venerdì 31 maggio 2019

Led Zeppelin - Live Anthology (10 CDs self-made bootleg)

La passione del sottoscritto per i bootleg dei Led Zeppelin (ma anche per i bootleg in generale) credo che non sia un mistero per nessuno. Ed è da un po' di tempo che, di conseguenza, ho deciso di dedicarmi alla rimasterizzazione di alcuni concerti e alla creazione di compilation, spesso basate su un singolo tour o un anno in particolare (del tipo "il meglio del tour americano del 1977" per intenderci). Ovviamente il tutto strettamente per uso personale, in quanto non si tratta di prodotti di alta qualità che credo interessino a qualcuno, visto anche il brulicare di simili lavori da parte di gente ben più in gamba del qui presente.
Ultimamente però ho deciso di realizzare qualcosa di un po' più ambizioso. L'idea mi è venuta ascoltando l'ottimo Chronological Live Album presente nel canale Led Zeppelin Boots su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=LD4PlbJqHeg&feature=youtu.be.
In sostanza si tratta, appunto, di un album live in ordine cronologico, con una immaginaria scaletta lunga circa 3 ore e 50 minuti (quanto alcuni dei loro concerti più lunghi), e composta da brani che vanno dal 1969 al 1980, cercando di usarne versioni suonate in tour contemporanei o di poco successivi alla pubblicazione di quegli stessi pezzi in album ufficiali. Quindi, per intenderci, se un pezzo è da Led Zeppelin 1, quindi del 1969, si è cercato di usare una versione del 1969, possibilmente con il miglior bilanciamento performance/qualità del suono possibile.
Questo già interessantissimo lavoro mi ha spinto a cercare di realizzare qualcosa di un po' più ambizioso. Ho voluto estendere questo stesso concetto a tutti i brani suonati dal vivo dalla band, realizzando quindi una sorta di "best of".
Ovviamente è impossibile includere tutte le cover che trovavano posto specialmente nei primissimi anni sia come brani a sé stanti che come parte di medley, ed in questi specifici casi ho deciso di includere solamente gli episodi più interessanti, ma lo vedremo nel dettaglio più avanti.
Appena ho iniziato a raccogliere il materiale necessario dai più svariati bootleg, non ho potuto fare a meno di accorgermi della notevole mole di contenuto, e quanto sarebbe stato caotico organizzare il tutto in un'unica, chilometrica tracklist.
Ho deciso dunque di suddividere il tutto in volumi, o meglio in CD. Ovviamente sono CD ideali, in quanto non ho intenzione di stampare copie fisiche, ma ciò mi è servito per dare dei limiti di durata ai singoli volumi, che di conseguenza oscillano tra i 40 minuti all'ora abbondante, avvicinandosi ad album veri e propri in questo senso. E come riflesso di ciò ho anche cercato di rendere ogni "volume" scorrevole ed interessante all'ascolto, cercando di creare delle piccole tracklist capaci di stare in piedi da sole.
Molte delle scelte dei singoli brani sono le stesse del Chronological Live Album che ho citato poco sopra, che quindi è stato di vitale importanza nel dare la spinta iniziale, ma in alcuni casi ho deciso di utilizzare diverse fonti audio di quelle stesse performance, a mio parere più piacevoli all'ascolto.
Di seguito illustrerò nel dettaglio il contenuto, soffermandomi sul motivo di alcune scelte, ma in generale si può semplificare dicendo che dal primo all'ottavo CD abbiamo una selezione di canzoni in ordine cronologico dal 1969 al 1980, e negli ultimi due ho voluto inserire tre brani già presenti in altri CD ma che tanto si sono sviluppati negli anni fino a cambiare totalmente faccia (Dazed And Confused, No Quarter e Whole Lotta Love), insieme ad una manciata di cover interessanti come pura curiosità.

CD 1 - 1969 Part 1: 50'57"


 1 - Train Kept a Rollin' (Lewisville 31.8.69): l'inizio del Chronological Live Album era già quanto di più vicino alla perfezione si potesse avere, e non potevo certo trovare di meglio. La classica apertura dei primissimi concerti con questo brano di Tiny Bradshaw già affrontato dagli Yardbirds era veramente efficace, così come lo è in questa versione in buona qualità dal Texas International Pop Festival, introdotto dall'iconico "ladies and gentleman, the Led Zeppelin!".

2 - I Can't Quit You Baby (Lewisville 31.8.69): ottima performance, ed essendo un brano in medley con il precedente era d'obbligo continuare con la stessa registrazione.

3 - Communication Breakdown (San Francisco 27.4.69): la prima di una lunga serie di brani tratti da questo leggendario concerto al Fillmore, interessante per la sua buona qualità, la lunga scaletta piena di chicche e l'incredibile performance da parte di tutti, e questa Communication Brakdown non fa eccezione.

4 - As Long As I Have You (San Francisco 27.4.69) : altro estratto dal Fillmore, cover molto estesa del brano di Bob Elgin e Jerry Ragovoy, e perfetto esempio delle primordiali e totalmente istintive improvvisazioni di questa primissima fase della band.

5 - Babe I'm Gonna Leave You (San Francisco 27.4.69): poco da dire in questo caso; se si esclude la versione alla TV danese di Marzo, questa è l'unica versione live di buona qualità audio di questo magnifico brano. E che versione.

6 - You Shook Me (Lewisville 31.8.69): si ritorna dove si è iniziato, con un'ottima versione di questo classico blues. Sono varie le versioni disponibili di questo brano, ma alla fine la scelta è ricaduta su questa, senza particolari motivi.

CD 2 - 1969 Part 2: 52'26"


1 - Killing Floor (San Francisco 27.4.69): rara registrazione in buona qualità della cover del brano di Howlin' Wolf, che poi in sostanza altro non è che The Lemon Song con nome diverso.

2 - Dazed And Confused (Toronto 18.8.69): qui purtroppo si cala un po' in termini di qualità audio, ed infatti avrei voluto trovare un'alternativa a quella che era una scelta già effettuata per il Chronological Live Album. Dopo un ascolto attento però era palese che una performance così devastante non poteva non trovare posto qui, anche a costo di un audio più confuso.

3 - How Many More Times (San Francisco 27.4.69): prima di diventare un contenitore di cover ad inizio 1970 (ruolo poi passato a Whole Lotta Love), questo brano era l'ennesimo contenitore di improvvisazioni. Questa versione in particolare supera i 20 minuti e contiene alcune delle più lucide esibizioni di istintività della band, che sfodera riff dopo riff totalmente dal nulla con una impressionante maestria.

4 - For Yor Love (LA 5.1.69): rarissima versione del brano degli Yardbirds che ben esemplifica la differenza di suono tra le due band. L'audio è un po' confuso e cavernoso, ma ne vale la pena.

CD 3 - 1970 Part 1 41'06"

1 - We're Gonna Groove (Vancouver 9.3.70): Breve puntatina a Vancouver per i primi due brani del 1970, concerto piuttosto famoso con il titolo Pure Blues e di buona qualità audio. Il brano in questione è ben noto a chi ha visto il video alla Royal Albert Hall di quell'anno (versione presente anche in Coda), e si tratta di una cover di Ben E. King usata per aprire i concerti dei primi mesi del 1970. Essendo in medley con I Can't Quit You Baby, ed essendo essa già presente nel primo volume, l'audio si interrompe in modo piuttosto brusco sul finale.

2 - What Is And What Should Never Be (Vancouver 9.3.70): un buona performance di questo brano da LZ II. Avrei potuto prenderlo da qualunque altro concerto di questo periodo, ma alla fine mi ha convinto questa versione.

3 - White Summer - Black Mountain Side (Montreux 7.3.70): Facciamo un salto ad un paio di giorni prima a Montreux, un ottimo concerto completo tra soundboard e registrazione del pubblico. In particolare qui abbiamo una bellissima versione del classico in (quasi) solitaria di Jimmy Page.

4 - Moby Dick (Montreux 7.3.70): non sono mai stato un grande fan degli assoli di batteria, ma l'inclusione di una qualche versione di Moby Dick era d'obbligo. Questa versione è presente anche nel Chronological Live Album, e l'ho tenuta sia per la buona qualità, sia per l'accettabile e non eccessiva lunghezza.

5 - Whole Lotta Love (Montreux 7.3.70): quando ancora non era una cornice per medley di cover, si tratta di una versione interessante anche per la peculiare decisione di affidare all'organo Hammond la sezione rumoristica centrale, si suppone per l'assenza di un Theremin.

CD 4 - 1970 Part 2: 46'35"


1 - Immigrant Song (LA 4.9.70): il famoso Live On Blueberry Hill è la fonte che occupa l'intero secondo volume dedicato al 1970. L'omonima canzone non è presente qui ma la troveremo nel primo volume bonus alla fine. Molte delle canzoni suonate a questo concerto si contendono la palma di miglior versione, e questa Immigrant Song di certo non delude.

2 - Heartbreaker (LA 4.9.70): come di consueto in medley con Immigrant Song, nonostante un inciampo di Page all'inizio è un'altra ottima performance.

3 - Thank You (LA 4.9.70): anche qui la scelta sarebbe potuta ricadere su numerose altre versioni, comprese quelle molto particolari con il Mellotron tra il 1972 ed il 1973, ma dovendone scegliere una più indietro possibile nel tempo, questa è più che appropriata.

4 - Since I've Been Loving You (LA 4.9.70): a parere di chi scrive la miglior versione in assoluto di questo brano. Certamente negli anni guadagnerà in maturità, e quando rientrerà in scaletta nel '77 prenderà molto da Tea For One nel modo in cui verrà suonata, ma la lancinante lucidità di questa versione è ineguagliabile.

