oltre che sconnesse che, per qualche motivo, si sono trasformate nelle parole di apertura di un brano. Certamente non tutti i suoi testi sono così "liberi", ma è doveroso citare anche questo aspetto.
Musicalmente i brani si susseguono creando un tutt'uno molto compatto ma al contempo variegato. I due brani di Bryan MacLean, Alone Again Or e Old Man, sono due punte di diamante che dimostrano quanto Lee fosse sì il leader indiscusso dei Love, ma non certo l'unico compositore in questo album. Per il resto, non c'è un singolo brano debole o ridondante, ed i già citati arrangiamenti danno un originale e calzante vestito a brani comunque in grado di stare in piedi anche con una semplice chitarra acustica. Ci sono però interventi che reputo geniali, come ad esempio l'assolo di tromba in Alone Again Or e il magnifico finale di You Set The Scene, con un sublime botta e risposta fra archi e fiati. E come dimenticare la pura melodia di Andmoreagain, gli inaspettati cambi di Live And Let Live, ci si potrebbe scriver su libri interi.
Concludendo, si tratta di un album di cui ho sentito più volte parlare prima di dedicarmici a dovere, maledicendomi per non averlo fatto prima. Indubbiamente la sua apparente semplicità lo fa un po' sfigurare se confrontato con altri album contemporanei, come Sgt. Pepper's o The Who Sell Out, dove i colori sono a tratti quasi accecanti e caleidoscopici. Si tratta di un album più a "tinta unita" per intenderci, e forse sta proprio lì il suo fascino. Ovviamente, forse proprio per queste caratteristiche, all'epoca non vendette molto, ma venne comunque apprezzato dai critici e tutt'ora è un album con un seguito di culto. L'inutilissima classifica di Rolling Stone dei 500 migliori album, ad esempio, lo piazza al quarantesimo posto, che non è malaccio. Un voto? Dire un 9 abbondante.

martedì 11 settembre 2018

Veruno 2 days prog + 1 Festival - 09/09/2018

Si sa, nonostante i miei 26 sono vecchio dentro. Questo significa che ogni anno dal 2015 in poi (la mia prima volta a Veruno) ciò che mi attira è sempre un grande nome internazionale dalla carriera ormai cinquantennale che diversamente può essere ben difficile, se non impossibile, vedere. John Lees' Barclay James Harvest, Uriah Heep, Procol Harum e quest'anno Vanilla Fudge. Ogni volta non so nulla delle band che suonano prima in quel giorno, e di conseguenza non ho mai alcun tipo di aspettativa a riguardo, tenendomi comunque pronto a fare nuove scoperte nel caso, rimanendo però quasi sempre più o meno deluso o indifferente (con l'unica eccezione degli eccezionali Arabs In Aspic nel 2015). Quest'anno il trend si è a grandi linee ripetuto, ma andiamo con ordine.

Nel pomeriggio, nel vicino auditorium, hanno suonato i Mindspeak. Non ho avuto modo di ascoltare il loro intero set, ma da quello che ho potuto sentire ho notato una band molto solida e potente a livello strumentale, con forse qualche indecisione a livello vocale. Bel suono, in particolare il tastierista che ho sentito molto presente e con suoni spesso "vintage" che non guastano mai. Certo, personalmente mi chiedo se davvero ci sia bisogno di un'altra band d'ispirazione a grandi linee "stevenwilsoniana" visto che ormai tanti ci cadono e sembra essere la via principale, quando non l'unica, del prog moderno. Perlomeno la loro presenza mi ha risparmiato la mediocrità degli Isproject, presenti gli altri giorni.

Andando al main stage troviamo gli Smalltape ad aprire. Ho apprezzato anche qui la notevole precisione nell'esecuzione, le buone performance del cantante e la piacevole presenza di un sax ottimamente suonato che ben si amalgama ad un suono comunque piuttosto moderno. Personalmente ho trovato alcuni brani un po' troppo lunghi alla luce del contenuto, ma gran parte del set è risultato comunque coinvolgente e piacevole, specialmente verso il finale, ma in generale li ho apprezzati decisamente più della band che seguirà.

