sabato 28 aprile 2018

The Who - Woodstock 17/08/1969 - L'incidente con Abbie Hoffman e altre curiosità

Gli Who nel 1969 erano nel pieno del loro apice, nel bel mezzo del tour di supporto al loro ultimo album Tommy. E siccome tutte le cose migliori sono tali anche grazie al tempismo, presero anche parte al leggendario festival di Woodstock nell'Agosto di quell'anno. Inizialmente in programma come penultimo gruppo del 16 Agosto, prima dei Jefferson Airplane, finirono per suonare alle 5 della mattina seguente. Si narra di un effetto a dir poco suggestivo proprio sul finire della sezione di concerto dedicata a Tommy: durante il climax di See Me, Feel Me pare che i primi raggi di sole si fecero largo con un tempismo perfetto, creando un gran bel momento suggestivo.
La scaletta fu a grandi linee quella tipica di quell'anno e del successivo, anche se comprensibilmente un po' ridotta: con gran parte di Tommy (anche se qui, curiosamente, niente Overture a differenza di altri concerti) ed una manciata di altri brani come I Can't Explain, My Generation, Heaven And Hell, Naked Eye e le cover Shaking All Over e Summertime Blues.
Durante il concerto, proprio dopo Pinball Wizard, mentre Pete Townshend stava accordando la chitarra, un certo Abbie Hoffman salì sul palco e riuscì ad appropriarsi di un microfono, protestando a favore di John Sinclair, che fu condannato a nove anni di prigione per possesso di marijuana (John Lennon gli dedicò una canzone qualche anno dopo, chiamata appunto John Sinclair). Il problema è che Pete Townshend era un ragazzo piuttosto irascibile, e decise quindi di cacciarlo a suon di "fuck off my fucking stage" e chitarrate addosso. Ben sapendo quanto può essere irritante essere interrotti da persone che decidono di dover dire qualcosa mentre tu suoni, non posso che essere d'accordo con il signor Townshend. Poco più avanti nel concerto, Townshend, rivolto all'accaduto, ribadì: "the next fuckin' person that walks across the stage is gonna get fuckin' killed! You can laugh, I mean it."

Nell'autobiografia di Pete Townshend "Who I Am", lui stesso racconta l'accaduto così, collocandolo però, non si sa se erroneamente o meno, durante The Acid Queen:

"Appena partì Acid Queen entrai nel personaggio, immaginando me stesso come la zingara dal cuore nero che aveva promesso di tirar fuori Tommy dalla sua condizione autistica, ma che in realtà era una belva sessuale che voleva sottometterlo a furia di droghe. Mentre stavo raggiungendo il microfono, qualcuno mi si parò davanti, cercando di fermare la musica. Era Abbie Hoffman. "Questo è un sacco di merda (traduzione approssimativa di pile of shit nda)" urlò nel microfono, agitando le braccia verso il pubblico. "Il mio amico John Sinclair è in carcere per un miserabile spinello e..." Non andò oltre.
Senza smettere di suonare l'intro di Acid Queen, e con tutta la cattiveria che mi sentivo dentro, colpii Abbie con la paletta della chitarra.
L'estremità appuntita di una delle corde doveva avergli trafitto la pelle perchè reagì come se si fosse scottato. Quindi tornò a sedersi con le gambe incrociate su un lato del palco. Mi guardava in cagnesco, con il collo che sanguinava.
A canzone finita girai lo sguardo verso di lui. "Mi dispiace" dissi in silenzio muovendo le labbra.
"Vaffanculo!" rispose lui allo stesso modo, e scese dal palco."

 Di questo episodio esiste la registrazione audio, che vi allego qui sotto:
La fine del concerto, davanti ad un pubblico in gran parte ormai addormentato vista l'ora,  fu sancita da un assolo di Townshend carico di feedback, ed una volta concluso decise di lanciare la sua Gibson SG al pubblico. Pare poi ordinando subito ai roadie di andarla a recuperare. Ed effettivamente nel video di My Generation si può vedere, proprio alla fine, delle persone che si passano la chitarra e la riportano sul palco. Ovviamente è difficile da capire vista l'oscurità, ma si vede. 
Alcuni spezzoni di concerto furono filmati professionalmente, e sono poi apparsi in vari DVD riguardanti sia il festival che la band. Ovviamente la decisione di non filmare tutto fu presa per risparmiare nastro e poter testimoniare il più possibile, vista la mole di artisti coinvolti. Qui sotto vi allego alcuni di questi filmati:




giovedì 26 aprile 2018

Queen - A Night At The Opera (recensione)