5 - Bring It On Home (LA 4.9.70): nonostante la versione del 1972 in How The West Was Won sia quanto di più vicino alla perfezione esista, qui ci avviciniamo molto.

6 - That's The Way (LA 4.9.70): difficile trovare brutte performance di questo brano acustico, anche più in là fino al 1975, ma qui siamo su livelli decisamente alti.

7 - Bron Y Aur (LA 4.9.70): la sezione acustica del concerto si conclude con una performance più unica che rara di Page alle prese con questo breve brano acustico (da non confondere con Bron-Y-Aur-Stomp) indubbiamente proveniente dalle sessions dell'allora imminente LZ III, ma che vedrà la luce solamente in Physical Graffiti 5 anni dopo.

8 - Out On The Tiles (LA 4.9.70): brano suonato pochissime volte dal vivo, pare solamente un paio. Il riff verrà poi ripreso dapprima in Black Dog e poi in Over The Top, la Moby Dick del 1977, ma qui il brano è suonato per intero, e anche molto bene.

P.S. So benissimo che non includere i medley di Whole Lotta Love e Communication Breakdown di questo concerto è un'eresia, specialmente per la presenza di Good Times Bad Times nella seconda, ma la loro inclusione va contro i principi alla base di questa Anthology, e per ascoltare una versione di Good Times Bad Times vi rimando al decimo CD, all'interno della Whole Lotta Love del 23.9.71 a Tokyo.

CD 5 - 1971/72: 54'52"


1 - Black Dog (Tokyo 23.9.71): altra scelta già presente nel Chronological Live Album, nonostante la qualità audio della data del 23 di questo spettacolare tour giapponese (la più famosa è quella del 29) buona ma non ottima, esso contiene performance di altissimo livello, come dimostrato dal pezzo in questione.

2 - Celebration Day (Osaka 29.9.71): le versioni del 1971 di Celebration Day sono tutte a dir poco spettacolari, nonostante le pur ottime versioni del 1973. La decisione è ricaduta su questa in particolare principalmente perchè è una delle poche con il peculiare intro "a singhiozzo" di Page, e poi per la qualità audio, nonostante la voce di Plant a basso volume.

3 - Over The Hills And Far Away (LA 25.6.72): unica puntatina nel 1972 per via dei pochi brani nuovi aggiunti in scaletta in quell'anno. Certamente ci furono anche Dancing Days, Bron Y Aur Stomp e The Ocean, ma un po' per carenza di materiale del 1973, un po' per l'effettiva migliore resa di alcuni di questi brani anche solo nei primi mesi di quell'anno, ho preferito saltare il '72. Over The Hills And Far Away è l'unica eccezione, presente anche nel Chronological Live Album, in quanto seppur strumentalmente il suo apice lo raggiunga tra il '73 ed il '75, solamente nel 1972 si possono trovare versioni cantate con la melodia originale, prima della decisione di Plant di abbassarla per via dei suoi problemi alla voce. Tra l'altro questa versione è tratta da uno dei due concerti usati per compilare How The West Was Won.

4 - Going To California (Osaka 29.9.71): curiosa versione di questo classico estesa a ben 9 minuti, con lunghe sezioni strumentali atmosferiche raramente riproposte in altre occasioni.

5 - Friends (Osaka 29.9.71): poco da dire qui, in quanto pare sia l'unica volta in cui i Led Zeppelin suonarono questo brano da LZ III. L'ottima qualità audio poi non può che essere un valore aggiunto.

6 - Gallows Pole (Copenhagen 3.5.71): molto interessante questo concerto del breve tour europeo della primavera del 71, in quanto raro caso in cui si può ammirare una scaletta piuttosto inusuale. Questo brano ne è il primo esempio, riarrangiato e proposto in veste "elettrica" decisamente più spinta che su disco. L'audio è quello che è, ma ci si fa ben presto l'abitudine.

7 - Four Sticks (Copenhagen 3.5.71): altra presenza inusuale dal concerto di Copenhagen, oltretutto parecchi mesi prima dell'uscita di LZ IV. Gran bella versione, tra l'altro con un Plant impressionante che canta come in studio. Nello stesso concerto improvvisarono anche Misty Mountain Hop, ma visto il risultato non certo esaltante per via di vari errori, ho pensato di includerla nel prossimo volume in una versione del 1973.

8 - Stairway To Heaven (Tokyo 23.9.71): fa sempre strano ascoltare Stairway in una versione del 1971, quando ancora nessuno la conosceva ed era quindi accolta da un timido applauso dopo l'annuncio. Se confrontata con la versione delle BBC Sessions di qualche mese prima già si nota una maggior convinzione, ed il che rende questa versione migliore sotto vari aspetti.

9 - Rock And Roll (Osaka 29.9.71): pur non avendo la solidità di molte versioni degli anni successivi, sentire Rock And Roll cantata come in studio fa sempre un certo effetto, oltretutto in una qualità audio a dir poco ottima.

CD 6 - 1973: 44'39"


1 - The Song Remains The Same (Seattle 17.7.73): che il concerto di Seattle sia uno dei migliori del tour americano è fuori da ogni dubbio, ed è quindi ovvio che qualche estratto arrivi da lì. Nel Chronological Live Album è stata usata una registrazione del pubblico, mentre io ho preferito ripiegare sul soundboard che, nonostante il volume del basso eccessivamente alto ed un comprensibile calo del senso di immersione ed atmosfera, regala una chiarezza decisamente maggiore. Questa versione di The Song Remains The Same ha ben poco da invidiare a quella pubblicata ufficialmente nell'omonimo album live.

2 - The Rain Song (Seattle 17.7.73): discorso identico a quello per la canzone precedente, ed in quanto si tratta di brani suonati senza pausa, comprensibilmente si rimane anche qui a Seattle.

3 - Misty Mountain Hop (Seattle 17.7.73): ultimo brano dal concerto di Seattle. Qui avrei potuto scegliere molteplici versioni, ma la potenza di questa in particolare mi ha colpito. Ovviamente essendo in medley con Since I've Been Loving You, ho dovuto tagliare il finale in modo piuttosto brusco, in quanto il suddetto brano è già presente altrove.

4 - Dancing Days (Munich 17.3.73): ci voleva almeno un brano a rappresentare l'ottimo tour europeo di Marzo '73, nonostante esso sia ricordato principalmente per le incredibili versioni di Dazed And Confused. Il suono è un po' confuso, ma la performance è ottima.

5 - Bron Y Aur Stomp (Stoke 15.1.73): non è stato facile trovare una versione di questo brano in buona qualità audio prima del 1975. Questa onesta versione serve anche a rappresentare il curioso tour britannico a cavallo tra '72 e '73.

6 - No Quarter (Mobile 13.5.73): brano già presente nel Chronological Live Album. Nonostante negli anni raggiungerà poi lunghezze importanti (vi rimando al CD 10 per questo), l'atmosfera di queste prime versioni dal vivo decisamente più focalizzate, non distanti da quella poi finita in The Song Remains The Same, è decisamente interessante.

7 - The Ocean (San Francisco 2.6.73): dal famoso concerto allo stadio Kezar alla luce del giorno da cui è tratta la foto di Plant con la colomba, una bella e potente versione di un brano di solito suonato sporadicamente come bis finale.

CD 7 - 1975: 54'14"


1 - Sick Again (Seattle 21.3.75): ci deve essere qualcosa nell'aria di Seattle, dato che ad ogni tour i concerti effettuati lì sono tra i migliori in assoluto (escludendo il 1977). Sick Again era di solito suonata senza stacchi dopo l'apertura di Rock And Roll, e nonostante sia difficile trovare una versione perfetta, questa l'ho trovata molto buona.

2 - In My Time Of Dying (Baton Rouge 28.2.75): scelta già effettuta nel Chronological Live Album ma su cui non possono esserci dubbi. Nonostante la voce di Plant non sia al massimo, come in gran parte del 1975, l'atmosfera e la rabbiosa carica con cui affrontano questo chilometrico blues è qualcosa che raramente sono riusciti ad eguagliare.

3 - Tangerine (Earls Court 24.5.75): brano già suonato live nel 1971 e 72 in acustico, venne curiosamente ripescato nella serie di concerti ad Earls Court nel 1975. Il motivo della scelta di questa versione è nel bell'arrangiamento elettrico con tanto di assolo in slide di Page. Una gran bella versione che perde solamente i cori, per qualche motivo non presenti nella registrazione (nonostante sia Page che Bonham stessero effettivamente cantando).

4 - When The Levee Breaks (Brussels 12.1.75): le scalette di inizio '75 erano molto particolari, con l'aggiunta di questo classico da LZ 4, la novità The Wanton Song ed il ripescaggio di How Many More Times al posto di Dazed And Confused. La frattura al dito di Page avrà sicuramente influito su queste scelte. Questi brani verranno portati avanti per poche date ad inizio tour, prima di essere definitivamente cestinati. E nonostante molti avrebbero puntato su una qualche versione delle date di Chicago di poco successive a quella in questione, la qualità audio e la generale buona performance mi ha fatto propendere verso questa primissima data "warm up". Certamente siamo di fronte ad un brano che, nonostante il potenziale, non ha mai reso al massimo live; ma si tratta comunque di un ascolto interessantissimo.

5 - The Wanton Song (Brussels 12.1.75): rimaniamo nello stesso concerto per un altro brano suonato pochissime volte. Il motivo principale di questa mia scelta è semplicemente la voce di Plant, quanto di più vicino alla versione in studio in questa fase "pre-influenza".

6 - Kashmir (Baton Rouge 28.2.75): potentissima versione di questo brano, nonostante nel '75 Plant ometta di cantare le ultimissime parti del crescendo, cosa che farà solamente dal 1977.