Seguono infatti i Kyros, e se da un lato, di nuovo, non c'è niente da dire sulla precisione di esecuzione, a cui aggiungo una buona presenza scenica del cantante/tastierista (ma da parte di un po' tutti a dire la verità), sul resto ci sarebbe molto da dire. A partire dalla presenza di tendenze metal che immediatamente spengono il mio interesse trasformandolo in mera sopportazione (ma qui si tratta di gusti personali e lo so benissimo), aggravate da un irritante (ab)uso di elettronica specialmente nei toni bassi, che se fosse stata usata con più senno ed in punti chiave avrebbe potuto avere il suo perchè, ma quando il 70% del loro set ha bassi potentissimi che mi hanno letteralmente fatto venire mal di testa, no grazie. Avrei anche sopportato il cantante spesso calante se non fosse stato per il resto. Peccato perchè i primi minuti mi erano anche piaciuti. Quasi. E loro sono stati comunque in generale molto bravi e simpatici.

Tocca poi ai Von Hertzen Brothers, che mi chiedo cosa ci facciano ad un festival prog. Intendiamoci, tecnicamente sono stati impeccabili: voci perfette sia del cantante principale da solo che, soprattutto, in armonia, una buona resa in generale ed una ottima presenza da parte del tastierista in alcuni brani. Cioè, sono un ottimo gruppo, niente da dire, ed è stato un peccato che uno dei due chitarristi abbia avuto problemi tecnici per gran parte del set, perchè comunque l'esecuzione è stata ottima sotto ogni punto di vista (a parte i consueti problemi di volumi che tendevano a favorire la batteria creando un po' di confusione, ma questa non è certo colpa della band). Il "problema" qui è che, da quello che ho sentito a Veruno, si tratta di una rock band piuttosto canonica. Cioè, ottime armonie e canzoni comunque belle per carità, ma non è che se hai canzoni che superano i 6 minuti e puoi vantare un tastierista in formazione automaticamente sei prog. Se ci si basa su questo allora sono prog anche i Deep Purple, i Toto, i Whitesnake, e potrei continuare... Perchè se tutto è prog, allora niente è prog. E mi starebbe pure bene, per carità, odio parlare in termini di generi (perchè io sono fan di band e artisti, non di generi), ma quando un festival fa di un dato genere la sua bandiera, certe riflessioni si è portati a farle...

Per fortuna a chiudere in bellezza ci pensano i Vanilla Fudge. Divertente come abbiano in sostanza messo a posto i loro strumenti e siano partiti senza aspettare di essere presentati. Che dire qui? Setlist ottima, la cui unica mancanza, a voler essere proprio pignoli e pedanti, è la loro malatissima versione di Eleanor Rigby dei Beatles, brano che adoro in ogni versione. Per il resto, è quasi imbarazzante lo stacco in termini di solidità sonora, dinamismo, calore, coinvolgimento, professionalità rispetto ad altre band della serata e non solo. Indubbiamente si fa sentire l'esperienza cinquantennale, certo però che vedere degli ultra-settantenni avere più energia di alcuni ventenni fa pensare... Peccato per l'assenza di Carmine Appice alla batteria (assente sia a causa del tour americano dei Rascals pianificato precedentemente, sia per motivi di salute che non gli permettono di viaggiare in aereo), sostituito comunque da un giovane batterista che sa il fatto suo. L'assenza di Appice ci ha regalato però una People Get Ready cantata, in via del tutto eccezionale, da Mark Stein, che tira fuori tutta la sua americanità in una prestazione da pelle d'oca.
Il set alterna riarrangiamenti recenti come Gimme Some Lovin', Break On Through (che finalmente ho potuto apprezzare essendo stata suonata da una band che non sono i Doors, che trovo irritanti), I'm A Believer, a classiconi come You Keep Me Hangin' On, Some Velvet Morning, e Season Of The Witch (quest'ultima con un assolo spettacolare di Vince Martell). A sorpresa come bis c'è un riarrangiamento di un brano "oscuro" dei Beatles tratto da A Hard Day's Night: You Can't Do That. Mai mi sarei aspettato di ascoltare un brano dei primi Beatles culminare con una doppia cassa, eppure... Applausi a non finire per una band che ha fatto la Storia ed è ancora in grado di suonare a livelli altissimi.
Piccolo appunto per quanto riguarda il volume delle tastiere, a mio parere troppo basso. Non è la prima volta che succede, anzi ormai è un appuntamento puntuale, ma vedere un Hammond in tutta la sua imponente bellezza e poi sentirlo a malapena, in quanto sovrastato dal volume degli altri strumenti, mette un po' di tristezza. Ok, sarò di parte avendo combattuto per anni contro questa tendenza, da tastierista a mia volta, però ci sono band in cui tastiere e chitarra/e dovrebbero essere alla pari a mio parere. Spero che in altre posizioni si sia sentito meglio.
A parte questo, l'organizzazione si è dimostrata sempre ottima sotto ogni aspetto, e ho apprezzato come di anno in anno il palco acquisti luci, schermi, ed in generale sembri sempre più di alto livello. Certo, si potrebbe abusare un po' meno del lampeggio veloce delle luci a mo di discoteca, ma sono gusti.
In ultimo, un piccolissimo dilemma.
Ma se per sicurezza fate buttare i tappi delle bottiglie all'entrata, comprensibilmente per carità, ha senso vendere bottiglie con tappi e addirittura lattine all'interno? Deve trattarsi di un'altra tipica contraddizione all'italiana.
A parte questo, ottimo festival come sempre, a cui spero di ritornare anche il prossimo anno!

