lunedì 16 dicembre 2019

Top 10 Album - 2019

Come ogni anno si arriva in questo periodo a tirare le somme dell'anno trascorso in termini di uscite discografiche. La temuta top 10 del 2019 è arrivata, e come al solito devo specificare che è ovviamente basata su quelli che sono i gusti personali di chi scrive, e come tale va presa. Essendo questo 2019 anche l'anno che chiude questo decennio, seguirà tra qualche giorno un'altra classifica (è ancora da vedere se sarà una top 10 o conterrà più titoli) dedicata a questi ultimi 10 anni.
Mi preme specificare che l'ordine di questi album è continuamente variabile, ed il solo fatto di averli inseriti significa che sono perlomeno stati degni della mia attenzione.

10 - Alan Parsons - The Secret



Vittima forse di una campagna promozionale che portava gli ascoltatori più distratti a confondere Alan Parsons con l'Alan Parsons Project, di fatto creando aspettative intorno all'album come se fosse un "ritorno" che effettivamente non è, The Secret si è dimostrato comunque un album più che godibile. Palese sembra essere il tentativo di Parsons di arruffianarsi i vecchi fan del Project con un album colmo di ballate e arrangiamenti orchestrali, con giusto la strizzata d'occhio al prog nell'apertura di The Sorcerer's Apprentice (perchè diciamocelo, di sti tempi il suddetto genere va di moda), ma ciò non impedisce alle canzoni di rimanere in testa e di farsi apprezzare anche grazie ai bravi cantanti coinvolti.
Brano consigliato: As Light Falls


9 - The Crazy World Of Arthur Brown - Gypsy Voodoo



Totalmente a sorpresa, visto che Zim Zam Zim avrebbe dovuto essere il suo ultimo album, l'arzillo vecchietto comunemente conosciuto come il Dio de fuoco infernale ritorna con un nuovo lavoro. Non siamo di fronte ad un capolavoro, e anzi il già citato album precedente fu certamente più riuscito, ma risentire quella grande voce su brani belli spinti come quelli qui presenti è sempre un piacere. Certo, il riarrangiamento della Fire Suite dal suo primissimo album è forse un pelo ridondante, ma ci sono abbastanza differenze da accettare questa decisione.
Brano Consigliato: Love And Peace In China (anche se qui sotto trovate la title track, principalmente per il video).


8 - Whitesnake - Flesh And Blood



Anche per i Whitesnake c'è stato un grande ritorno in questo 2019, pur con un cuore compositivo leggermente diverso visto l'abbandono di Doug Aldrich. Reb Beach si affianca a Coverdale nella scrittura e non mancano i contributi degli altri membri, in un album che riacquista un po' di varietà se confrontato ai due pur ottimi lavori precedenti (per quanta varietà possa esserci in un album dei Whitesnake) e che, nonostante l'ormai calante voce di Coverdale, si fa ascoltare con gran piacere.
Brano consigliato: Heart Of Stone


7 - Toto - Old Is New



Un album letteralmente ucciso dalla decisione di renderlo disponibile solamente all'interno del dispendioso cofanetto All In, contenente l'intero catalogo Sony dei Toto rimasterizzato. Certo, tecnicamente non è un album formato interamente da brani nuovi, in quanto gran parte dei pezzi sono scarti anche di decenni fa, alcuni con ancora i fratelli Porcaro presenti, ultimati dalla formazione attuale, ma si tratta comunque di gran belle canzoni! Non siamo ai livelli dell'ottimo Toto XIV ma, se si esclude l'orrida traccia finale in collaborazione con What So Not, siamo di fronte all'ennesimo esempio della forza di questa magnifica lineup dei Toto, che speriamo ora sia solo in pausa.
Brano consigliato: Devil's Tower


6 - The Claypool Lennon Delirium - South Of Reality



Che dire poi di questo piccolo gioiellino? Diciamo che un po' di psichedelia colorata in questi anni grigi e piatti non può che fare bene, e che se qualcuno lamenta un approccio più "pop" se confrontato al loro album precedente, per chi scrive invece non è altro che un ulteriore pregio. Musica tecnicamente anche complessa senza che ciò sia il fine, quanto piuttosto il mezzo per raggiungere quello che senza dubbio è un suono decisamente peculiare e che ben mescola le migliori caratteristiche sia di Lennon che di Claypool.
Brano consigliato: Little Fishes


5 - Mikayel Abazyan - Westerlies



Secondo album dell'armeno Mikayel Abazyan, il cui predecessore, Something More, raggiunse il primo posto nella top 10 dello scorso anno! Ciò non significa che questo Westerlies sia meno valido, ma piuttosto che il 2019 sia stato indubbiamente più generoso in termini di uscite degne di nota.
Ed è per questo ben difficile, da questo punto in poi in particolare, dare un ordine ben preciso al tutto. L'album in questione si propone di raccontare una storia attraverso le opere di poeti e scrittori inglesi musicate ed intermezzi recitati, combinando il tutto in modo tanto coraggioso quanto riuscito.
Brano consigliato: The Divine Image
https://mikayelabazyan.bandcamp.com/track/the-divine-image

4 - The Darkness - Easter Is Cancelled



I Darkness, dopo il primo scioglimento intorno al 2006 e la reunion del 2012, stanno piano piano riaffermandosi con album sempre molto validi. Già nella recensione non ho fatto mistero del fatto che il precedente Pinewood Smile mi colpì di più, ma è anche vero che sarebbe come dire che preferisco il cioccolato fondente a quello al latte: sempre cioccolato è, quindi datemene che va bene! Easter Is Cancelled sembra lasciarsi alle spalle un po' della follia tipica della band, cercando di concentrarsi su brani in uncerto senso più semplici e confinando le stranezze solamente ad alcuni, comunque ottimi, brani. Forse un modo per tornare idealmente verso il loro ultra-celebrato esordio?
Brano consigliato: Easter Is Cancelled


3 - Jeff Lynne's ELO - From Out Of Nowhere



A quattro anni dal predecessore Alone In The Universe i nuovi ELO, che poi si tratta del solo Jeff Lynne, sfornano un nuovo, magnifico, gioiellino pop. Poco più di mezz'ora e 10 canzoni una più bella dell'altra, di quelle che già al primo ascolto ti si stampano in testa per giorni interi. Lynne sembra non invecchiare mai, e la pura gioia di alcuni di questi pezzi porta From Out Of Nowhere, a parere di chi scrive, a superare il suo predecessore.
Brano consigliato: Losing You


2 - The Who - Who



Ne ho parlato proprio recentemente vista la sua recente uscita, e con un colpo di coda da maestri i 2 superstiti degli storici Who riescono addirittura a trovare posto nella top 3. Sarà che non mi aspettavo molto visto il precedente Endless Wire, sarà che finalmente è tornato il sound "da band" anche in un album in studio, sarà la ritrovata forma vocale di Daltrey o l'inaspettata vena compositiva di un Townshend che da molti anni non sorprendeva più molto, fatto sta che questo Who si conferma senza dubbio come il loro miglior lavoro da dopo la morte dell'inarrivabile Keith Moon. 
Brano consigliato: All This Music Must Fade


1 - Devin Townsend - Empath




Il primo posto non poteva non aggiudicarselo l'ultima uscita di Devin Townsend. Un lavoro molto difficile da descrivere e/o definire, tanto spazia tra generi diversissimi fra loro. Quel che è certo è che la sua natura cangiante e l'ottimo lavoro fatto sia in sede di composizione che di esecuzione, di produzione ed arrangiamento rendono Empath un ascolto imprescindibile indipendentemente dai propri gusti. E diciamocelo, quando si riesce ad avere un disco bonus della durata e della qualità di un album vero e proprio pur essendo composto da scarti e demo, qualcosa vorrà pur dire. 
Brano consigliato: Why