7 - Trampled Underfoot (Earls Court 24.5.75): nonostante parte di questa registrazione sia finita nel DVD ufficiale del 2003 e qui si senta pochissimo il clavinet di Jones, rimane senza dubbio una delle migliori versioni del 1975, con uno spettacolare assolo di Page e Plant che cita Gallows Pole verso la fine.

8 - The Crunge (Seattle 21.5.75): brano solitamente improvvisato all'interno di Whole Lotta Love, non potendo includere l'intero brano in questione si tratta di un estratto in cui è presente solamente la sezione di The Crunge. Si sente che c'è molta istintività, ed infatti rimane in sostanza un'improvvisazione, ma non essendoci versioni suonate per intero più seriamente, la scelta è ricaduta su questa (nonostante non sia l'unica di questo tour).

CD 8 - 1977/80: 57'08"


1 - Nobody's Fault But Mine (LA 21.6.77): dal classico concerto famoso con il nome "Listen To This Eddie, primo di una serie di date losangeline, molte registrate da Mike Millard, una potente versione di questo bel brano da Presence.

2 - Ten Years Gone (23.6.77): salto in avanti di un paio di giorni per una versione molto lucida ed intensa di questo brano mai abbastanza apprezzato. Purtroppo Page nel 1977 ha perso molta della sua destrezza, ed è quindi difficile trovare versioni solide di questo o di quel brano, ma qui c'è veramente poco da dire a riguardo. Ottima dimostrazione della Telecaster con il b-bender tra le altre cose.

3 - Black Country Woman (LA 21.6.77): di solito suonato parzialmente come introduzione a Bron y Aur Stomp, qui per forza di cose si interrompe bruscamente sul finale. Ovviamente è un peccato non averne versioni suonate per intero, vista soprattutto l'ottima resa.

4 - The Battle Of Evermore (LA 27.6.77): senza dubbio uno dei ripescaggi più interessanti effettuati nel controverso tour del 1977. Nonostante sia affossata dalla decisione di relegare John Paul Jones nel ruolo di voce di supporto al posto di Sandy Denny, vanta comunque un bell'arrangiamento con anche Bohnam al tamburello. Ottima performance di Plant.

5 - Achilles Last Stand (23.6.77): senza dubbio uno dei brani più difficili da riprodurre dal vivo con solamente tre strumenti ed una voce. Page è forse colui che ne risente più di tutti, costretto a selezionare con cura le parti da suonare lasciandone fuori molte altre, e uscendone sempre un po' incerto e con varie sbavature. Oltretutto nel '77 c'era questa costante tendenza a suonare questo brano a velocità assurde, che non aiutava. Nel '79 e nell'80 questa tendenza sparirà, pur al costo della perdita di molta della carica furiosa presente in questo tour. Questa versione in particolare è tra le più solide insieme a quella del 21.6 e a quelle del 30.5 a Landover e del 22.5 a Fort Worth.

6 - Hot Dog (Knebworth 4.8.79): salto in avanti di due anni ai leggendari e altalenanti concerti di Knebworth con un unico estratto. Non certo uno dei brani più memorabili della carriera dei Led Zeppelin, ma una onesta performance dal sapore country.

7 - In The Evening (Copenhagen 24.7.79): piccolissimo passo indietro al secondo dei due "warm up concerts" in vista di Knebworth per un'ottima performance di uno dei brani migliori di In Through The Out Door. Occasione per Page di divertirsi con la Stratocaster.

8 - All My Love (Frankfurt 30.6.80): breve puntatina al breve ed incostante ultimo tour europeo del 1980 con una buona performance di questo bel brano. Page fa il compitino, ma Jones sfodera la sua solita impeccabile solidità. Si sente però che non sono più i Led Zeppelin anche solo di 3 anni prima.

9 - Money (Frankfurt 30.6.80): pareva brutto chiudere con un solo brano del 1980, ed ecco quindi, sempre da Francoforte, una deflagrante cover di Money di Barrett Strong. Credo non ci sia modo più appropriato di chiudere questa sezione cronologica dell'Anthology che con dei Led Zeppelin dal sapore squisitamente punk.

CD 9 - Bonus Disk 1: 70'27"


1 - Dazed And Confused (LA 27.3.75): ho pensato che fosse doveroso dare una rappresentanza a quei brani che negli anni hanno più cambiato la loro forma con improvvisazioni e medley vari, e la prima non poteva non essere Dazed And Confused. Nonostante sia fuori da ogni dubbio il fatto che strumentalmente il picco lo si sia raggiunto nel 1973 (in date come Vienna e Essen a Marzo o Seattle a Luglio), volevo trovare una versione veramente diversa, abbastanza da giustificarne l'inclusione. Ed è per questo che ho pensato al 1975, con la scelta ridotta tra la mia preferita in assoluto, Earls Court 24.5, la seconda in classifica, Seattle 21.3, e quella che ho poi scelto. Anche solo per i suoi ben 45 minuti di lunghezza, la comunque buona qualità audio (almeno per il 98%, se si esclude un taglio con fonte audio alterativa), la rarità di sentire Plant improvvisare il testo di Old Man dei Love nella sezione "San Francisco" o "Woodstock". Insomma forse non la migliore in assoluto, ma un perfetto esempio del percorso sonoro fatto in sei anni dalla versione presente nel secondo CD.

2 - It'll Be Me (Forth Worth 22.5.77): dopo cotanta megalomania credo sia appropriato alleggerire un po'. Ed è per questo che ho riservato al CD successivo le altre due tracce più lunghe e ho deciso di includere una manciata di interessanti cover, precedentemente escluse, nello spazio rimanente in questo volume. La prima è una bella cover del classico di Jerry Lee Lewis suonata come bis a Fort Worth nel 1977 con Mick Ralphs dei Mott The Hoople come ospite.

3 - Stand By Me (Osaka 9.10.72): un classico, poco da aggiungere. Si sente che si tratta di una versione improvvisata, ma non ha importanza. La registrazione è del pubblico, quindi non di massima qualità, ma è l'unica esistente.

4 - Only The Lonely (Seattle 19.6.72): di qualità audio ancora peggiore, ma un ascolto irrinunciabile e divertente. Siamo all'interno del consueto medley di Whole Lotta Love, e Plant decide di iniziare a cantare questo pezzo di Roy Orbison, con gli altri che si arrabattano cercando di seguirlo, tra cui anche un esilarante Bonham ai cori.

5 - Blueberry Hill (LA 4.9.70): il concerto in questione l'abbiamo già incontrato precedentemente, e siccome questa cover, che gli dà il titolo, non ha trovato posto là... Si tratta di un altro caso, insieme a As Long As I Have You, di cover realizzata talmente bene che ci si chiede come mai non sia mai stata pubblicata ufficialmente.

6 - Sitting And Thinking (San Francisco 27.4.69): torniamo al già ampiamente ascoltato concerto al Fillmore del 27 Aprile 69 con uno standard blues molto simile a I Can't Quit You Baby (motivo per cui non l'ho aggiunto precedentemente), ma che contiene alcuni impressionanti passaggi di Page che ne giustificano da soli la presenza.

CD 10 - Bonus Disk 2: 71'04"


1 - No Quarter (LA 23.6.77): un altro brano che negli anni è cambiato molto e si è ampliato a dismisura, diventando occasione per John Paul Jones di cimentarsi in lunghi assoli di piano tra il classico, il jazz ed il boogie. Indubbiamente nel '77 si è raggiunto l'apice in questo senso, con versioni comprendenti anche Nutrocker, e lunghe jam in cui anche Page e Bonham prendevano strade ogni volta diverse. Questa versione è senza dubbio una delle più riuscite, e la sua mezz'ora di durata scorre via che è un piacere.

2 - Whole Lotta Love (Tokyo 23.9.71): brano conclusivo scelto a rappresentare i sempre divertenti medley che negli anni hanno trovato spazio all'interno di esso. Qui veramente c'è l'imbarazzo della scelta, e praticamente qualunque versione tra la seconda metà del 1970 ed il 1973 è degna di interesse. La scelta è ricaduta su questa in particolare in quanto probabilmente una delle versioni più lunghe: siamo sui 38 minuti. Al suo interno troviamo Let That Boy Boogie, Hello Mary Lou, Mess Of Blues, I'm A Man, Tobacco Road, Good Times Bad Times, How Many More Times e You Shook Me. La qualità audio non sarà il massimo, ma reputo il tutto discretamente ascoltabile.