venerdì 7 settembre 2018

The Pretty Things - S. F. Sorrow (1968) Recensione

Un album che ha fatto la Storia, il primo vero e proprio concept album su base narrativa, che gettò le basi e le linee guida per tutti coloro che negli anni successivi si destreggiarono in opere di analoga natura. Ascoltandolo e leggendone i testi non si possono non notare molteplici punti in comune con molti altri album concept usciti da lì a poco o nel decennio successivo, come vedremo più avanti. Il tutto qui però riesce a suonare paradossalmente più moderno, più sperimentale: un album da cui tutt'ora c'è molto da imparare.
Il tutto inizia con la nascita di Sebastian F. Sorrow (la cui F nessuno sa per cosa stia) all'inizio del '900, in una città senza nome. S.F. Sorrow Is Born apre l'album con toni acustici, presto sovrastati da un magnifico e caotico intermezzo dove il mellotron fa da padrone. E vorrei spendere due parole su questo aspetto perchè lo ritengo importante ed interessante: tutto l'album è cosparso di interventi di mellotron di diversa natura, e l'uso che ne viene fatto è infinitamente più interessante, originale e carico di inventiva rispetto all'uso che ne verrà fatto a partire dal decennio successivo fino ad oggi, dove viene utilizzato in sostanza solamente per creare tappeti di archi e/o cori.
Sorrow è un bambino con molta immaginazione: immagina di volare sulla Luna, di vedere castelli sulle nuvole... Finchè, crescendo, va a lavorare alla "factory of misery" insieme al padre, in corrispondenza però della fine del "boom", che causa una serie di licenziamenti dei lavoratori più vecchi, che ovviamente non vedevano di buon occhio i giovani lavoratori che prendevano il loro posto. La sua immaginazione giovanile è ben descritta nella magnifica Bracelets Of Fingers, introdotta da un coro non lontano da certe cose di Tommy e caratterizzata da un che di orientale. La prematura fine della sua adolescenza causata dall'entrata nel mondo del lavoro porta la sua immaginazione ad uno stop. Per fortuna ci pensa il primo amore a risollevare il tutto nella quasi beatlesiana She Says Good Morning. Sorrow e la sua amata sognano di andarsene dalla loro città e decidono di sposarsi, ma ogni piano viene rovinato dalla chiusura della factory of misery e l'inizio di una guerra (si presume la Prima Guerra Mondiale).
Sorrow è costretto ad arruolarsi, diventando Private Sorrow, e vive la guerra in uno stato di distacco, come in trance, il tutto ben descritto dall'omonimo brano dalle tinte folk. Alla fine della guerra si ritrova in una nuova terra chiamata Amerik (ovvio riferimento all'America, precisamente a New York), ed invia quindi un biglietto per un dirigibile alla sua ragazza/fidanzata per raggiungerlo. Il dirigibile, dal nome Windemberg (nome basato su Hindemburg), prende fuoco all'arrivo, davanti agli occhi di Sorrow, che assiste alla morte della sua amata. L'angosciante Baloon Burning è perfetta nel descrivere questo senso di angoscia e totale disperazione, seguita dal'oscura Death, che si focalizza sulla tristezza di Sorrow dopo l'accaduto. Mentre Sorrow vaga per la città nel pieno della sua depressione, incontra Baron Saturday (personaggio basato sulla divinità Haitiana Baron Samedi), un misterioso personaggio con un mantello nero che lo invita a compiere un "viaggio", "prendendogli in prestito gli occhi" senza chiedere il suo permesso. Il tutto lo porta dapprima nei cieli di New York, in direzione di quella che pensava essere la Luna ma si rivela poi essere la sua stessa faccia da addormentato, poi in una stanza piena di specchi che mostrano ricordi dell'infanzia, ed infine su di una scala che lo porta di