martedì 10 dicembre 2019

The Who - Who (2019) Recensione

Dopo ben 13 anni da Endless Wire (comunque pochi in confronto ai 24 tra il suddetto ed il precedente It's Hard), gli Who, o più precisamente Pete Townshend e Roger Daltrey, tornano con un nuovo album. Inutile dire che le aspettative sono piuttosto alte, specialmente da quando, già prima dell'uscita, si definiva questo lavoro come il loro migliore dai tempi di Quadrophenia. E se non è un mistero il generale calo di qualità da quel punto della loro carriera in poi, non è che The Who By Numbers e Who Are You fossero poi così brutti... A dire il vero per chi scrive sarebbe bastato qualcosa di un pelo meglio del precedente Endless Wire, che aveva certamente i suoi punti forti in qualche brano sparso e nella mini-opera Wire and Glass, ma soffriva dal punto di vista vocale (Daltrey aveva seri problemi in quegli anni) e a tratti pareva un lavoro un po' frettoloso, con brani che sembrava essere dei demo appena un po' abbelliti.
Da questo punto di vista si può tranquillamente dire che questi due signori si sono superati, tra Daltrey che sembra ringiovanito di vent'anni e Townshend che sembra voler uscire dai suoi soliti schemi compositivi stabiliti ai tempi di Who's Next e tentare di sorprendere.
Togliamoci subito di mezzo quello che forse è, per chi scrive, l'unico vero punto negativo di questo lavoro: l'autotune. Lo so benissimo che ormai è irrinunciabile, e potrei scrivere libri interi su quanto ciò sia sbagliato (specie se si considera il modo in cui viene normalmente usato), ma quello che mi rende perplesso è il fatto che né Daltrey né Townshend ne avrebbero bisogno! Basta andare su YouTube e cercare qualche video dai loro tour più recenti; non si notano grossi problemi vocali, soprattutto di intonazione, quindi perchè ricorrere all'autotune? Spero non sia una decisione frutto del tentativo di stare al passo con i tempi, come per la Fuh You di Paul McCartney, brano tanto orrido quanto dimenticabile ed, infatti, dimenticato. Oltretutto se non lo si è usato nel 2006 quando Daltrey faceva venir voglia di schiarirsi la voce pure a chi ascoltava, perchè tirarlo fuori ora?
Ma se si tralascia questo aspetto, non si può non lasciarsi andare ad un beato sorriso durante l'ascolto di questo album, specie se si segue questa band da qualche annetto. C'è freschezza, varietà sia compositiva che di arrangiamenti, ci sono i cari vecchi Who che ruggiscono in Ball And Chain e Street Song, quelli più pop tipici dell'epoca post-Moon in I Don't Wanna Get Wise e All This Music Must Fade. Ci sono poi uscite più particolari come la ballad Beads On One String o il Townshend solitario di I'll Be Back, oltre all'unica composizione ad opera di Simon Townshend: la coinvolgente ed allegra Break The News, forse quella che più di ogni altra sembra stare al passo con i tempi, e per questo stupisce vederla sepolta nell'album e non come singolo. Degna di menzione anche la bella Detour (tra l'altro questo fu anche il primo nome dei giovanissimi Who), in bilico tra le atmosfere di fine anni '60 e Join Together con tanto di armonica bassa, o il bel rock sinfonico di Hero Ground Zero e Rockin' In Rage. Tutti brani che letteralmente sotterrano gran parte di Endless Wire. E se il finale di She Rocked My World è forse un pelo sottotono, le tre bonus track della versione deluxe, seppure sostanzialmente opera del solo Townshend, sono una notevole aggiunta (in particolare il vecchio demo Got Nothing To Prove).
Il migliore da Quadrophenia? Sarà forse che chi scrive adora Who By Numbers e trova svariati punti di interesse nel comunque inferiore Who Are You, ma personalmente non mi sbilancerei così tanto. Diciamo che alla fine il livello è all'incirca quello, e sicuramente è superiore a tutti i loro lavori successivi alla morte di Moon; e se si considera l'età dei due unici superstiti, non si può dire che sia poco. Oltretutto i musicisti coinvolti, nonostante ovviamente non possano arrivare ai livelli sovrumani dei rimpianti Moon ed Entwistle, contribuiscono egregiamente nel creare un suono solido e potente; questo sì forse il più vicino ai tanto rimpianti anni '70, nonostante le incursioni inevitabilmente più moderne.
Davvero bella poi la copertina, ovvio riferimento a quella di Face Dances nello stile, ed infatti opera anch'essa di Peter Blake. Solo che all'epoca di Face Dances la copertina era la cosa più bella dell'album, qui per fortuna non è così.
Se solo non si fosse caduti anche qui nelle insidie dei mastering moderni...


giovedì 5 dicembre 2019

Pink Floyd - I Migliori Bootleg (1967-1977)

Quindi, dopo i Queen e i Led Zeppelin, è arrivato il momento di un'altra delle mie band preferite. Ancora una volta, ho selezionato alcune registrazioni che trovo particolarmente piacevoli o interessanti e le ho elencate cronologicamente. Rispetto agli altri due articoli di questo tipo che ho scritto precedentemente, questa volta è stato più difficile trovare registrazioni di buona qualità, quindi alcune di queste potrebbero non essere facilmente ascoltabili da chiunque non abbia molta esperienza con i bootleg.

Ho deciso di concentrarmi su un periodo di 10 anni, dal 1967 al 1977, sostanzialmente perché fu la fase più interessante per quanto riguarda le esibizioni dal vivo dei Pink Floyd. A poco a poco, infatti, sostanzialmente smisero di improvvisare, ma lo fecero ancora qua e là nel almeno fino al 1977. Successivamente, con The Wall e i tour "post-Waters", i concerti furono ben diversi: eventi grandi e spettacolari, che per via della loro natura finivano per essere organizzati nel minimo dettaglio, non lasciando spazio a differenze di sera in sera. Inoltre, abbiamo a disposizione pubblicazioni ufficiali per tutti quei tour, quindi non ci sono molti motivi per andare a cercare bootleg, a meno che non si amino quei tour e se ne desideri di più.

PREMESSA


Per anni, se non decenni, alcune registrazioni bootleg molto famose sarebbero inevitabilmente state nominate ogni qual volta si avesse avuto la necessità di parlare dei Pink Floyd dal vivo: cose come le BBC Sessions '67 -'71, Wembley '74, Amsterdam '69 ... Ma dall'uscita del cofanetto "The Early Years 1965 - 1972" molte di quelle registrazioni sono state ufficialmente pubblicate (Wembley '74 faceva parte delle versioni 2011 di Dark Side e Wish You Were Here, diviso in due parti, e il bis è in The Early Years), quindi qui non parlerò di quelli, e cercherò alternative. Tuttavia, ci sono state discussioni sulla qualità sonora di quelle versioni ufficiali (specialmente le registrazioni alla BBC), e sembrano esserci alcune versioni bootleg che suonano meglio; quindi potrebbe valere la pena fare una ricerca. Inoltre, alcune outtake in studio su The Early Years sono state remixate (in particolare Vegetable Man e Scream Thy Last Scream), quindi se volete ascoltare il mix originale, i bootleg sono ancora la scelta migliore.


Rotterdam, 13/11/1967



Iniziamo con l'unica registrazione con Syd Barrett che ho scelto di includere. Il concerto di Stoccolma su The Early Years è senza dubbio la migliore rappresentazione di questa formazione dal vivo (insieme alle sessioni alla BBC), ma se si vuole ascoltare di più, nonostante la qualità del suono appena accettabile, si potrebbe prendere in considerazione questo. La setlist è più o meno la stessa di Stoccolma, ed in entrambe queste registrazioni le voci sono appena udibili. Quindi immagino che non sia stato un problema tecnico sporadico a causare ciò: in realtà suonavano proprio così, e non è dato sapere se si tratti di una scelta o il risultato di un'amplificazione inadeguata. Consigliato ai completisti. Inoltre, è interessante ascoltare Set The Controls For The Heart Of The Sun con Syd Barrett.


Paradiso, Amsterdam 23/05/1968


Ancora una volta, non la migliore qualità sonora qui, ma uno dei migliori documenti dei primi Pink Floyd con David Gilmour, a parte le BBC session. La maggior parte delle versioni bootleg di questa data contengono due spettacoli dello stesso giorno, di circa 50 minuti ciascuno. Si possono ascoltare nuove canzoni che trovano posto nella setlist: come Let There Be More Light, A Saucerful Of Secrets, Keep Smiling People (una versione primordiale di Careful With That Axe Eugene), insieme a cose più vecchie come Interstellar Overdrive e Flaming.

Royal Albert Hall, London 26/06/1969



Grazie all'uscita ufficiale del concerto di Amsterdam del 1969 in The Early Years, ora abbiamo la migliore versione di The Man & The Journey esistente a livello sonoro; quindi ho pensato che sarebbe stato interessante cercare un'altra registrazione di quell'epoca. Questa è tristemente incompleta (inizia con Afternoon / Biding My Time) e non suona certo bene come Amsterdam, ma è comunque molto interessante da ascoltare. Probabilmente il più grande punto di interesse è The End Of The Beginning, dove Richard Wright si siede all'organo a canne della Royal Albert Hall e la Royal Philarmonic Orchestra con il coro Ealing Central Amateur si uniscono in seguito, creando un climax incredibile, oltre che i primi segni cosa sarebbe successo un anno dopo (Atom Heart Mother).