Ed è tutto. Ci sono brani che non ho incluso (escludendo le già citate cover) tra cui Night Flight, The Rover e Carouselambra, tutte suonate solamente nelle prove o nei soundcheck e mai portate in concerto (The Rover ha trovato poi posto come breve introduzione a Sick Again nel '77, ma essendo un breve frammento strumentale ed avendo già incluso Sick Again nel 1975, non aveva senso includerla).
Aggiungo che chiunque sia interessato ad avere questo bootleg (che ripeto, è fatto molto "alla buona") me lo può far sapere commentando qui sotto o scrivendomi sulla pagina Facebook che trovate a lato, ed io lo renderò disponibile per il download in mp3 (sì, lo so che tutti vogliono il flac, ma con l'internet che mi ritrovo ci vorrebbero settimane per caricarlo). Il mio consiglio però è, se siete appassionati quanto il sottoscritto, quello di provare voi stessi a creare qualcosa di simile.
Per trovare i singoli bootleg consiglio di fare un giro su:
http://longliveledzeppelin.blogspot.com/ o http://starship.jpn.ph/zeppelin/beauty/

martedì 28 maggio 2019

Toto - Old Is New (2019) Recensione

Una strana uscita questa dei Toto, la prima dopo l'ottimo XIV del 2015. Lo scorso anno disponibile solamente come parte del cofanetto All In comprendente tutto il catalogo Sony rimasterizzato (fino a Mindfields compreso per intenderci) più qualche bonus live, e quest'anno finalmente parte dello stesso cofanetto in CD. Inutile dire che la speranza è quella di poterlo vedere come album a sé stante prima o poi, in quanto meritevole di un'attenzione che non può guadagnarsi finché sarà solo parte di un boxset che neanche gran parte dei fan più accaniti comprerebbero, sia per il prezzo che per gli album al suo interno.
Curioso anche il contenuto che caratterizza questo Old Is New, il cui titolo già ne spiega la natura: sono dieci canzoni di varia provenienza, sia nuove che vecchie. E quelle "vecchie" altro non sono che demo all'epoca incompiuti, ultimati poi appositamente per l'album in questione. Ed è proprio in queste tracce che si ha la fortuna di ascoltare la riconoscibilissima sezione ritmica formata dai compianti fratelli Porcaro, Mike e Jeff, in quanto brani registrati nel pieno degli anni '80.
Nonostante la varia provenienza dei brani in questione, l'album mantiene una certa coerenza a livello sonoro, e può sicuramente vantare una produzione ed un mastering immensamente migliori se confrontati con quel pastrocchio che fu fatto in XIV.
Alcuni brani sono già noti in quanto parte della compilation 40 Tours Around The Sun, ed è il caso della bellissima Alone, che non avrebbe sfigurato in XIV, la più complessa e corale Spanish Sea, con una sezione che strizza l'occhio a certi arrangiamenti di Brian Wilson, oltre che uno dei brani con Jeff e Mike, e la più spinta Struck By Lightning, uno dei loro pezzi più pesanti dai tempi di Falling In Between. Indubbiamente questi tre brani sono stati scelti per la compilation in quanto i più solidi e "forti" dell'album, ma è anche vero che almeno altrettanti altri pezzi hanno ben poco da invidiar loro.
A cominciare da Devil's Tower, altro scarto d'epoca con i fratelli Porcaro presenti, che sembra guardare al magnifico Isolation e combina con maestria riff complessi e melodie memorabili come solo i Toto sanno fare. Discorso simile per l'altrettanto ottima Fearful Heart, seppur più semplice e decisamente più sbilanciata verso lo stile di Joseph Williams, così come Chelsea, primo e non unico episodio di ispirazione Beatlesiana in uno dei pezzi più riusciti dell'intero album. Nel mezzo troviamo l'immancabile ballata dai toni acustici affidata alla voce di Steve Lukather, In A Little While, e l'ennesimo episodio solista di Steve Porcaro in Chase The Rain, molto tipica del suo stile pacato e pieno di incroci vocali. Non manca poi il contributo di David Paich in Oh Why, altro sublime brano spiccatamente Beatlesiano con anche un occhio verso certe cose degli ELO, che porta l'album ad essere tra i più eterogenei dell'intera discografia dei Toto.
E fino a qui avremmo per le mani un piccolo, seppur breve, capolavoro, indubbiamente in grado di tenere il passo con il suo ottimo predecessore. Arrangiamenti variegati, ottimo equilibrio tra riff più sporchi, melodie, armonie vocali, interventi di synth centellinati con maestria... Ma manca una canzone. E qui, a parere strettamente personale, si cade in basso come non mai nella carriera di questa band.
We'll Keep On Running è una collaborazione con What So Not, nome sotto cui si cela un progetto del produttore australiano Christopher John Emerson, ed altro non è che un... ahem... aborto elettronico. Sapete quei bei suoni elettronici freddissimi che tanto hanno caratterizzato generi tipo la dubstep? Ecco, fateci cantare sopra Joseph Williams e Steve Lukather ed il gioco è fatto. Indubbiamente da qualche parte tra i bassi inutilmente assordanti del kick ed i bordoni di synth che non li trovi neanche in friggitoria si nasconde una canzone carina, ma io non riesco a sentirla.
Mi chiedo il perchè dell'inclusione di questa inutile "canzone", e personalmente avrei potuto accontentarmi di un album più breve o anche della presenza dell'ottima cover di Hash Pipe dei Weezer, lì si che sono veramente i Toto. Ma no, dobbiamo immergerci tra luci stroboscopiche, laser, e quella infinita voglia di essere gggiovani.
Ed è un peccato, perchè il resto è di altissima qualità, e può tranquillamente stare insieme alle loro cose migliori. Consigliatissimo ai fan, almeno fino alla penultima canzone.

sabato 25 maggio 2019

Roy Wood - On The Road Again (1979) Recensione

Terzo album solista di Roy Wood, oltre che suo penultimo in assoluto, uscito dopo le svariate parentesi con i Wizzard e la Wizzo Band, tra esperimenti riusciti, falliti e pubblicati decenni dopo (Main Street).
On The Road Again è una sorta di ritorno alla "normalità" per Wood, per quanto normale possa essere la sua musica, essendo sostanzialmente un album pop con un occhio al passato e rare parentesi immerse nell'allora presente.
Dieci canzoni piacevoli, che oscillano dallo spectoriano a timidi tentativi disco più o meno riusciti, sempre con la consueta maestria di Wood come polistrumentista, stavolta affiancato da vari musicisti ospiti tra cui spicca John Bonham alla batteria due pezzi.
Fin dalla title track iniziale si nota come Wood sembri cercare di guadagnarsi una sorta di hit, combinando cori alla Beach Boys, arrangiamenti relativamente semplici con qualche tocco interessante qua e là ed una produzione tutto sommato pulita e al passo con i tempi, specialmente se confrontata con altri suoi lavori precedenti.
Wings Over The Sea continua mantenendo lo stesso approccio e confermandosi un altro pezzo di riuscitissimo pop, così come la più vivace Keep Your Hands On The Wheel (uno dei rari casi in cui le strofe risultano più riuscite del ritornello). Queste ultime due vantano il già citato Bonham alla batteria, e specialmente in quest'ultima riesce ad avere un notevole peso nella resa con il suo stile inconfondibile sempre in equilibrio tra tocco pachidermico e finezze derivanti dal jazz.
Colourful Lady è uno strano pezzo che guarda alla disco ed al funk, tra l'altro con particolari armonie che sembrano arrivare addirittura dal progressive canterburiano. Curiosa la presenza di tale Pete Mackie alla voce solista in gran parte del pezzo. Begli assoli ed un brano molto curioso, che però sembra non riuscire totalmente nel suo intento.
Il classico Wood rock and roll ritorna prepotentemente in Road Rocket, salvo poi cercare di emulare gli ELO di Lynne della seconda metà degli anni '70 nella bella Backtown Sinner, pur con gli onnipresenti cori alla Beach Boys.
Jimmy Lad invece è forse una delle parentesi più interessanti e riuscite dell'album, che grazie ad un divertente e complesso arrangiamento che sfodera flauti di vario tipo, cornamusa, classici archi ferruginosi e accento finto scozzese si dimostra perfettamente in grado di stare al fianco delle geniali opere di Wood della prima metà degli anni '70.
Dancin' At The Rainbow's End guarda di nuovo verso la disco, anche se stavolta con fare più melodico, e Another Night ci riporta quasi ai tempi dei Move di Fire Brigade. Way Beyond The Rain congeda l'album in modo più che dignitoso, trattandosi di un bellissimo brano lento e melodico tipico dello stile di Wood fin dai tempi della magnifica Whisper In The Night degli ELO o Wear A Fast Gun dei Wizzard. Un magnifico pezzo che dimostra forse per l'ultima volta il genio di Roy Wood, nonostante l'indifferenza pressoché totale del pubblico.
Solo nel 1987 arriverà un successore, Starting Up, che sarà il suo ultimo album in assoluto, e dimostra palesemente quanto quel tocco geniale se ne fosse ormai andato quasi del tutto.
Ed è curioso osservare come uno dei più originali e prolifici compositori e musicisti degli anni '60 e '70 ad un certo punto abbia totalmente smesso di fare musica e sia ignorato da tantissima gente, tolte Blackberry Way e I Wish It Could Be Christmas Everyday, entrambe tra l'altro note con il nome della band di turno e non con quello di Wood.
On The Road Again è lontano dall'essere il suo miglior lavoro, ma si tratta comunque di un onesto e piacevole album con qualche parentesi interessante; una descrizione questa che ha smesso di essere associata al pop ormai da qualche decennio, quindi per gli standard odierni lo si può considerare un lusso.

domenica 19 maggio 2019

The Move - Message From The Country (1971) Recensione

Quarto ed ultimo album dei Move, spesso considerato come un obbligo contrattuale prima di potersi dedicare all'Electric Light Orchestra, si rivela di fatto essere una faccia della medaglia di cui l'esordio degli ELO ne è l'altra. I due album furono infatti concepiti e registrati praticamente in contemporanea, cercando poi di suddividere il materiale riservandone le parti più "sperimentali" e più cariche di archi per gli ELO, e raccogliendo tutto il resto in Message From The Country. Di conseguenza quest'ultimo risulta essere un lavoro piuttosto eterogeneo con però molti punti in comune con suo "fratello", che esce sì sotto un nome di band diverso, ma di fatto il personale coinvolto è identico. Quello che accomuna questi due lavori è lo spazio lasciato alla relativamente new entry Jeff Lynne, con Roy Wood, fino ad allora leader indiscusso dei Move, che fa un passo indietro dedicandosi alla scrittura di solamente circa metà del materiale. Il terzo membro ufficiale dei Move di quei tempi, il batterista Bev Bevan (anche lui poi negli ELO) è a sua volta presente con una composizione e si prodiga anche in una rara performance vocale in un brano di Wood! Insomma, nonostante Message non sia considerato come l'album migliore dei Move, vista anche la situazione in cui fu creato, è sicuramente uno dei lavori più "di gruppo" mai pubblicati da loro. Ed il materiale lo riflette, sia grazie alla già citata eterogeneità, sia proprio per la forte presenza di ogni membro senza che nessuno prevarichi del tutto sugli altri (nonostante sia l'album che piace di meno a Bevan).