fronte a due altri specchi che gli mostrano le orribili verità sulla sua vita. Il brano che presenta Baron Saturday, omonimo, è uno de miei preferiti dell'album: malato, disturbante, con un mellotron geniale ed un magnifico interludio percussivo. The Journey ben descrive il suo viaggio nei cieli di New York con la sua natura leggera, sospesa. La sezione dei ricordi della sua infanzia non è illustrata da un brano, e si passa invece agli ultimi due specchi in I See You. La psichedelica e rumoristica Well Of Destiny rappresenta la fine del viaggio, il risveglio, e la traumatica realizzazione del fatto che non può più fidarsi di nessuno, come ben illustrato nella magnifica Trust. Tutto questo porta Sorrow ad isolarsi da tutto e da tutti fino alla vecchiaia, creando un muro intorno a sé fino a diventare la persona più sola al mondo. Tutto ciò è ovviamente illustrato dalla proto-punk Old Man Going e dallo squisito quadretto acustico di Loneliest Person.
Come si può notare, ci sono molteplici punti da cui molti hanno preso ispirazione per i loro concept album. Dal viaggio onirico interiore che troviamo in Tommy e The Lamb Lies Down On Broadway, all'isolamento tramite un metaforico muro che troviamo pari pari, manco a dirlo, in The Wall. Insomma, che l'ispirazione sia riconosciuta o meno, è innegabile il fatto che questo album sia di primaria importanza per tutto ciò che verrà dopo, progressive in primis. Anche solo la decisione di unire molte tracce fra loro, senza alcuna pausa, era una novità per il 1968. E tra l'altro, a causa del lungo periodo di lavorazione (più di un anno), l'impatto alla sua uscita finì per essere forse meno importante di quanto avrebbe potuto essere, finendo per accodarsi ad un "movimento" (quello degli album concettuali o rock opera) ormai nascente. C'è da dire che si tratta di un album nato nel 1967, dove il massimo in termini di "concept" era il Sgt. Pepper's dei Beatles, con tutti i limiti e le discussioni del caso. Non si può poi non fare un plauso sia all'indubbia destrezza compositiva, sia soprattutto all'efficacissima produzione che, unita a degli arrangiamenti mai banali, rende perfettamente il senso di "trip" e di distacco dalla realtà grazie anche ad un audace uso dello stereo (in questo senso è inutile dire quanto superiore si riveli essere il mix stereo rispetto a quello mono). Interessante anche il senso, per così dire, di confusione all'ascolto, trovandosi di fronte ad un album indubbiamente figlio degli anni '60 come stile e natura, ma cosparso di idee (sia compositive che anche solo in termini di suoni) che suonano quantomai moderne, ben più di molti album dei giorni nostri (specialmente in un genere come il progressive, che in un ossimorico approccio alla propria natura, nei pochi casi in cui non guarda indietro si rivolge, banalmente, al metal, all'elettronica o al post rock).
Se proprio si dovesse trovare un difetto a questo S.F. Sorrow, si possono forse criticare i "buchi" narrativi non coperti dalle canzoni, che rendono necessaria la presenza di spiegazioni aggiuntive per fortuna comunque presenti nel libretto del CD (non so se si può dire lo stesso del vinile). Insomma ascoltando solamente l'album così com'è risulta parecchio difficile, se non impossibile, capire appieno la storia.
Vista la totale assenza di brani "da singolo" e la negatività della storia, non è difficile capire il suo flop all'uscita. Di certo si aggiunge agli album che avrebbero meritato ben altra fortuna, ad opera di una band che, anche solo per questa opera, meriterebbe decisamente più riconoscimenti ed attenzioni.
Un album che tutti dovrebbero ascoltare e studiare, un 9,5 per me.