9 ° National Jazz Pop Ballads & Blues Festival, Race Tracks, Plumpton 08/08/1969


Un altro documento interessante del 1969, con una scaletta che è una via di mezzo tra The Man & The Journey e quella più comune, che finirà poi su Ummagumma. Quindi ci sono cose come The Narrow Way pt. III e The Pink Jungle, ma anche Set The Controls, Interstellar Overdrive e così via ... Il suono non è molto buono, ma è comunque ascoltabile.
Se si volesse sapere di più sul festival in questione, vi rimando ad un mio articolo a riguardo:
https://musicalitosi.blogspot.com/2019/11/9th-national-jazz-blues-festival.html


Festival Actuel, Amougies, Belgio 25/10/1969


Il suono qui è forse anche peggio del precedente, ma se riuscite a sopportare ciò e più o meno la solita scaletta di quei tempi, ci si guadagna la presenza unica di Frank Zappa su Interstellar Overdrive! Ovviamente ora ne abbiamo un video in The Early Years, ma l'intero concerto non è lì, quindi ...


Fillmore West, San Francisco 29/04/1970


Qui le cose iniziano a diventare molto interessanti. Il suono è eccezionale, il migliore senza dubbio fino a questo punto, la setlist è lunga e molto buona (insieme alle solite canzoni del 1969, si aggiungono la versione "solo band" di Atom Heart Mother ed Embryo). È probabilmente uno dei migliori bootleg in generale, insieme ad alcune ottime alternative che vedremo tra poco.

Civic Auditorium, Santa Monica 01/05/1970


Solo due giorni dopo e con la stessa scaletta, quindi perché lo includo? Beh, perché il suono è forse anche migliore, e gli spettacoli del 1970 non sono mai abbastanza! Questo in particolare purtroppo non è completo, quindi ci sono alcuni inserti di altri spettacoli per offrire un'esperienza di concerto completa. Caldamente raccomandato!



Civic Auditorium, Santa Monica 23/10/1970


Ancora a Santa Monica, ma pochi mesi dopo. La scaletta è la stessa, ma su Atom Heart Mother abbiamo finalmente orchestra e coro! Oltretutto con una qualità sonora di nuovo ottima! È interessante vedere che Fat Old Sun, rispetto alla registrazione della BBC del 1970, ha già ottenuto un arrangiamento più lungo che rimarrà fino al 1971.


Casino, Montreux 21-22 / 11/1970


Questi due concerti consecutivi sono sicuramente alcuni dei migliori bootleg Pink Floyd di sempre. La setlist è molto simile (ci sono due tracce blues improvvisate alla fine del primo e Interstellar Overdrive alla fine del secondo), e la versione "solo band" di Atom Heart Mother in The Early Years è stata presa dal 21. Entrambi hanno dei "buchi" sparsi nei nastri, che sono stati riempiti con altre registrazioni, purtroppo di qualità minore. Si tratta però di brevi sezioni, e ciò non toglie che si tratti di un gran bel paio di concerti che non posso che consigliare.


Taft Auditorium, Cincinnati 20/11/1971


La BBC session del 1971 è probabilmente il miglior documento di quell'anno, insieme ad alcuni concerti giapponesi probabilmente. Ma ho scelto questo perché, nonostante non sembri così buono come qualità, ha la Embryo più lunga mai suonata: circa 26 minuti, con molte improvvisazioni atte a far passare il tempo necessario alla risoluzione di alcuni problemi tecnici alle tastiere. La cosa interessante qui è notare alcune citazioni a canzoni future come Obscured By Clouds e Childhood's End. Inoltre, ovviamente, Echoes ha ormai trovato il suo posto nella setlist. È anche l'ultima volta che Embryo e Cymbaline vengono suonate, essendo l'ultima data del tour.

Rainbow Theatre, London 20/02/1972


Questa è probabilmente la migliore versione, come qualità sonora, del primordiale Dark Side Of The Moon, quando era ancora chiamato Eclipse. I Pink Floyd suonarono l'intero album per tutto il 1972 e tutto è andato gradualmente al suo posto. La cosa interessante è ascoltare The Travel Sequence, una jam funky al posto di On The Run, The Mortality Sequence, un pezzo di organo con voci registrate al posto di The Great Gig In The Sky, ed altre differenze generali come una Time più lenta cantata in armonia da Gilmour e Wright. E ovviamente, non ci sono ancora coriste e sax aggiunti. La seconda metà del concerto non suona altrettanto bene tristemente, ma vale comunque la pena anche solo per Eclipse.

Hollywood Bowl, LA 22/09/1972


Un altro concerto con la stessa setlist, interessante se volete sentire come si è sviluppato Eclipse / Dark Side con l'avanzare del tour. Questo ha anche una seconda metà dal suono molto migliore rispetto a quella del Rainbow. Un ottimo concerto.

Hallenstadion, Zurigo, 9/12/1972


Questa è una delle ultime date del tour, quindi Eclipse / Dark Side è quasi completamente sviluppato, ma ciò che è interessante qui è la rara ed estesa performance di Childhood's End. Ne vale davvero la pena anche solo per quella canzone, di gran lunga superiore alla sua controparte in studio. Un'ottima alternativa a questa, sempre con Childhood's End nel set, è Bruxelles, 5/12/1972.

Radio City Music Hall, New York 17/03/1973


Un'ottima registrazione del tour di supporto a The Dark Side Of The Moon. Qui l'album viene riprodotto nella sua versione finale, molto vicina all'album (a parte un po 'di improvvisazione in Money e Any Color You Like), quindi niente di veramente interessante o unico qui, soprattutto perché possiamo ascoltare una versione live di Dark side del 1974 in qualità molto migliore (il già citato concerto di fine '74 a Wembley), quindi perché sto suggerendo questo concerto? Beh, principalmente per la prima metà del concerto, che si apre con Obscured By Clouds e When You're In, in versioni più lunghe e improvvisate. Il resto della setlist comprende Set The Controls, Careful, Echoes e One Of These Days, quindi niente di nuovo qui. Vale la pena soprattutto per la coppia di canzoni in apertura. Una buona alternativa è Music Hall, Boston 14/03/1973.


Earls Court, London 19/05/1973


Stessa setlist ma un'altra ottima registrazione. Vale la pena dare un ascolto se si apprezza questo tour e si vuole di più, in quanto è sicuramente un'ottima alternativa a quello di New York.

The Palace Theatre, Manchester 09/12/1974


Ovviamente la registrazione di Wembley pubblicata nelle edizioni Experience di The Dark Side Of The Moon e Wish You Were Here è la prima scelta per questo tour, ma se se ne vuole un altro, probabilmente questo è una scelta obbligata. Il suono ovviamente non è altrettanto buono, essendo una registrazione del pubblico, ma trovo che sia almeno accettabile. Il principale punto di interesse è ovviamente tutta la sezione comprendente Raving And Drooling, You Gotta Be Crazy (Sheep e Dogs) e Shine On You Crazy Diamond nella loro forma iniziale. L'intero Dark Side poi è suonato qui come anche in tutti i concerti del 1975.

Sports Arena, LA 26/04/1975


Probabilmente uno dei migliori bootleg del 1975 in termini di qualità del suono. La setlist è leggermente diversa da quelle del 1974: Raving And Drooling e You Gotta Be Crazy (questa seconda in particolare) sono più vicine alle loro versioni che finiranno su Animals un paio di anni dopo, e Shine On You Crazy Diamond è divisa in due metà, come la versione in studio, interrotta però solo da Have A Cigar. Ammetto di avere ancora un po 'di problemi con Echoes suonata con coriste e sax, ma diciamo che è perlomeno interessante.


Boston Garden, Boston 18/06/1975


Semplicemente una valida alternativa al concerto di Los Angeles se si vuole di più. Buona qualità del suono, anche se forse non altrettanto buona del precedente.