Già a partire dalla title track in apertura, opera di Lynne, viene messo in primissimo piano il suono opaco, caldo, sporco e l'approccio corale che poi Wood si porterà dietro nei suoi Wizzard anni dopo. Curiosamente la batteria di Bevan è messa molto indietro nel mix per tutto l'album (e questo può spiegare il suo punto di vista sull'album), con addirittura il basso decisamente più in primo piano. La coda corale di questo primo brano è una delle summe della carriera dei Move.
In Ella James si fa spazio il consueto Roy Wood dai toni rock and roll con l'altrettanto tipico andamento pesante che i più ricordano in Brontosaurus, ma che mai se ne andrà del tutto nella carriera di Wood. In totale contrasto la successiva No Time, di nuovo di Lynne, bellissimo brano acustico corale con bizzarri interventi di flauti ad opera di Wood, che tra l'altro fa notare quanto la tecnica compositiva di Lynne fosse qui ancora piuttosto acerba, e come si sia poi affinata negli anni successivi.
Curiosa invece Don't Mess Me Up, brano dai toni doo-wop ad opera di Bevan ma cantato da Wood con spiccato accento delle Midlands. Bevan invece finirà per cantare il divertente country di Ben Crawley Steel Company, scritta da Wood, e tra i brani più controversi dell'album, di quelli che o sia ama o si odia. Nel mezzo c'è la blueseggiante Until Your Mama's Gone di Wood, The Minister di Lynne, curiosamente sullo stile dei primi Move (in cui lui non era presente), ma soprattutto It Wasn't My Idea To Dance. Questo magnifico brano di Wood è senza dubbio la punta di diamante dell'album, con un originalissimo arrangiamento dal sapore orientaleggiante ed un andamento tutt'altro che banale, con anche quello che sembra essere il suono di passi a dare più corposità alla sezione ritmica. Se servissero altre prove del talento di Roy Wood, si consiglia caldamente l'ascolto di questo piccolo capolavoro. L'album si conclude poi con la bellissima The Words Of Aaron di Lynne, che sembra guardare al secondo album degli ELO e che forse soffre solo dell'essere un pelo troppo lunga, e con la McCartiana My Marge, scritta da Wood e cantata da Lynne, che sembra fare il verso a Honey Pie, congedando definitivamente i Move come solo degli inglesi saprebbero fare.

In definitiva, di solito si tende a guardare a Shazam quando si pensa al miglior album dei Move, i più alternativi possono pensare a Looking On, ma Message From The Country è comunque un lavoro più che dignitoso, con oltretutto l'aggiunto punto di interesse nell'essere l'altra faccia dell'esordio degli ELO ed uno dei massimi esempi della purtroppo troppo breve collaborazione tra Wood e Lynne.

giovedì 16 maggio 2019

King Crimson - Live in Newcastle [December 8, 1972] (2019) Recensione

Un altro live dei King Crimson? Me ce n'era veramente bisogno?
L'ultima di una lunga serie di uscite per il Collectors' Club, la quarantottesima per la precisione, in realtà si rivela essere una delle più interessanti di questa serie, se non addirittura essenziale.
Registrato l'8 Dicembre 1972 a Newcastle, si tratta in sostanza di una delle poche testimonianze della formazione con Fripp, Weton, Bruford, Cross e Muir, oltre che l'unica, se escludiamo quella al Beat Club di Bremen dell'Ottobre 1972, di buona qualità sonora. Si tratta infatti di una registrazione soundboard mono quasi integrale (manca il finale di Lark's Tongues In Aspic Part Two, che si interrompe circa a metà, poi non ci è dato sapere se fu suonato un encore, nel caso molto probabilmente sarebbe stato 21st Century Schizoid Man), che di certo non può vantare una qualità eccellente, ma sicuramente risulta più ascoltabile degli altri live di questa epoca pubblicati tra Collectors' Club ed il cofanetto di Larks', in quanto furono registrati dal pubblico (oh ironia).
Il suono quindi si può dire che sia buono, seppur a tratti altalenante (ad esempio all'inizio c'è molta distorsione, ed in generale è presente del fruscio), ma finalmente si può ascoltare nel dettaglio cosa era in grado di fare questa formazione.
La scaletta è interamente dedicata a Larks' Tongues In Aspic, con l'album suonato per intero in ordine ma interrotto da un paio di improvvisazioni.
Abituati alle versioni live a quartetto, l'attacco di Larks' parte uno, se si riesce ad andare oltre distorsioni varie, è veramente devastante. La presenza di Muir si rivela essenziale nella sua follia controllata, e soprattutto si può notare una band che seppur non perfetta nell'esecuzione, risulta sicuramente più coesa e "rodata" se confrontata con l'esibizione di due mesi prima al Beat Club.
Una bella e precisa versione di Book Of Saturday poi scivola lentamente nella prima delle due improvvisazioni. L'inizio è sereno e piuttosto leggero, con un Fripp in primo piano in un assolo dal gusto jazzato, ma ben presto Bruford e Wetton introducono una sezione decisamente più nervosa, su cui Fripp tira fuori uno dei suoi assoli più creativi e taglienti, tanto da meritarsi varie esclamazioni entusiastiche di Muir, che a sua volta è costantemente presente e dimostra una creatività ed inventiva impressionante. Una sezione più caotica in cui anche Cross ha la sua parte solista chiude l'improvvisazione che sfuma in una bella versione di Exiles, purtroppo un po' martoriata dal fruscio. Wetton è impeccabile alla voce, ed il brano prosegue senza troppe sorprese. Easy Money è invece probabilmente una delle versioni preferite di chi scrive, sia per i sempre originali interventi di Muir, ma anche e soprattutto per la sezione centrale, dove Fripp si lascia andare totalmente in uno dei suoi migliori assoli in assoluto. Segue la seconda improvvisazione, a parere di chi scrive un po' meno riuscita della prima, con la prima metà interamente lasciata a Bruford e Muir, fino all'entrata di un inquietante Mellotron suonato da Fripp su cui poi pian piano si aggiungono tutti e Cross improvvisa un assolo di violino. Dopo quella che probabilmente è la sezione più riuscita, il tutto si "perde" in un'ultima parte più rumoristica ai limiti dell'ambient, con l'utilità però di portare la band al silenzio quasi totale prima del lungo ed inarrestabile crescendo di una The Talking Drum al cardiopalma. Poco da dire su questo brano, che di nuovo guadagna tantissimo dalla presenza di Muir, e che nonostante le varie formazioni allargate degli anni successivi (dal double trio anni '90 in avanti) raramente riuscirà a raggiungere la potenza della versione di questa lineup.
Larks' Tongues In Aspic Part Two chiude la registrazione interrompendosi appena dopo gli stacchi che precedono l'assolo di Cross, e a giudicare da ciò che si può ascoltare è davvero un grandissimo peccato. Altra grandissima versione seppur parziale.
In conclusione, i live dei King Crimson è vero che sono tanti, forse troppi, ma questo Live In Newcastle non si può assolutamente ignorare. Siamo di fronte ad un tassello importantissimo per comprendere l'evoluzione del suono della band in quell'epoca, e soprattutto all'unica testimonianza quasi integrale della formazione a cinque, e non è cosa da poco. Certamente chi ha le cosiddette "orecchie da bootleg" sarà in grado di godersi questo live molto più di un audiofilo, ma credo sia un onesto prezzo da pagare per godersi un piccolo capolavoro, oltretutto una volta tanto senza dover spendere centinaia di Euro per comprarsi un intero cofanetto.