Doveroso citare la presenza, nell'edizione in CD in mio possesso (ma presumo che sia lo stesso in tutte), di quattro brani aggiuntivi molto belli, tra cui l'interessantissimo singolo del 1967 Defecting Grey, che ben anticipa la direzione intrapresa poi nell'album che seguirà.

sabato 1 settembre 2018

Brian Wilson - Brian Wilson (1988) Recensione

Un album interessante, in parte dimenticato, ma che sa offrire diversi punti interessanti. Innanzitutto c'è da tener conto della situazione di Brian Wilson all'epoca della registrazione dell'album, che da ora in poi per comodità chiamerò BW88. Brian in quegli anni era sostanzialmente sotto il totale controllo del dottor Eugene Landy, che se da un lato ha saputo indubbiamente salvargli la vita, dall'altra ha gradualmente guadagnato sempre più spazio nella sua vita. Ogni beneficio alla salute di Brian fu quindi controbilanciato da una sempre maggiore somministrazione di farmaci per "tenerlo sotto controllo" e dall'imposizione, da parte di Landy, del suo ruolo non solo di dottore ma anche di collaboratore musicale, manager, e chi più ne ha più ne metta. E se a questo si aggiunge il suo già presente ed ingombrante controllo 24 ore su 24 della vita di Brian, si può ben capire la triste situazione di quegli anni. Non per nulla BW88 nella sua versione originale conteneva più volte il nome di Landy e di sua moglie Alaxandra Morgan nei crediti di composizione, poi prontamente eliminati nelle edizioni successive. Si sa infatti che, nonostante la presenza di altri collaboratori a dare una mano a Brian, come Andy Paley e Russ Titelman, spesso Landy imponeva sue decisioni facendo leva sulla fragilità di Brian, ricorrendo anche a ricatti. Purtroppo non ci è dato sapere esattamente a quanto ammonti il contributo di Landy nell'album finito, ma è importante comunque citare questo particolare per contestualizzare il tutto.
Musicalmente si tratta, a mio parere, di uno degli album più solidi a nome di Brian Wilson. Certamente ci sono brani più innocui ed anonimi di altri, ma volendo forse trovare un difetto più evidente credo si possa parlare della produzione. Sì, perchè ricordiamoci che siamo nel 1988, quindi comprensibilmente ci si trova davanti la fiera dei synth digitali e delle drum machine. Io personalmente non ho problemi con queste sonorità, ma purtroppo qui il tutto suona piuttosto piatto e freddo, più del normale. Basterebbe confrontarlo con album più o meno contemporanei come The Seventh One dei Toto o il di poco più vecchio Invisible Touch dei Genesis per sentire una enorme differenza in termini di colore, dinamica, profondità, calore.
Per fortuna però ci sono delle ottime canzoni a farci, in parte, sorvolare sulla resa sonora. Love And Mercy è un classico, si potrebbe quasi definire la Imagine di Brian Wilson, con tutte le differenze stilistiche e tematiche del caso ben evidenti. Discorso simile per Melt Away, altro brano veramente piacevole che non ha nulla da invidiare a Love And Mercy. Nel mezzo ci sono brani come Walkin' The Line, Baby Let Your Hair Grow Long (riferimento a Caroline No? "Where did your long hair go?") e Little Children che sembrano rimandare, sia stilisticamente che come scelte sonore, a Love You del 1977 (album sottovalutatissimo che, per certi aspetti, anticipò la New Wave). Degna di nota One For The Boys, un breve brano a cappella che è una sorta di evidente tributo ai compagni della sua vecchia band (oltre che parenti in gran parte ovviamente); ed è interessante notare che qui, come in tutti gli altri brani dell'album, tutte le voci sono di Brian Wilson. Quindi, laddove in altri lavori da solista e negli album dei Beach Boys sono varie le voci che si intrecciano nelle tipiche armonie ad opera di Wilson, fa un po' strano ascoltare molteplici parti cantate dalla stessa voce incisa più