Alameda Coliseum Oakland del 09/05/1977


Il miglior bootleg del 1977, con una qualità del suono eccezionale ed una scaletta spettacolare. Sia Animals che Wish You Were Here sono suonati nella loro interezza (l'ordine delle canzoni di Animals è un po 'diverso: Sheep, Pigs On The Wing 1, Dogs, Pigs On The Wing 2, Pigs) molto vicino alle versioni in studio. Tuttavia, ci sono delle belle improvvisazioni sul finale di Pigs e su Shine On pts. 6-9, portando quei due brani ben oltre la loro versione dell'album. Money and Us And Them sono i primi bis. Stranamente, solo in questa data, chiudono lo spettacolo con Careful With That Axe Eugene, una canzone che non suonavano dal 1973 e non suoneranno mai più dopo questo concerto.

Olyimpic Stadium, Montreal, 06/07/1977


Stessa setlist, peggiore qualità del suono, ma uno dei concerti storicamente più importanti per i Pink Floyd. Questa è la famosa notte in cui Roger Waters avrebbe sputato su di un fan in prima fila. Ovviamente non possiamo sentirlo, ma è chiaro che qualcosa stia succedendo durante l'improvvisazione alla fine di Pigs, dove Waters urla cose come "Come on, boy, all is forgiven!", portando il pezzo ad un climax incredibile come in nessun'altra versione. Possiamo anche sentirlo lamentarsi per i petardi durante Pigs On The Wing. Uno spettacolo molto interessante, da non perdere.

mercoledì 27 novembre 2019

no-man - Love You To Bits (2019) Recensione

Leggendo svariate recensioni in giro mi rendo conto di essere costretto ad un approccio atipico a questo lavoro. Conosco poco o nulla dei no-man, e seguo Steven Wilson dai tempi di The Raven That Refused To Sing, preferendo la sua carriera solista (sì, anche To The Bone) ai Porcupine Tree, che trovo spesso noiosi, a parte qualche pezzo sparso nei vari album.
Insomma arrivo da un punto di vista decisamente diverso da quello più comune, e forse questo influenza la mia visione di questo lavoro, o forse no; io comunque ve l'ho detto.
Non serve che vi dica che i no-man sono sostanzialmente un duo formato da Wilson e Tim Bowness, in particolare qui il primo si occupa degli strumenti e della produzione ed il secondo della voce. Ci sono svariati ospiti come David Kollar alla chitarra, Adam Holtzman alle tastiere e Aviv Geffen alla batteria, tutti ad intervenire col contagocce dove necessario.
L'album in questione, a quanto pare, è il frutto di un'idea risalente agli anni '90 e mai ultimata, e di fatto affonda pesantemente le sue radici nell'electro-pop. Qui molti proggettari potrebbero rabbrividire (e ciò è sempre cosa buona e giusta), ma in realtà Love You To Bits si compone di due suite tra i 17 ed i 18 minuti, certamente caratterizzate da un ossessivo ritmo ripetitivo come tipico del genere, ma che in realtà si sviluppano e si evolvono in modo veramente interessante. Il tema principale ritorna in svariate vesti e contesti, circondato da sintetizzatori e drum machine, e quando entrano strumenti "veri" suonati dagli ospiti sopra citati (specialmente Holtzman e Kollar, che come loro solito sfoderano virtuosismi che però risultano decisamente interessanti visto il contesto), il tutto diventa ancora più interessante, complice anche una produzione meravigliosa.
Se proprio dovessi indicare un punto debole, ahimè, starebbe proprio nel ruolo di Bowness, la cui voce ed interpretazione, volutamente o meno, risulta piatta, ripetitiva, a tratti pericolosamente tendente alla noia. Mi rendo conto che questa considerazione sia strettamente personale, ma sono convinto che le stesse parti cantate invece da Wilson (che diciamocelo, negli ultimi anni è migliorato non poco come cantante) avrebbero fatto ben altra figura.
Detto questo, non si può negare il fatto che Love You To Bits tenti di fare qualcosa di genuinamente "nuovo" e originale, poi che ci riesca o meno sta al singolo ascoltatore deciderlo. Combinare queste sonorità con un formato tipico del progressive e pubblicarlo in questo 2019 in cui ancora c'è gente che viene idolatrata per aver messo un riff metallone su una base di mellotron cori (IQ ehm...), è una scelta quantomeno coraggiosa, anche più di quanto fu la tanto odiata (non da me) Permanating. Poi certo, molte scelte melodiche ed armoniche sanno pesantemente di già sentito, specialmente se si segue il signor Wilson da un po' di tempo, ma diciamo che tenterò di chiudere un occhio in questo caso.
Non sto a dilungarmi sulle varie sezioni delle due suite presenti nell'album, in quanto sono sicuramente meglio apprezzabili nel loro contesto; ma in generale mi sento di dire che la seconda metà, Love You To Pieces, si rivela essere un po' più interessante e varia, mentre la prima tende forse a "sedersi" un po' troppo sul tema principale, interrompendosi praticamente solo all'entrata di un bel riff di chitarra di Wilson e per l'assolo di Kollar.
Se però ci si lascia prendere da questi appena 35 minuti di musica senza troppi pregiudizi o aspettative, si potrebbe rimanere perlomeno sorpresi. E al giorno d'oggi non è poco.
In coda, aggiungo che se si è apprezzato l'album, potrà interessare il brano "bonus" uscito insieme al primo singolo estratto: Love You To Shreds (Shreds 1-3), più tendente all'ambient ma comunque coerente e piacevole espansione di un lavoro altrimenti piuttosto breve.

mercoledì 20 novembre 2019

Mikayel Abazyan - Westerlies (2019) Recensione

Siamo arrivati al secondo lavoro di musica inedita ad opera di Mikayel Abazyan, seguito dell'ottimo Something More uscito poco più di un anno fa. Nonostante il relativamente poco tempo passato tra le due uscite, e tenendo conto anche del fatto che le prime idee del lavoro in questione risalgono a prima dell'uscita di Something More, ci troviamo di fronte ad un album decisamente diverso, sia nelle intenzioni che nei risultati. Certamente ci sono degli elementi comuni, come è normale che sia, ma non a tal punto da condannare Westerlies al semplice destino di "secondo capitolo".
La prima differenza sta nelle premesse dietro i due lavori: se Something More è un album personale in tutto e per tutto, anche nei testi, Westerlies parte invece dalla letteratura inglese e, sostanzialmente, la "mette in musica". Ciò però non deve trarre in inganno e far pensare a questo album come ad una semplice raccolta di poemi musicati o un tributo alla poesia, in quanto tutte le opere presenti sono state scelte per motivi ben precisi. 
Ci si trovano opere di Byron, Shakespeare, Blake, fino ad arrivare al più antico esempio scritto di poesia inglese, Western Wynde, una canzone del sedicesimo secolo su cui ci si interroga da secoli sul significato. Ciò ha spinto Mikayel a creare lui stesso una storia da quel punto di partenza, utilizzando le suddette opere per raccontarla. 
Come se non bastasse, a ciò ci si aggiungono degli intermezzi recitati, che fanno a volte da introduzione, altre da intermezzo, e portano avanti la storia aggiungendo un tocco di teatro ad un lavoro che già contiene al suo interno poesia e musica. 
E cosa dire sulla musica? Ci sono indubbiamente punti in comune con Something More, soprattutto laddove le interpretazioni e le atmosfere guardano ai lavori dei Van Der Graaf Generator e Peter Hammill, come in Despondency; tuttavia però si aggiungono elementi inediti degni di nota, come la squisita resa acustica di The Divine Image o il totalmente inaspettato tuffo nel metal con violino di England in 1819, fino all'epica conclusione con la lunga title track, che parte da atmosfere non lontane da una Meurglys III di "Vandergraafiana" memoria per poi lasciarsi andare ad aperture degne di certe cose dei Pink Floyd. L'album è molto variegato in termini di sonorità e generi musicali presenti, proprio come lo era già Something More e forse ancor di più. Certamente la decisione di inserire intermezzi parlati può piacere o non piacere, specialmente perchè, di fatto, spezza il ritmo dell'album e lo rende un po' meno scorrevole, ma si tratta di una decisione audace che contribuisce a rendere il tutto un lavoro più "completo".
Non mi dilungo raccontando quella che è la mia personale interpretazione della storia raccontata in Westerlies, sia perchè la mia ignoranza in termini di poesia sicuramente non mi permette di cogliere ogni singolo particolare, sia perchè credo che il bello di quest'album stia proprio nel capire individualmente di cosa si tratta, del perchè sia stato scelto proprio quel poema e non un altro e così via.
Di certo quello che posso dire è che Westerlies è un lavoro ambizioso, completo nel suo approccio aperto a più discipline artistiche (musica, poesia e teatro), che richiede impegno nell'ascolto pur non essendo affatto ostico, e che sa ripagare dell'attenzione prestata. Ottimo poi il lavoro di tutti coloro coinvolti, dai musicisti agli attori, che non sto ad elencare in quanto potete trovare i crediti completi nel link a Bandcamp qui sotto.
Non posso fare a meno di consigliare questo lavoro a chiunque, specialmente se si ha un debole per la letteratura inglese; non ve ne pentirete.
https://mikayelabazyan.bandcamp.com/album/westerlies