martedì 14 maggio 2019

Atomic Rooster - Death Walks Behind You (1970) Recensione

Il secondo album della band guidata dal tastierista Vincent Crane oltre che il primo della cosiddetta "era Du Cann". Infatti dopo un primo album con una formazione composta dallo stesso Crane, Carl Palmer alla batteria (entrambi reduci dal Crazy World Of Arthur Brown) e Nick Graham al basso e voce, la band di fatto si sciolse e finì per includere John Du Cann alla chitarra e voce e Paul Hammond alla batteria. Questo portò gli Atomic Rooster verso sonorità più pesanti e più sbilanciate verso un certo hard rock chitarristico non lontano da certe cose dei Deep Purple di In Rock. Ovviamente l'Hammond di Crane rimane centrale insieme ai suoi misurati interventi al piano, e la peculiare assenza di un bassista richiese oltretutto un approccio diverso alle tastiere, che avrebbero dovuto andare a coprire anche quelle frequenze sonore diversamente assenti. Se si tiene conto che anche una band come i Doors, notoriamente priva di bassista in formazione, chiamava bassisti stipendiati a registrare parti in studio, si può ben capire la peculiarità della scelta degli Atomic Rooster.
Il suono di Death Walks Behind You è essenziale e potente come solo negli album di quegli anni poteva essere, ed alterna brani di semplice hard rock dalle tinte proto-prog a brani un pelo più complessi, ma mai troppo.
Un esempio di ciò è l'iniziale title track, che nonostante i suoi sette minuti e mezzo di durata è composta solamente da una bella ed inquietante introduzione di piano e chitarra, un principale riff su cui si ripete il ritornello a mo di mantra ed un secondo riff cromatico discendente. Il tutto si alterna in un brano che ben esemplifica il sound di questo gruppo, pur non essendo il migliore dell'album, in quanto forse fin troppo lungo.
Certe tendenze progressive si fanno notare nella successiva strumentale VUG, dove intricati arpeggi di chitarra e Hammond fanno da contorno a rumorosi assoli che mettono in mostra le indubbie capacità di Crane e Du Cann, oltre che il galoppante supporto ritmico di Hammond. Quello che si nota di certo è il peculiare approccio di Crane, in un certo senso distante dalle velleità esibizionistiche dei vari Emerson e Wakeman, molto più ancorato a temi musicali più o meno precisi, piuttosto che tendente a voli pindarici di stampo jazzistico (elemento comunque presente in ogni caso).
Ci sono anche brani più semplici, come Tomorrow Night e I Can't Take No More, dove i riusciti riff di Du Cann aprono la strada a pezzi che non sono poi così lontani dai Deep Purple di Fireball, senza però poter vantare una voce di egual presenza ed autorità.
Seven Lonely Streets, o 7 Streets stando a Wikipedia, è senza dubbio uno degli episodi più ambiziosi dell'album, con di nuovo bellissimi e possenti riff, riusciti cambi di tempo ed un mozzafiato botta e risposta tra organo e chitarra nella sezione centrale. Quasi sette minuti di inarrestabile cavalcata che, a parere di chi scrive, si conferma essere la vetta dell'album. C'è da dire però che la successiva Sleeping For Years fa di tutto per mantenere il passo, riuscendoci in gran parte. Già con il rumoristico inizio di Du Cann si capisce dove si vuole andare a parare, e ciò che segue è un possente mid-tempo che strizza l'occhio a certe cose dei Led Zeppelin, tingendole però di un suono decisamente più tetro e metallico. Un ottima palestra per le doti chitarristiche di Du Cann, che si lascia totalmente andare anche nella seconda metà del brano.
Ciò che rimane è la curiosa ballata Nobody Else, guidata da fascinosi accordi jazzati di piano ed in totale contrasto con il resto dell'album (nonostante la presenza di una sezione più ritmata), e la conclusiva Gershatzer, classico brano con un riff portante pretesto per assoli di varia natura; in questo caso dapprima Crane al piano e all'organo (qui si guardando alle parentesi più rumoristiche di Emerson) e poi Hammond alla batteria, senza però annoiare (dote comune di molti brani del genere, tipo In-A-Gadda-Da-Vida).
Di certo Death Walks Behind You non vanta quel tocco magico e quell'innovazione che ha permesso ad alcuni album di quegli anni di spiccare e rimanere impressi nella memoria e nella cultura, forse per la mancanza di pezzi trainanti o forse per la mancanza di un cantante di ruolo (Du Cann se la cava, e a tratti ricorda pure Greg Lake, ma con l'entrata di Chris Farlowe la differenza sarà abissale)... Fatto sta che Death Walks Behind You è negli anni rimasto un piccolo gioiellino per appassionati, lontano dalla perfezione ma certo non privo di fascino.
Quello in cui questo album di certo si distingue da molti altri è nella magnifica copertina, che contiene la raffigurazione di Nabucodonosor II ad opera di William Blake.

sabato 11 maggio 2019

Procol Harum - Exotic Birds And Fruit (1974) Recensione

 Dopo un piccolo gioiello come Grand Hotel qualunque cosa avrebbe rischiato di sfigurare, tanta era la grandiosità presente in quell'album. E proprio per questo i Procol Harum sembra quasi che a quel punto abbiano deciso di dar voce alla loro anima più semplice e rock, lasciando un po' da parte le orchestrazioni che tanto avevano preso piede nel "dopo Edmonton". Quello che ne uscì fu, a parere di chi scrive, l'ultimo grande album di questa band fino a Novum del 2017 (non mi sono dimenticato di Procol's Ninth, Something Magic, The Prodigal Stanger e The Well's On Fire, ma semplicemente non li vedo come album particolarmente riusciti, forse con giusto l'eccezione dell'ultimo).
Non siamo però di fronte ad un album di rock and roll "terra terra", quanto piuttosto ad un lavoro più essenziale ma allo stesso tempo molto variegato e colorato. Il primo lato in particolare è forse uno dei più solidi dai tempi di Shine On Brightly, mentre il secondo tende a scivolare via più velocemente.
La potente Nothing But The Truth apre l'album come pochi altri pezzi avrebbero saputo fare, con la sua notevole carica che non ha nulla da invidiare alle parentesi più spinte di Grand Hotel, come Bringing Home The Bacon, e anzi a mio parere risulta anche più riuscita. Il suono è più solido che mai, con il tipico muro di piano, Hammond, chitarra, basso e la incredibilmente creativa batteria di B.J. Wilson, oltre all'inimitabile voce di Gary Brooker che svetta autorevolmente su tutti.
Segue la particolare Beyond The Pale, divertente brano che affonda le sue radici musicali in terre est-europee, come riflesso della costante vita in tour dei Procol Harum in quegli anni. In particolare pare ispirata a della musica ascoltata da Brooker a Budapest.
Dopodiché l'album ci regala una incredibile coppia di brani che raramente vengono annoverati tra i migliori dei Procol, ma che a parere di chi scrive lo meriterebbero a pieno titolo. La sublime As Strong As Samson non può lasciare indifferenti con le sue inusuali scelte armoniche che danno vita ad un brano che, per via della maestria compositiva di Brooker, riesce ad essere particolarmente memorabile. Discorso simile per The Idol, che raggiunge apici altissimi nell'esteso finale con assolo di chitarra di Mick Grabham, e che dimostra quanto la band non fosse per nulla in una fase decadente come si tende a credere quando si pensa al dopo Grand Hotel.
Come anticipato, il secondo lato fatica a stare al passo dopo due brani del genere, e prende vie particolari come in The Thin End Of The Wedge, brano inquietante che sembra rimandare ad alcune sezioni di In Held Twas In I, o la divertente e leggerina Fresh Fruit, inno al mangiar sano che sembra esser discepolo di certi brani di Brian Wilson di fine anni '60.
Nel mezzo c'è il ripescaggio di Monsieur R. Monde, risalente addirittura all'epoca del primo album (allora chiamata Monsieur Armand), la magnifica Butterfly Boys, musicalmente quasi parente di Nothing But The Truth oltre che acida critica all'allora loro casa discografica, la Chryshalis (che infatti aveva una farfalla come simbolo). Chiude la fascinosa New Lamps For Old, altro brano più lento tipico dello stile associato ai Procol Harum, con forse il solo difetto di essere fin troppo corta.
Se si compra l'edizione in CD della Salvo, oltre che un curioso ma piuttosto inutile mix alternativo di As Strong As Samson in Re diesis invece che in Mi, c'è il lato b del singolo Nothing But The Truth: Drunk Again. Gran bel brano rock che mette in mostra il solidissimo suono di questa formazione, che suona sempre con trasporto ed evidente divertimento (elemento questo che si nota benissimo anche in Butterfly Boys e Monsieur R. Monde, quest'ultima con una sezione centrale che sembra andare per la sua strada fino a che un fischio richiama tutti all'ordine sul pesante riff in chiusura).
Se poi riuscite ad accaparrarvi la recente riedizione ad opera di Cherry Red, con ben due concerti del 1974 su altrettanti CD aggiuntivi, ancora meglio.
Già nel successivo Procol's Ninth la band inizierà a perdere un po' di quel tocco magico sempre più o meno presente fino a quel punto, regalandoci un solo brano memorabile, Pandora's Box. Proprio per questo Exotic Birds And Fruit può esser visto come l'unico grande album di quest'epoca dei Procol Harum, con ancora una band che si divertiva a suonare insieme, scriveva ottimi brani con personalità da vendere (perchè diciamocelo, il mondo è pieno di gente che somiglia o vuole somigliare ai Genesis, ai King Crimson, ma quanti assomigliano ai Procol Harum?). Un album che si ascolta con piacere come gran parte della produzione precedente, in alcuni casi dimostrandosi anche migliore (come nel caso di Broken Barricades, buon album che però non mi ha mai convinto del tutto).
Consigliatissimo ai fan di questa magnifica band e non solo.