volte. Qui è lontano il fascino di Our Prayer, ma lo stile è riconoscibilissimo. There's So Many è un altro gran bel brano più complesso di quanto possa sembrare, degno di affiancarsi a certe composizioni ben più celebrate di una ventina di anni prima. Anche qui, la produzione e la scelta dei suoni penalizzano la resa facendola impallidire al confronto con le prestazioni della Wrecking Crew, ma un ascolto un po' più attento rivela comunque scelte armoniche molto interessanti ed audaci. Night Time è forse l'unico brano che non mi piace in questo album, rivelandosi al massimo leggero e piacevole, ma sfiorando pericolosamente l'irritante nei piatti ritornelli. Per fortuna c'è Let It Shine a risollevare ampiamente il tutto. Brano ad opera dell'infallibile Jeff Lynne (che si occupa anche della produzione in questo singolo brano, che non per nulla svetta sul resto e non di poco sotto questo aspetto), ha non pochi punti in comune con altre sue opere coetanee come la You Got It ceduta a Roy Orbison (con cui condivide il doppio colpo di timpani che affiora qua e là).
Questo per fortuna non è abbastanza per farla sembrare una copia di altri brani, e finisce per risultare un piccolo gioiellino pop, oltre che una delle migliori performance vocali di Brian nell'album. L'allegra e vivace Meet Me In My Dreams Tonight, perfettamente in bilico tra stile puramente "beachboysiano" e un pizzico di Spector, lascia spazio alla conclusiva Rio Grande, indubbiamente il brano più ambizioso dell'album. Qui infatti Brian sembra voler richiamare (o inseguire) il "fantasma" di Smile creando un brano di 8 minuti composto rispolverando il metodo di composizione modulare. In altri ambiti si parlerebbe di suite, ed in sostanza altro non è che un'alternanza di vari movimenti uniti fra loro. Interessante notare come i richiami a Smile siano molteplici: dall'uso del banjo, l'alternanza di atmosfere solari ed oscure, il tema dell'America e degli Indiani... I singoli movimenti hanno varia provenienza, andando dal periodo di lavorazione dell'album, alla fine degli anni '70 (la penultima Night Bloomin' Jasmin) fino addirittura a parti che citano direttamente Smile, come il coro senza parole nella terza sezione. Un brano che può causare pareri contrastanti: tra chi ne adora la complessità ed è felice di sentire Brian ritornare a composizioni un po' più complesse, e chi invece pensa che il risultato sia fin troppo "costruito" e posticcio, fatto apposta per "suonare come Smile", che, ricordiamoci, nel 1988 era ancora una misteriosa leggenda. Personalmente lo apprezzo non poco, e ritengo che soffra solo un po' nei cambi tra sezioni, che risultano un po' forzati a volte.
Consiglio vivamente la versione in CD rimasterizzato nel 2000, che tra brevi interviste e Brian e vari demo molto interessanti quando non superiori al prodotto finito, ci offre 4 brani non reperibili diversamente (He Couldn't Get This Poor Old Body To Move, Being With The One You Love, Let's Go To Heaven In My Car e Too Much Sugar), tutti piacevoli e che non avrebbero affatto sfigurato nell'album.
Non si tratta di un album perfetto, ma non si può negare che, tenendo conto della difficile situazione illustrata ad inizio articolo, il risultato è a dir poco ottimo. La produzione, come detto, influisce parecchio sull'idea che si ha di BW88, che non potrà mai essere affiancato ai suoi lavori anni '60 a causa dei suoni che lo caratterizzano. Perchè diciamocelo, i "suoni anni '80" saranno sempre confinati a quel decennio, non saranno mai "senza tempo"; cosa che invece è vera per strumenti come chitarre, batterie, pianoforti, organi, archi, fiati e via dicendo. Quindi, se non ci disturba la patina anni '80 o siamo in grado di guardare oltre non facendoci totalmente influenzare, possiamo goderci un ottimo album che, a mio parere, merita un 8.