venerdì 15 novembre 2019

The Deviants - Ptooff! (1967) Recensione

In un periodo storico pieno di capolavori frutto di una continua spinta e progressione in quello che era il pop di quegli anni, si può letteralmente pescare album a caso e rimanere stupiti ogni singola volta. Ovviamente l'album in questione ha negli anni raggiunto uno status di lavoro essenziale e di culto, prodotto da quella cultura underground dedita alla psichedelia e alle più folli sperimentazioni, però diciamo che le premesse non è che ci fossero state. I Deviants infatti realizzarono il loro album d'esordio in modo indipendente, finanziati da tale Nigel Samuel, all'epoca milionario ventunenne (anche se pare che la cifra in questione fu di circa 700 sterline), e lo pubblicarono tramite la propria etichetta Underground Impresarios, rendendolo però disponibile solamente su ordinazione tramite le varie testate giornalistiche underground inglesi, come l'International Times e OZ. Poco dopo però la Decca intervenne, ne acquistò i diritti e lo pubblicò in modo più convenzionale. Di fatto però fu palese l'intenzione dei Deviants di rimanere una realtà underground, come anche indicato per iscritto all'interno dell'album originale ("the deviants underground l.p.").
L'album in questione è un capolavoro di Pop art, con i piedi ben affondati nella psichedelica underground di quel magico 1967. Sia la magnifica copertina che il titolo pescano ovviamente dall'arte fumettistica, ed il tutto rappresenta quasi perfettamente il conglomerato esplosivo di colori e suoni che si possono trovare all'interno dell'album.
Album che alla musica affianca sezioni parlate, come la vera e propria introduzione accolta da comicamente sporadici e pacati applausi, e che più volte ricorre al blues come veicolo del proprio suono. Non si tratta però del blues classico, e neanche si anticipano i riarrangiamenti futuri dei Led Zeppelin, bensì lo si sfrutta come scheletrica base per le derive più inquietanti ed acide, non distanti da certe cose di Captain Beefheart. Scariche elettriche improvvise e voce urlata di Mick Farren non possono lasciare indifferenti in I'm Coming Home, e sono in totale contrasto con la folkeggiante Child Of The Sky, che però ben spezza il ritmo prima del ritorno al blues in Charlie. Con Nothing Man e Garbage si raggiunge il cuore di questo lavoro, fatto di musica imprevedibile, filastrocche, sezioni recitate, parti volutamente sgradevoli che anticipano il punk di un decennio, regalandoci una perfetta rappresentazione della cultura freak di quegli anni. La breve e gradevole strumentale Bun ci prepara all'apoteosi di Deviation Street. Quasi un brano-manifesto per i Deviants e perfetta conclusione dell'album, Deviation Street sembra essere uno spettacolo teatrale in preda all'anarchia messo in musica con voci, suoni e rumori di contorno: se si dovesse indicare una perfetta rappresentazione della psichedelia più "malata", questo pezzo sarebbe certamente in cima ad una ipotetica lista.
Ptooff! è molto più di un album: è un'esperienza di ascolto. In giro si sprecano i commenti su quanto sia bello ascoltarlo sotto effetti di droghe di vario tipo, ma sarebbe ingiusto limitare il fascino dell'album a quelle precise condizioni, in quanto al suo interno ci sono molti punti oggettivamente validi, interessanti ed originali. Al di là degli aspetti strettamente musicali, poi, non ci si può dimenticare delle premesse dietro la sua pubblicazione, che in un certo senso anticipano quello che sarà l'indie di lì a qualche decennio, oltre alle già citate tendenze proto-punk che in realtà erano piuttosto diffuse in quegli anni.
Di fatto però Ptooff! è uno dei principali e più riusciti lavori della psichedelia underground inglese di fine anni '60; un ascolto essenziale per chiunque sia interessato a quel periodo storico, sia dal punto di vista musicale che anche, più ampiamente, da quello di esponente di una cultura ed un periodo storico ben preciso. Un'opera d'arte imperfetta, sporca, a tratti anche sgradevole, ma che proprio per questo va ascoltata. 

martedì 12 novembre 2019

Jeff Lynne's ELO - From Out Of Nowhere (2019) Recensione

A quattro anni dal precedente Alone In The Universe, Jeff Lynne, ormai accompagnato dalla sigla ELO in quanto oggi proprietario unico del nome, ci regala un altro piccolo gioiellino pop.
Sono lontani i tempi dei vecchi ELO, quelli grandiosi ed orchestrali che sfornavano capolavori come Eldorado e Out Of The Blue; oggi di quella band è rimasto letteralmente solo Jeff Lynne. E dico letteralmente in quanto questo album ed il precedente sono opere realizzate in quasi completa solitudine, con Lynne ad occuparsi di ogni voce ed ogni strumento su disco, oltre alla composizione e produzione. C'è chi critica questo approccio, in quanto convinti che un classico scambio di idee tra più membri e qualche contributo in più da parte di diversi musicisti possa giovare alla sua musica, soprattutto vista l'essenzialità del suo stile esecutivo, specialmente alla batteria. Ci si chiede come mai non coinvolga qualche membro della sua attuale, magnifica, live band ad esempio.
Personalmente invece posso capire il suo punto di vista, e credo che sia difficile per una persona perfezionista come lui, per di più alla sua età, scendere a compromessi.
L'album in questione si tratta in sostanza di una breve, forse troppo, raccolta di dieci canzoni una più contagiosa dell'altra. Se al primo ascolto il tutto può sembrare, come direbbero gli anglofoni, "underwhelming", specie se ci si aspetta un altro Out Of The Blue, al secondo ed al terzo giro già canticchierete ogni singolo ritornello.
In generale From Out Of Nowhere sembra essere un po' più vivace e meno nostalgico del precedente Alone In The Universe, risultando forse un po' meno vario ma certamente più coinvolgente e "vivo".
Se la title track e la auto-celebrativa Time Of Our Lives (con una geniale citazione a Telephone Line), uscite come singoli, anticipavano in modo eloquente l'album, è anche vero che al suo interno ci sono chicche inaspettate. In mezzo a brani relativamente tipici come Help Yourself e Sci-Fi Woman, ci sono cose come la commovente Losing You, lento brano dai toni sinfonici tra i migliori di Lynne dai tempi della A Love So Beautiful scritta per Roy Orbison, o il frenetico rock and roll di One More Time, con un inaspettato intermezzo prima di archi sintetizzati e poi di piano alla Jerry Lee Lewis suonato dall'unico ospite dell'album: lo storico tastierista degli ELO Richard Tandy. Nel mezzo c'è la stranamente quasi caraibica All My Love, interessante ma forse un pelo troppo ripetitiva, la bellissima Down Came The Rain, che non avrebbe sfigurato in una delle collaborazioni tra Lynne e Tom Petty, e la conclusiva Songbird, forse l'unica sua incursione in territori quasi gospel.
Particolarmente piacevoli sono poi i numerosi interventi chitarristici presenti in ogni canzone, spesso suonati con tecnica slide, in uno stile decisamente melodico ed apertamente reminiscente del lavoro di George Harrison. Per non parlare poi della sua voce praticamente intatta nonostante il passare dei decenni.
Si leggono in giro molte critiche al lavoro di produzione e, specialmente, di mastering sia di questo album che di quelli immediatamente precedenti ad opera di Lynne. É palese che negli anni il suo stile si sia spostato verso un suono più "chiuso", compresso all'inverosimile, caldo, non lontano da certi album indie anni '90, senza però mai sfociare nel lo-fi. Si tratta di un suo trademark ormai, di cui le prime tracce risalgono ai suoi lavori di fine anni '80, e che ovviamente può piacere o irritare: è il prezzo da pagare quando si ha uno stile personale.
In definitiva, From Out Of Nowhere sembra quasi essere una perfetta seconda parte di Alone In The Universe, e con esso condivide lo stesso difetto: la brevità. L'album dice quello che deve dire senza perder tempo e, semplicemente, finisce. Senza neanche arrivare a 33 minuti.
La memoria torna agli anni '60, ai Beatles e ai Beach Boys, con l'unica differenza nel fatto che allora la brevità degli album era mitigata da uscite multiple annuali. Se si sorvola su questo ci si trova al cospetto di un piccolo gioiellino come ne escono veramente troppi pochi al giorno d'oggi; di un pop semplice, positivo, universale, gioioso, semplicemente bello e sempre piacevole all'ascolto. Un album che è riuscito a scalare la classifica britannica fino a fermarsi al primo posto (non male per un quasi settantaduenne), e che nonostante questo sembra non esistere nel nostro "bel Paese", dove proprio non se ne parla.
Ciò credo valga più di mille parole sulla nostra cultura musicale, specie nell'ambito del pop.
Ascoltatelo subito se non l'avete già fatto!