mercoledì 8 maggio 2019

The Electric Light Orchestra (1971) Recensione

C'è chi lo ha descritto come "sonic terrorism", noto anche come No Answer in America per via della mancata risposta alla richiesta telefonica del titolo dell'album, si tratta dell'esordio degli ELO, all'epoca con la stessa identica formazione degli ultimi Move. L'ultimo lavoro dei Move, Message From The Country, era infatti una sorta di obbligo contrattuale prima che il nucleo centrale della band, Roy Wood, Jeff Lynne e Bev Bevan, potessero dedicarsi alle loro nuove idee. Message From The Country ed il primo degli ELO sono infatti due lavori sostanzialmente contemporanei che si rivelano essere due facce della stessa medaglia, con materiale più "canonico" nel primo e più sperimentale nel secondo. L'idea dietro alla creazione degli ELO era infatti di esplorare territori più  progressive nel vero senso della parola (quindi non accodandosi ad un movimento di moda come facevano molti, ma effettivamente inventandosi qualcosa di diverso dal solito), dando molta importanza agli archi, specialmente violoncelli, ed abbandonando quasi del tutto il pop-rock che tanto aveva caratterizzato i Move, pur presente ma in minima parte.
Il tutto nacque dalla decisione di Wood di aggiungere violoncelli ad un pezzo di Lynne all'epoca dei Move, che poi diventò il brano di apertura di questo album, 10538 Overture. Forse uno dei pochi brani che mostrano i primissimi segni del "suono ELO" che si svilupperà dopo l'abbandono di Wood. L'influenza dei Beatles è evidente, ma il suono è più ruvido, grezzo. Questo brano è senza dubbio il più noto dell'album, oltretutto l'unico ad essere riproposto in concerto anche dai recentemente riformati ELO di Lynne, ed è infatti un ottimo e potente pezzo perfetto per introdurre l'album.
I violoncelli fanno di nuovo da padrone nella successiva Look At Me Now, brano di Wood che sembra guardare a Eleanor Rigby e prendere vie decisamente più folli, tra sferraglianti archi e interventi orientaleggianti di oboe. Il contrasto tra i due brani di apertura ben mostra le due diverse nature dei "leader" Lynne e Wood, non a caso qui alla loro ultima vera e propria collaborazione.
Lynne ritorna in Nellie Takes Her Bow, brano che inizia in modo molto melodico con un ché di gospel, per poi prendere strade ben più sperimentali, con archi e fiati che guidano nervosamente una sezione strumentale che poi si risolve in una efficace reprise del tema iniziale, prima strumentale e poi cantata. Un piccolo ma ostico gioiellino.
Le tendenze mostrate nella sezione centrale di "Nellie" tornano prepotentemente in The Battle Of Marston Moor (July 2nd 1644), brano interamente strumentale (se escludiamo l'inizio recitato) piuttosto complesso e dai toni potenti e drammatici, che ben sono in grado di descrivere la battaglia in questione. Uno strano pezzo che può lasciare un po' interdetti al primo ascolto, ma che ben dimostra la natura sperimentale dei primissimi ELO.
La più allegra First Movement (Jumping Biz) di Wood, di nuovo strumentale, alleggerisce decisamente il tutto. Guidata dalla chitarra acustica ed abbellita dagli ormai consueti archi e fiati, fa ben intuire la direzione che prenderà Wood di lì a poco nel suo ottimo Boulders, oltre a mettere in mostra le sue indiscutibili doti di polistrumentista.
La beatlesiana Mr. Radio di Lynne è un altro de primissimi indizi sulla strada che intraprenderanno gli ELO negli anni, pur non facendosi mancare i consueti interventi strumentali sempre pieni di inventiva. Siamo di fronte ad un brano che potrebbe tranquillamente essere uscito da Eldorado.
Manhattan Rumble (49th Street Massacre) invece è un altro pezzo strumentale dai toni oscuri e minacciosi, non distante da certe cose che vedremo nel secondo album degli ELO ormai orfani di Wood. Pur condividendone la natura, Manahattan Rumble è però decisamente più scorrevole e piacevole di The Battle Of Marston Moor. Simili tendenze a livello strumentale sono presenti anche in Queen Of The Hours, che però si rivela ben presto essere un altro gran bel brano cantato, di nuovo ad opera di Lynne. Chiude l'album la bellissima Whisper In The Night di Wood, tra l'altro coverizzata dai Nomadi in un'epoca in cui l'Italia ancora dipendeva dall'estero musicalmente (anche se non penso abbia mai veramente smesso): una piccola perla che è anche il suo addio alla sua nuova creatura.
Come ben sappiamo, già dal secondo album gli ELO diventeranno la band di Jeff Lynne, seppur con importanti contributi dagli altri suoi membri, e Wood prenderà altre strade, sia da solista che con gli ottimi Wizzard, senza però riuscire a raggiungere il successo che l'amico Lynne guadagnerà di lì a pochi anni.
Per questo motivo il primo, omonimo album degli ELO è una sorta di piccola parentesi sperimentale dalla fine prematura; di fondamentale importanza ma che lascerà poche tracce nelle future opere di questa band (giusto l'uso degli archi). Già in ELO 2 rimarranno il gusto melodico, le complessità strumentali ma si perderà gran parte dell'imprevedibilità e della follia che solo Wood sapeva dare, e da On The Third Day in poi si inizieranno ad intravedere gli ELO che tutti conosciamo.

lunedì 6 maggio 2019

Wizzard Brew (1973) Recensione

Prima uscita della prima band di Roy Wood dopo l'esperienza con gli ELO, pubblicato tra l'altro lo stesso anno dell'ottimo Boulders di Wood solista, Wizzard Brew è un album a dir poco particolare.
I Wizzard vengono ricordati principalmente per il classico natalizio I Wish It Could Be Christmas Everyday, e all'epoca si fecero notare per una sfilza di singoli molto "spectoriani" come See My Baby Jive e Ball Park Incident, tutti caratterizzati dal tipico "wall of sound" associato a Phil Spector.
Posso solo immaginare la reazione di chiunque abbia comprato Wizzard Brew all'uscita, magari invogliato proprio da quei singoli, ovviamente non inclusi nell'album.
Prendete il già citato wall of sound, dotatelo di acuminati spuntoni ed immaginatelo che sbatte continuamente in faccia all'ascoltatore: questo è Wizzard Brew. Tutto è spinto all'inverosimile, compresso, non al limite della distorsione, ma ben oltre. Qui si dà libero sfogo all'anima rock and roll di Wood, che evidentemente non avrebbe avuto abbastanza spazio negli ELO, filtrandola attraverso arrangiamenti dalla potenza a tratti devastante, supportati da un organico allargato che, oltre alle note doti da polistrumentista di Wood, comprende due batteristi, un coro, fiati e archi di ogni tipo.
You Can Dance To Rock And Roll apre le danze mettendo da subito in chiaro il sound dell'album, introdotto da un roboante mini duetto di batterie, lascia presto spazio ad un classico rock and roll sporco, distorto e spinto da degli sferraglianti violoncelli con la tagliente voce di Wood, anch'essa distorta, a decorare il tutto. Ma è con Meet Me At The Jailhouse che le cose si fanno decisamente più serie. Un pesante riff di chitarra e archi introduce un jazzistico botta e risposta di fiati "a cappella" che introduce il pezzo vero e proprio. Un brano che questa volta affonda le radici nel blues, dove archi e fiati "aumentano" il suo già deflagrante suono. Ben 13 minuti in cui lunghi assoli si inseguono spostandosi da tendenze più heavy a inserti jazzati, intervallati da pesanti riff che non hanno molto da invidiare a certe derive metalliche dei contemporanei King Crimson. Un pezzo che può esser visto come auto-indulgente, ma anche una delle parentesi più genuinamente sporche, minacciose, potenti e folli della carriera di Wood e dei Wizzard.
Jolly Cup Of Tea è perfetta nel suo ruolo di pausa in cui tirare il fiato, oltre ad essere in totale contrasto con il resto, in quanto sembra un brano da banda di paese. Un ottimo e divertente brano.
Il rock and roll duro e puro ritorna nella successiva e vivace Buffalo Station - Get On Down To Memphis, medley di due brani più distorto che mai. Di nuovo spettacolare l'uso degli archi in modo mai prevedibile o ovvio, qualcosa da cui in molti avrebbero solo da imparare.
Cori doo-wop e fiati da big band introducono poi la divertente Gotta Crush (About You), in cui Wood si improvvisa un novello Elvis con un mai troppo utilizzato tono basso di voce; un breve brano divertente che ci accompagna verso la chiusura dell'album.
Chiusura affidata a Wear A Fast Gun. Magnifico brano lento e melodico con un che di certe cose dei Procol Harum a livello armonico, è un'altra occasione per Roy Wood di sfoderare il suo inarrivabile talento compositivo ed interpretativo. La bellissima melodia è decorata da riuscitissimi interventi fiatistici a fanfara, fino a poco oltre la metà, momento in cui il brano raggiunge il primo apice con l'entrata dell'epico coro, prima di virare in una piacevole parentesi strumentale di ispirazione barocca. Un'ultima ripresa corale con il ritorno della fanfare chiude questo piccolo capolavoro lasciando un flauto (o un ottavino?) svolazzare in libertà per qualche secondo. Wear A Fast Gun da sola varrebbe l'intero album, e a parere di chi scrive si tratta di una delle canzoni più belle partorite dalla mente di Roy Wood.
Wizzard Brew è un album che può lasciare perplessi, un album faticoso da ascoltare, in quanto in grado di far rimpiangere anche le peggiori vittime della loudness war degli ultimi decenni per via della sua disumana compressione. Ma ciò è parte del suo fascino, è ciò che lo rende un album unico in tutti i sensi, anche nella eclettica discografia di Roy Wood. C'è la durezza di alcuni lavori dei Move, ma tutto è spinto oltre ogni immaginabile limite, causando di conseguenza reazioni contrastanti all'ascolto.
Per chi scrive si tratta di un capolavoro, l'ennesimo di quegli incredibilmente creativi primi anni '70 di quel geniaccio di Roy Wood.