lunedì 11 novembre 2019

9th National Jazz & Blues Festival - Plumpton (8 - 9 - 10 Agosto 1969)

Tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 ci furono innumerevoli festival che definire leggendari è fin riduttivo. Da Monterey a Woodstock, dalle varie edizioni del free festival all'Hyde Park fino all'isola di Wight, molti hanno indubbiamente fatto la storia diventando un simbolo di un preciso periodo storico. Questi grossi festival non furono però gli unici di quei tempi, e non si contano infatti quelli che, magari per via di budget ed organizzazioni più modeste, vengono ricordati un po' meno. Si può dire che sia il caso di questa nona edizione del National Jazz & Blues Festival. Eppure i nomi importanti c'erano, così come il pubblico, presente in gran numero, ma in ogni caso non ha avuto l'impatto di altri eventi contemporanei.
Fondato nel 1961 da Harold Pendleton, creatore del Marquee Club, questo festival negli anni subì una forte evoluzione, di pari passo con i grandi cambiamenti nel mondo musicale in atto negli anni '60. Nonostante i due generi presenti nella sua denominazione, non è difficile immaginare la presenza di band che allora venivano inserite nel calderone del "Pop" (non per niente in alcuni cartelloni del festival a blues e jazz venivano aggiunti pop e ballads), in un destino in un certo senso analogo ad altri festival anche di questi giorni, come quelli jazz di Montreux e Lugano.
Ma perchè proprio questa nona edizione e non, ad esempio, la decima con nomi come Black Sabbath, Deep Purple e Van Der Graaf Generator? Beh, perchè una decisione bisognava prenderla, e magari a quella ci si torna in un altro articolo in futuro.
Nella nona edizione, svoltasi nell'arco di tre giorni tra l'8 ed il 10 Agosto 1969, la lineup fu molto variegata, ma fu anche un'edizione segnata da problemi di vario tipo. L'idea iniziale era infatti quella di far svolgere il festival a West Dreyon, nel Middlesex, ma a causa del mancato rilascio del permesso da parte del Consiglio Comunale, fu presa la decisione di spostarsi nell'East Sussex, a Plumpton , nell'ippodromo. Ciò causò un po' di confusione nei poster rilasciati, che infatti sono reperibili in due versioni con entrambi i luoghi suddetti indicati come sede del festival.
Quello che si può notare guardando la locandina è l'enorme quantità di artisti e band presenti in un tempo relativamente esiguo. Chi suonò di più infatti arrivò ad un'ora o poco più, ma furono in molti ad avere dai 20 ai 40 minuti. In aggiunta furono allestite due aree per le esibizioni, una denominata "village" ed un'altra "arena", con varie sovrapposizioni di band che si sono esibite in contemporanea. Questo obbligava il pubblico a scegliere chi ascoltare perdendosi di conseguenza qualcun altro, cosa difficile da concepire al giorno d'oggi.

Il Venerdì prevedeva solamente esibizioni serali, a differenza degli altri due giorni in cui si partiva già dal pomeriggio. Da alcune recensioni definito come il giorno meno interessante, ha potuto comunque vantare nomi particolari come gli East Of Eden e la band di Keith Tippett, culminando con la doppietta formata dai Soft Machine e dai Pink Floyd. I primi però furono piuttosto sfortunati, in quanto la loro esibizione si interruppe per un'ora a causa di un guasto tecnico, tra le proteste del pubblico. Proteste che pare durarono relativamente poco visto che, stando ad alcuni report, quando arrivarono i Pink Floyd molti si erano ormai addormentati. All'epoca i Soft Machine erano reduci dall'ottimo Volume 2, e da poco in formazione a 4 con l'aggiunta di Brian Hopper al sax; a quanto pare però l'unico brano suonato fu l'allora inedita Moon In June, interrotta per ben due volte per i già citati problemi tecnici. Chi era presente racconta di come Robert Wyatt, preso dalla rabbia e dalla frustrazione alla realizzazione di ciò che era successo iniziò ad agitarsi, lanciò in giro parti della sua batteria e collassò sul palco.

Fortunatamente esiste una registrazione:

Dopo un'ora di buio, e dopo aver risolto i problemi tecnici, ecco arrivare i Pink Floyd. All'epoca erano nel pieno del loro periodo tra Ummagumma e The Man & The Journey, forse la loro fase più sperimentale in assoluto; ed infatti la scaletta, seppur più breve del solito vista l'occasione, ben rappresenta questa fase. Dopo un inizio con Set The Controls For The Heart Of The Sun e Cymbaline si tuffano nell'intera The Journey, tornando poi per i due bis A Saucerful Of Secrets ed Interstellar Overdrive.
Anche di questa esibizione esiste una registrazione bootleg:


Interessante però citare un estratto di una recensione dell'epoca:
"Avendo ascoltato l'Azimuth coordinator all'opera più volte quest'anno, l'effetto novità sta iniziando a svanire e anche i Floyd stanno diventando un po' "blasé" con i gabbiani registrati! Ma hanno suonato bene, soprattutto "Cymbaline" e "The Journey" sono state efficaci, con altoparlanti stereo che rimbombavano sul campo."
L'Azimuth Coordinator era un aggeggio comandato da Wright con un joystick che permetteva di spostare il suono in giro per la platea, spesso con sistemi quadrifonici. Ora, al di là dei pareri personali espressi qui sopra, condivisibili o meno, è interessante notare come, all'epoca, qualcosa che era stato visto già qualche volta nell'arco di un anno iniziasse a suscitare meno interesse e a perdere fascino. Se pensiamo che oggi in media un semplice tour di un qualunque artista dura almeno due anni e gli album escono ogni 4-5, certamente i tempi sono cambiati parecchio!

Il Sabato fu la prima delle due giornate più "sostanziose", con esibizioni fin dal primo pomeriggio. Il primo nome fu nientemeno che Peter Hammill, con appena venti minuti di tempo per la sua esibizione. Interessante leggere le parole di alcuni report dell'epoca, soprattutto questo di tale Lon Goddard: "La voce di Peter ricordava Roy Harper e Al Stewart, che spesso si assomigliano a vicenda nella pronuncia, aveva un buon controllo della voce che sembrava andare alla deriva proprio al di sotto di quel grado di allenamento che caratterizza un cantante abile. Testi e melodie tendono al folk, e sembra essere uno dei talenti del futuro".
Seguirono poi altri nomi come quello di Roy Harper, penalizzato anche lui da problemi tecnici, che aggiunti al cambio di programma che lo fece suonare prima e solamente per venti minuti anziché i quaranta pattuiti, finirono per farlo suonare appena per dieci minuti.
Di certo la parte del leone quel pomeriggio fu della Bonzo Dog Band che, nonostante il loro iniziale rifiuto vista la difficoltà di trasmettere il loro umorismo ad un ampio pubblico da festival, fecero un figurone. Valore aggiunto fu la presenza a sorpresa di Keith Moon, che salì sul palco inizialmente mascherato e si unì a loro suonando la batteria in I'm The Urban Spaceman, salvo poi fermarsi anche per il bis di Monster Mash. Altre fonti parlano anche di Breathalyzer Baby tra i brani suonati con Moon.

Uno dei nomi che certamente merita menzione tra coloro che si esibirono la sera sono gli allora neonati Yes (in cartellone riportati con un punto esclamativo). Tra paragoni con i ben più famosi, allora, Nice e apprezzamenti per la peculiare voce di Jon Anderson e l'interessante approccio nelle molte cover allora in scaletta, di certo un piccolo segno lo lasciarono. In particolare si può trovare online il racconto di Richard Thomas, allora membro dei Breakthru, altra band in cartellone nel festival, che fu molto colpito da Bill Bruford, tanto da smettere di seguire la band nel momento in cui se ne andò nei King Crimson.
E parlando di King Crimson: mentre tutto ciò si stava svolgendo sul palco principale, nel "village", insieme ad altre band, si esibivano proprio Fripp e soci, senza ancora aver pubblicato il primo album. La scaletta comprese solamente due brani dall'allora inedito In The Court Of The Crimson King, insieme alla cover di Get Thy Bearings di Donovan, notevolmente estesa dalle improvvisazioni, altri inediti come Mantra e Travel Weary Capricorn, alcune improvvisazioni ed il riarrangiamento di Mars di Hostl.
Di questa esibizione esiste un bootleg registrato dal pubblico, pubblicato poi dalla DGM come CD aggiuntivo nel cofanetto Epitaph. Perchè "niente foto e registrazioni ai nostri concerti però poi i bootleg li vendiamo".
Curioso poi notare come nel primo manifesto dell'evento fossero presenti anche gli Idle Race, primissima band di Jeff Lynne che avrebbe meritato molta più fortuna, appena prima dei King Crimson, salvo poi sparire dal manifesto definitivo per motivi ignoti a chi scrive. Secondo alcune fonti, però, si esibirono comunque in quello che fu il concerto di più alto profilo in assoluto per loro, anche se non ci è dato sapere quando di preciso.
Tornando al palco principale, nonostante svariati ritardi che portarono uno dei gruppi più alti in cartellone, i Fat Mattress, a non esibirsi, la chiusura è affidata agli Who. Nel pieno del tour di supporto a Tommy ed appena una settimana prima della loro leggendaria esibizione a Woodstock, la band sfoggiò la tipica scaletta dell'epoca, comprendente una manciata di singoli, un paio di cover ed una selezione di brani da Tommy, in versione ridotta per via del contesto. Il finale del concerto è ben raccontato di nuovo dalle parole di Lon Goddard:
"Dopo Substitute e Shakin' All Over Townshend ha detto:"Non ci piace arrivare, andarcene e poi tornare di nuovo, quindi avrete un bis che vi piaccia o no, ho. ho." Detto questo, Roger si lanciò in urla folli, le bacchette di Keith volarono per miglia nella notte, Pete attaccò letteralmente la sua chitarra e la tipica distruzione "a la Who" nacque di nuovo per l'occasione. Pete sbatté la sua chitarra contro il suo corpo, il pavimento e alla fine la fece schioccare a metà sopra la sua testa mentre un applauso di proporzioni senza pari partì dalla folla catturata. Un  finale che semplicemente non poteva essere seguito da niente o nessuno. Forse il più grande set che gli Who hanno fatto, non ha lasciato un'anima senza ispirazione e tutti e quattro i loro volti sono stati irradiati da puro godimento, dalla prima nota dinamica ai resti sfilacciati della chitarra di Townshend."

Tra le band più note che si esibirono la Domenica sul palco principale (escludendone molte che si esibirono al "village" di cui non esistono testimonianze, tra cui gli Affinity e i Julian's Treatment), oltre all'apertura di Ron Geesin, ci furono i Family, che stando ai racconti regalarono una magnifica esibizione, tanto da esser richiamati per un bis. Mentre ancora il pubblico richiedeva ulteriori bis ai Family, prese posto sul palco il cast del musical Hair. Scelta questa molto particolare ed audace visto il contesto, ed infatti il pubblico parve non apprezzare molto, a giudicare dagli oggetti volanti diretti verso il palco, almeno ad inizio esibizione. Le cose migliorarono, per fortuna, man mano che brani certamente più noti come Acquarius e Let The Sunshine In vennero eseguiti.

Una lunga preparazione precedette l'esibizione dei Nice di Keith Emerson, piazzata in chiusura. In questa occasione la band decise di esibirsi con l'orchestra, in linea con una tendenza che proprio in quel periodo si faceva sempre più predominante. Solamente quattro ore di prove precedettero l'esibizione, che fu martoriata da grosse differenze di volume tra la band e l'orchestra, ed una gran difficoltà per i tre dei Nice di sentirsi sul palco. Diversamente da quanto si possa credere, nonostante la presenza dell'orchestra, non fu eseguita la Five Bridges Suite, che di fatto ebbe la sua premiere qualche mese dopo, ad Ottobre. Ci fu invece un primo set con l'orchestra introdotto dal Brandenburg Concerto di Bach, un breve set centrale con solamente la band, ed una ripresa finale con band e orchestra in Rondo ed un brano di Prokofiev. Nonostante tutte le difficoltà, stando ai report dell'epoca, l'esperimento sembrò funzionare e piacque molto al pubblico presente.

Insomma, pur con tutti gli imprevisti e le difficoltà, questo festival ebbe ben poco da invidiare ai ben più blasonati eventi più o meno contemporanei (ricordiamoci che giusto una settimana dopo ci fu Woodstock e, a fine mese, l'edizione del '69 dell'isola di Wight, che non fu l'edizione più celebrata ma comunque fu molto importante), ed è un peccato che non esistano molte testimonianze. L'album live dei King Crimson ed il bootleg dei Pink Floyd linkato poco sopra sono le testimonianze più "sostanziose" ed interessanti, specialmente per i primi viste le poche registrazioni dell'epoca (mentre per quanto riguarda i Pink Floyd i bootleg di quell'anno non si contano).
Il festival mantenne questo formato eclettico e variegato ancora per un paio di anni, fino a quando si trasferì definitivamente a Reading e finì per dare spazio principalmente a musica rock, tanto da diventare, nel 1976 "Reading Rock", ed affermarsi come uno dei maggiori festival hard rock e metal nei successivi decenni.

Qui sotto qualche breve testimonianza video dell'evento:


mercoledì 30 ottobre 2019

Marillion - With Friends From The Orchestra (2019) Recensione

Sono ormai almeno un paio di anni abbondanti che i Marillion ospitano sui loro palchi il quartetto d'archi In Praise Of Folly, a cui nel tempo si sono aggiunti Sam Morris al corno francese ed Emma Halnan al flauto. All'inizio furono presenti solamente in alcuni brani (si pensi ai Marillion Weekend del 2017), poi si guadagnarono metà scaletta del concerto (si veda il live alla Royal Albert Hall, di fine 2017), ed ora siamo alle porte di un tour dove l'elemento orchestrale sarà costantemente presente. Ciò sta a monte della decisione di pubblicare l'album in questione, che altro non è se non una raccolta di brani ri-arrangiati e ri-registrati con la presenza dei suddetti musicisti.
Comprensibilmente la selezione dei brani lascia fuori quelli già suonati dal vivo precedentemente e presenti in qualche album live (soprattutto quello alla Albert Hall), e quindi brani altrimenti ovvi come The Space, Neverland o The Great Escape non sono presenti.
D'altro canto però ciò che trova posto lascia poco spazio a lamentele: con brani come This Strange Engine, Season's End e l'epica Ocean Cloud, tra le altre, a rappresentare sostanzialmente tutta la discografia post-Fish con un occhio di riguardo ai brani più ariosi e dai toni più sinfonici già originariamente.
Certamente un quartetto d'archi e due ottoni non stravolgono il suono della band quanto potrebbe fare un'intera orchestra (operazione, questa, già vista affrontare molteplici volte da parte di altri artisti e, forse proprio per questo, un pelo più banale), sollevando quindi qualche dubbio sull'effettiva necessità di pubblicare un album del genere, consci del fatto che i concerti siano una cosa e gli album in studio un'altra. Ed infatti i brani sono molto fedeli agli originali, ma è impossibile negare che la resa sonora generale, elementi orchestrali o meno, sia decisamente migliore in molti brani se confrontati con le versioni originali. Intendo soprattutto pezzi estratti dagli album anni '90, come Estonia, This Strange Engine, Season's End, che laddove ai tempi soffrivano forse di una produzione piuttosto freddina, qui guadagnano decisamente in calore e coinvolgimento. Certo poi la maturità della band e l'esperienza del suonare questi brani centinaia di volte influenza enormemente la resa dei suddetti brani, regalando loro una convinzione che per forza di cose non poteva esserci ai tempi, trattandosi di brani allora nuovi.
Ma l'orchestra? Beh, in alcuni punti riesce effettivamente a donare qualche colore nuovo ai brani, senza mai essere invasiva ma, anzi, rimanendo spesso nelle retrovie. Di fatto il più delle volte si limita ad "aumentare" il suono, con un approccio già visto nei precedentemente citati album live.
Insomma se siete fan di questa band, apprezzate i brani qui presenti e volete ascoltarne una nuova versione, questo album è per voi. Diversamente, così come per il fu Less Is More e forse ancor di più (visto che almeno in quell'album i ri-arrangiamenti furono sostanziali, seppur a tratti discutibili), c'è il forte rischio che questo lavoro finisca nella temibile categoria del "lo ascolto una volta per curiosità e poi lo metto nello scaffale per il resto della mia vita".