sabato 4 maggio 2019

Alan Parsons - The Secret (2019) Recensione

Erano ormai 15 anni che Alan Parsons non pubblicava musica nuova, e di conseguenza si creò una certa aspettativa dopo l'annuncio di questo lavoro qualche mese fa. Il suo quinto album solista, The Secret, è finalmente uscito, ed io personalmente non so come approcciarlo.
Mi spiego meglio: forse è una cosa ovvia, anzi sicuramente lo è, ma un po' complice la promozione che si vede in giro, un po' proprio visto il nome dell'artista in questione, un po' leggendo i commenti degli ascoltatori, ho come la sensazione che The Secret venga visto da molti come un album dell'Alan Parsons Project. Ovviamente non lo è, e la principale differenza tra la carriera solista di Parsons ed il Project è l'assenza di Eric Wooolfson, che purtroppo è venuto a mancare nel 2009 ma già non collaborava con lui da fine anni '80. Però vedere il nome di Alan Parsons fa subito pensare all'APP, e ad un osservatore poco attento può sembrar difficile concepire una effettiva differenza, magari ignorando l'assenza del compositore principale. Ed infatti sfido chiunque a ricordare uno solo dei quattro album solisti di Parsons che hanno preceduto The Secret... Appunto, la promozione ed i tempi di revival che stiamo vivendo influenzano tantissimo il modo di vedere questo disco.
E non è quindi difficile immaginare che l'album si appoggi pesantemente sullo stile che normalmente si associa all'APP, in particolare dell'epoca di Eye In The Sky, con un focus evidente sulle ballate.
Ovviamente però manca Woolfson, ed essendo Parsons un ottimo ingegnere del suono e produttore ma non certo un gran compositore, non stupisce il sostanzioso elenco di collaboratori in sede di scrittura (una media di tre con punte di cinque nomi per canzone), quasi come in un album pop mainstream qualsiasi degli ultimi 20/30 anni; da quando insomma scrivere canzoni da far passare in radio è diventato frutto di studi e pianificazioni scientifico/matematiche (come ormai stanno imparando a fare anche in altri generi, compreso il prog).
Per fortuna però il risultato riesce ad essere piacevole, con qualche picco sparso. Quello che però lascia un po' perplessi è la decisione di introdurre quello che sostanzialmente è un album di semplice pop con The Sorcerer's Apprentice. Senza dubbio una delle parentesi più curiose ed interessanti dell'album, altro non è che un riarrangiamento dalle tinte "prog" dell'omonimo brano di Paul Dukas, famoso per esser stato usato in Fantasia, e qui arricchito dalla presenza di uno Steve Hackett che sembra voler essere un Brian May. Un inizio molto coinvolgente e riuscito, che però alla luce del resto dell'album, come direbbero gli anglofoni, "sticks out like a sore thumb".
Sì perchè da qui in poi le canzoni si fanno "semplici" sotto ogni punto di vista, facendo sembrare il brano di apertura un'aggiunta posticcia e totalmente fuori contesto, per ottimo che possa essere.
Forse l'unico altro brano che per complessità orchestrale si può in un certo modo avvicinare è One Note Symphony, che intorno ad un linea melodica, appunto, composta da una sola nota, crea intrecci molto efficaci che portano il brano a contendersi il titolo di migliore di The Secret.
Un altro aspetto che questo album ha ereditato da quelli del Project è l'alternanza di cantanti, tutti più o meno validi, compreso lo stesso Parsons che va a coprire toni simili a quelli del compianto Woolfson (senza però essere paragonabile) ad esempio nella bella As Light Falls, e con l'indiscutibile picco di Lou Gramm dei Foreigner in Sometimes. Nel mezzo le ballate non si contano, tra cui la bellissima Soirée Fantastique, dove Parsons e Todd Cooper armonizzano in modo molto efficace, l'orchestrale Years Of Glory con il tipico tono sussurrato di P.J. Olsson (già nella touring band di Parsons) e la conclusiva I Can't Get There From Here. Nel mezzo Requiem e The Limelight Fades Away cercano di dare un pizzico di movimento in più senza però riuscirci appieno. Ed è proprio questo forse uno dei "difetti" dell'album: la mancanza di brio. Le ballate sono belle, certamente, ma si sente la mancanza di quei tocchi magici come ci furono ad esempio in Silence And I che, nonostante fosse anch'essa una ballata, nella parte centrale virava in luoghi totalmente inaspettati fatti di nervosi intrecci sinfonici. Elemento questo presente appunto solo nel già citato brano di apertura, che crea in tipo di aspettative che poi non si avverano. Assenti di conseguenza anche i toni più elettronici "alla Mammagamma", o il brioso pop-rock alla Games People Play. Oltre a questo, sembra quasi che la produzione manchi di quel tipico tocco brillante che tanto contraddistingue le varie opere a nome Parsons, mostrando invece una strana tendenza a far spiccare fin troppo le voci e a lasciare indietro nel mix la parte strumentale, che ne esce di conseguenza come ricoperta da una patina opaca.
The Secret non è un brutto album, anzi credo che sia molto godibile e che meriti considerazione nello stantio mondo musicale attuale, ciò non toglie però una generale sensazione di trovarsi di fronte ad un lavoro un po' studiato a tavolino per piacere ai fan dell'Alan Parsons Project più classico, quelli che conoscono Eye In The Sky, Time, Old And Wise e poco altro per intenderci.
Ed essendo io un fan dell'APP ci casco in pieno e ammetto di apprezzare questo The Secret più di quanto mi sarei aspettato, chiudendo un occhio sugli innegabili difetti.



giovedì 2 maggio 2019

Peter Gabriel - Up (2002) Recensione

Dopo aver parlato del recente Rated PG, ho pensato di tornare indietro di qualche anno.
Ad oggi l'ultimo album di nuove canzoni pubblicato da Peter Gabriel, frutto di ben 7 anni di lavoro (non continuo, vista la pubblicazione di OVO e Long Walk Home nel frattempo). Si tratta di un lavoro più oscuro del solito, soprattutto se confrontato con i precedenti So e Us, andando in un certo senso a recuperare certi toni presenti nel terzo e quarto album e tingendoli di una modernità tipica dell'approccio al passo con i tempi che ha sempre contraddistinto Gabriel. La lunga lavorazione di Us conferma una tendenza che gradualmente ha preso piede nel suo modo di produrre musica, che tra liste infinite di musicisti ed ospiti, minuziose scelte di produzione ed arrangiamenti che cambiano continuamente (specialmente da quando lo stesso Peter ha deciso di diventare il principale produttore dei suoi lavori) e continui cambi di tracklist, porta a pubblicazioni sempre più distanti nel tempo, sfiorando i 10 anni tra Us e Up e facendone passare, ad oggi, ben 17 senza l'ombra di un vero e proprio successore di quest'ultimo.
Up affondò le sue prime radici già nel 1995, ed intorno al 1998 gran parte del lavoro era già stato fatto, ma passeranno ancora 4 anni prima della sua pubblicazione. Quello che si nota subito è l'importanza del tema della morte, ricorrente in più tracce ed in totale contrasto con l'altro tema fondamentale presente, che è la vita. I toni, come detto, sono oscuri, spesso elettronici, industriali, c'è molto poco colore anche laddove si celebra la vita, come nel bel singolo ballabile Growing Up. Già dall'inizio con Darkness si capisce subito la direzione dell'album: dopo una devastante sezione introduttiva in cui rock, elettronica e suoni orchestrali creano un potente muro sonoro, il brano si sposta su toni più melodici guidati dal piano, in un inno al combattere e sconfiggere le proprie paure.
Si diceva della morte, ed infatti essa affiora nella complessa No Way Out, che sembra quasi essere una più moderna e "canonica" The Family And The Fishing Net nella sua natura multiforme, e ritorna nella magnifica I Grieve, il cui arrangiamento riesce a renderla particolarmente emozionante e coinvolgente, tra un crescendo ed un inaspettato cambio ritmico prima della conclusione. Senza dubbio uno dei migliori brani di Gabriel degli ultimi 30 anni, impreziosito oltretutto da una performance vocale particolarmente enfatica. Nel mezzo ci sono brani in un certo senso "minori", come la divertente ed amara The Barry Williams Show e la più greve My Head Sounds Like That, ma c'è anche un piccolo capolavoro come Sky Blue. Caratterizzata dalla presenza dei Blind Boys Of Alabama nel tema vocale ripetuto (tra l'altro già incontrato precedentemente in Long Walk Home, a riprova dell'affermazione di Gabriel secondo cui gli ci vollero ben 10 anni per finire questo brano), Sky Blue è forse uno dei più riusciti sunti del "suono Gabriel" di questa fase, di nuovo con l'incontro di world music, pop ed elettronica senza sbilanciarsi del tutto in alcuno di questi generi, oltre a dimostrarsi una delle poche parentesi lucenti di Up.
More Than This invece tenta di intraprendere la strada del pop, quella che ha portato a perle come Sledgehammer e Steam, lasciandosi però questa volta alle spalle il funk e i fiati sintetizzati e puntando invece su arrangiamenti più moderni, quasi glaciali, a contorno di melodie genuinamente riuscite che invocano a "qualcosa in più" di ciò che si può vedere.
Il picco dell'album però si ha senza dubbio verso la fine, con Signal To Noise. Picco assoluto non solo di Up ma anche di buona parte della carriera solista di Gabriel, questo brano combina di nuovo l'elettronica, la world music e l'orchestra, raggiungendo però una combinazione di un indescrivibile fascino difficilmente eguagliabile. Come ciliegina sulla torta c'è la presenza di Nustrat Fateh Ali Khan, che ci regala acrobazie vocali al limite delle possibilità umane. Tristemente Nusrat morì prima di riuscire a partecipare alla registrazione di Signal To Noise, costringendo quindi Gabriel ad usare una registrazione dal vivo risalente al 1996, quando suonarono insieme una versione primordiale di questo brano. Il crescendo orchestrale finale in particolare è letteralmente mozzafiato.
Insomma Up è un album che non può vantare la freschezza di un lavoro come So, essendo "vittima" di un andamento pesante, oscuro, con poche parentesi luminose o colorate, ma allo stesso tempo si nota una maturità che in molti album precedenti non era così evidente. Anche solo se confrontato con il precedente Us, se da una parte in quest'ultimo c'erano brani di assoluto valore (Secret World, Come Talk To Me, Digging In The Dirt...), dall'altra sembrava essere un lavoro un po' discontinuo, con brani che davano l'impressione di essere riempitivi. Sensazione questa a mio parere decisamente meno presente in Up, che invece mantiene uno standard più o meno alto dall'inizio alla fine, pur avendo meno "picchi" di Us.
La speranza è che non sia l'ultima uscita interamente inedita della carriera di Gabriel, ma anche se lo fosse non si potrebbe certo parlare di delusione.