lunedì 21 ottobre 2019

Flying Colors - Third Degree (2019) Recensione

Ormai le band con Neal Morse e Mike Portnoy in formazione quasi non si contano più, così come le loro uscite discografiche. Quest'anno c'è già stato The Great Adventure della Neal Morse Band, poco tempo fa ha visto la luce l'album in questione, il terzo dei Flying Colors, ed ora pare che stiano risvegliandosi i Transatlantic: siamo quasi all'overdose!
C'è da dire però che i Flying Colors (che oltre a Neal Morse e Mike Portnoy vantano la presenza di Steve Morse, Dave LaRue e Casey McPherson) mi sono sempre piaciuti, e nonostante sia opinione diffusa il fatto che il loro primo album sia superiore al secondo, ammetto di aver apprezzato entrambi i lavori quasi allo stesso livello. Non potevo quindi che essere più che felice all'annuncio dell'atteso terzo lavoro di questa band, che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto essere una sorta di "sfogo" per Morse e soci, qualcosa di più tendente al pop-rock e meno al pomposo progressive che di solito si associa, giustamente, al loro nome. Questo è forse il motivo del mio interesse nei loro confronti: il poter assistere a ciò che questi musicisti fossero in grado di fare in un "genere" che si allontana dal loro solito. Ed effettivamente nei primi due album, con alti e bassi, credo siano riusciti a combinare discretamente questi due "mondi", regalandoci pezzi spesso piacevoli e memorabili.
Ma poi arriva Third Degree. Certamente al suo interno è presente del bel pop in brani come la ballatona strappalacrime You Are Not Alone o la magnifica Love Letter, a tratti poi la band sembra voler osare in territori funk piuttosto eclettici in Geronimo, tra le cose più interessanti dell'album. Il problema è che praticamente tutti gli altri brani sembrano avere delle discrete idee melodiche che però, puntualmente, vengono diluite inutilmente con eccessive ripetizioni o con inutili e forzati intermezzi strumentali, ovviamente in pieno stereotipo prog. Cadence è piacevole, ma appunto troppo lunga, Last Train Home ha belle melodie, ma di nuovo cade nel prog quando non necessario, così come Crawl, che però ha momenti veramente molto belli. Altri brani come More e The Loss Inside invece sembrano avvicinarsi pericolosamente allo stile dei Muse, cosa di cui nessuno penso abbia veramente bisogno. A parte i fan dei Muse, e quindi non chi scrive. Poi certamente sul come sono suonati i brani non c'è proprio niente da dire vista l'eccellenza del personale coinvolto, compreso McPherson alla voce, che forse soffre solamente dall'avere un timbro vocale un po' troppo comune di questi tempi.
Il punto è questo: infarcire i brani di sezioni prog non è di per sé un problema, ma il tutto finisce per avvicinare le sonorità di Third Degree ad un qualsiasi album della Neal Morse Band o dei Transatlantic. E se da una parte io sono il primo ad esser contro le nette divisioni in "progetti" dai generi diversi ogniqualvolta un artista voglia variare un po', preferendo album di natura più eclettica, nel momento in cui si mescola il tutto, qual è il senso di avere così tanti gruppi diversi? Tant'è che, ad aggiungere ulteriore confusione, il brano che senza dubbio si distingue dal resto dell'album nella sua squisita ispirazione "sixties", Love Letter, altro non sembra se non una riscrittura di The Ways Of A Fool, presente in The Similitude Of A Dream di, guarda un po', la Neal Morse Band.
Al di là di questo però, se si prende Third Degree come lavoro a sé, senza pensare a ciò che gli sta intorno, non è affatto un brutto album, anzi tutt'altro. Si tratta di un onesto album pop\rock con toni progressive, probabilmente un pelo troppo complesso per essere di larga fruibilità e troppo semplice per piacere ai proggettari snob. Forse è giusto un gradino sotto ai precedenti, ma se si è apprezzato il lavoro della band finora, credo sia facile trovare validità anche in questa loro ultima uscita.

venerdì 18 ottobre 2019

IQ - Resistance (2019) Recensione

Scoprii gli IQ circa 5 o 6 anni fa, nel periodo in cui ero attratto da tutti quei gruppi neo-prog nati negli anni '80, e mi soffermai sui loro album decisamente di più rispetto ad altre band in un certo senso analoghe come i Pendragon. Mi piacque il loro suono, la non perfetta ma comunque valida voce di Peter Nicholls, e le loro composizioni sempre equilibrate tra progressive classico ed aperture melodiche memorabili. Apprezzai Tales, adorai The Wake e alla fine decisi che il mio preferito dovesse essere Dark Matter, nonostante la citazione i limiti del plagio di Supper's Ready in Harvest Of Souls.
The Road Of Bones del 2014 poi fu un ottimo album, con una virata un po' più oscura che era una novità per loro, di certo parziale riflesso del contributo del nuovo arrivato Neil Durant, già presente in Frequency ma forse non ancora entrato del tutto nella parte ai tempi. Riff più pesanti di un sempre più presente Mike Holmes alla chitarra, cantato più piatto e meno melodico, ed in generale un suono più minaccioso che tutto sommato funzionò.
Ora, ben cinque anni dopo, un'eternità per quanto mi riguarda (il tempo che passò tra Please Please Me ed il White Album, tanto per dire), vede la luce Resistance, il loro dodicesimo album. Già la sua durata di ben un'ora e 48 minuti può intimidire, non tanto per la mole di musica da affrontare, quanto per l'amara certezza della presenza di inevitabili riempitivi. Poi però già dalle prime note chi scrive capisce che il "problema" è in realtà un altro: sembra di ascoltare di nuovo The Road Of Bones. Stessi suoni, stesse melodie (quando ci sono), stessi arrangiamenti; più di una volta sono riuscito a prevedere dove sarebbe andato a parare questo o quel brano al primo ascolto.
A tratti affiorano dei bei frammenti, ma immediatamente arriva l'ennesimo riffone con mellotron cori e Nicholls ad interpretare testi sostanzialmente mono-nota a portar via tutto. In generale il primo dei due dischi, quello effettivamente principale, sembra scorrere un po' meglio (anche se A Missile non ce lo vedo come brano di apertura), con forse il suo punto migliore nella conclusiva For Another Lifetime, ma il secondo è decisamente più difficile da mandar giù. Come al solito in questi casi non è difficile immaginare che togliendo un po' di ciccia e riorganizzando meglio le idee si sarebbe potuto ottenere un album discretamente solido. E questo vale non solo per la durata totale dell'album ma anche dei singoli pezzi, come ad esempio per l'iniziale A Missile: decisamente troppo ripetitiva, tanto da sembrare ben più lunga di quello che effettivamente è. Poi sicuramente c'è chi a difesa invoca la necessità di molti ascolti ripetuti per comprendere meglio il tutto, a cui io rispondo che gli album veramente validi dovrebbero invogliarti al riascolto, lasciarti delle domande a cui cercare una risposta proprio nel riascolto. Se invece già al primo ascolto si fa fatica ad arrivare alla fine, forse non c'è molto da fare.
Oltretutto quello che trovo curioso è quanto, specialmente negli ultimi anni, il progressive sia diventato prevedibile e pieno di cliché, forse anche più della musica mainstream di cui teoricamente si proporrebbe di essere l'alternativa. Se Resistance fosse uscito così com'è al posto di The Road Of Bones nel 2014, sono sicuro che avrebbe avuto ben altro effetto sul sottoscritto, e non sarebbe finito per sembrare "l'ennesimo album prog" in quello che effettivamente è un ambiente più che saturo di questi tempi.
In definitiva Resistance è un album che non mi ha entusiasmato, e da cui mi sarei aspettato decisamente di più. Poi ovviamente ciò non significa che sia un brutto album, in quanto sostengo sempre che la qualità di un album stia solo nelle orecchie di chi lo ascolta, e se qualcuno ne è rimasto emozionato sono contento per lui/lei; per me purtroppo non è stato così.