Ho pensato, in occasione del mio compleanno, di parlare un po' di quello che potrebbe tranquillamente essere  uno dei miei album preferiti di sempre, oltre che uno dei più importanti per la mia formazione musicale.
Io sono letteralmente cresciuto con i Queen, fin da che ho memoria ricordo le cassette di Greatest Hits 1, Innuendo e Sheer Heart Attack in rotazione, seguite poi da Made In Heaven comprato all'uscita e tutti gli altri album man mano. Grazie a loro ho sviluppato una concezione di album in cui è totalmente normale ed accettabile l'alternanza di "generi", tanto da non permettermi di sviluppare una chiara concezione di essi fino a molto più tardi. Quando infatti mi capitava di ascoltare altri album, di chiunque fossero, rimanevo sempre stupito da come la musica non cambiasse, da come il tutto rimanesse all'incirca sulla stessa direzione, simili suoni, canzoni prevedibili, poche sorprese. Negli anni capii che quella è la normalità e i Queen l'eccezione, ma allora credevo l'esatto contrario, e ciò mi spinse alla ricerca di band ed album dal simile approccio, scoprendo poi il progressive, che però soddisfaceva il mio desiderio di "stranezze" e particolarità senza però essere mai totalmente imprevedibile alla lunga (e quando una band prog decide di cambiare, non facendo più le solite suite con i soliti tempi dispari ed il solito mellotron, si svende, vero fan dei Genesis?). Ovviamente poi scoprii gli Sparks, riacquistando un po' di fiducia, ma questo è un altro discorso.
Sono tanti gli album dei Queen che avrei potuto prendere come esempio, ma ho deciso di andare sul sicuro con quello che forse è il più rappresentativo. L'album di Bohemian Rhapsody insomma, e cosa si può ancora dire su questo brano che già non sia stato detto? Niente suppongo, se non che fin da prima che iniziassi a parlare, stando ai racconti dei miei genitori, mi mettevo a ridacchiare ogni volta che si arrivava alla parte operistica centrale. Beh, avevo dei buoni gusti ai tempi! Questo pezzo è la perfezione fatta canzone: tutte le sue parti, apparentemente con nulla in comune, si susseguono in modo perfetto, non forzato. Ed è anche la dimostrazione del fatto che una canzone, anche se di base piuttosto complessa, se ben concepita e realizzata può arrivare ad un larghissimo pubblico. O perlomeno poteva, oggi ho qualche dubbio... Sia sul fatto che possa essere realizzata, sia sul pubblico. Ma l'album non è solo Bohemian Rhapsody! Ed è chiaro fin dall'apertura con Death On Two Legs, che dopo la magnifica ed oscura introduzione diventa un arrabbiatissimo brano dedicato ad un ex-manager (tale Norman Sheffield) che pare non abbia trattato benissimo la band. Gran bel riff, testo velenosissimo, ed uno dei migliori pezzi de Queen.
I toni hard rock ritornano nella curiosa Sweet Lady e nella roboante I'm In Love With My Car, dove Roger Taylor ruggisce un testo carico di doppi sensi. Ci sono poi due brani dove è Brian May ad essere sotto i riflettori anche come cantante: lo space-country di '39, con un gran bel testo fantascientifico, e la quasi dimenticata Good Company, di cui consiglio a tutti l'ascolto per ammirare l'incredibile lavoro di May con innumerevoli tracce di chitarre sovraincise a creare una intera sezione fiati. E poi i divertissement puramente "mercuriani" di Lazing On A Sunday Afternoon e Seaside Rendezvous, che ci riportano indietro nel tempo tra vaudeville e anni '20. C'è anche la piccola parentesi pop di You're My Best Friend, primo brano di rilievo scritto dal bassista John Deacon, e la deriva quasi progressive di The Prophet's Song: 8 minuti abbondanti tra hard rock e sperimentazioni vocali con il delay in stereo. Pura epicità per un brano che è tra i migliori della loro intera discografia. E quale modo migliore di chiudere l'album se non con un riarrangiamento dell'inno inglese realizzato, di nuovo, con un mare di tracce di chitarra?
Praticamente tutti gli album anni '70 dei Queen meritano almeno un ascolto, ed il mio consiglio per chiunque è di non fermarsi alle "hit", ma di esplorare la loro intera discografia, che non ne rimarrete di certo delusi. In A Night At The Opera i Queen raggiungono uno dei loro picchi, oltre che uno dei loro primi successi veri e propri. Un album che non smette mai di regalare nuovi particolari che sembrano sempre sfuggire ad ogni ascolto. Non riesco a trovargli difetti, e per questo meriterebbe un 10 come voto, ma siccome la perfezione non esiste, facciamo un 9,5.

martedì 24 aprile 2018

Sparks - Indiscreet (recensione)

Altro recente regalo di cui non posso non parlare. In realtà questo album l'ho nominato più volte, in quanto esempio perfetto di quella che è la mia idea preferita di album. Qui c'è TUTTO.
I fratelli Mael, dopo il successo dei due album precedenti, oltre che del singolo This Town Ain't Big Enough For Boh Of Us, chiamano il produttore Tony Visconti, anche lui americano trasferitosi in Inghilterra, e cercano di portare oltre tutto ciò che hanno fatto fino ad allora: il risultato è un album unico in una discografia comunque molto eterogenea. Si, perchè se negli album precedenti la follia delle creazioni di Ron Mael si limitava a palesarsi a livello compositivo, con brani poi suonati da una "normale" rock band, qui sono anche gli arrangiamenti ad essere più originali, più folli, anche e soprattutto grazie all'apporto di Visconti.
Quindi spazio a quartetti d'archi, marching band, big band, il tutto a completare brani che richiamano quelle atmosfere, quindi senza mai essere un elemento forzato o fuori posto.
Chi potrebbe mai cavarsela se non loro scrivendo un inno all'ananas (Pineapple)? O raccontando storie di coppie felici di vivere nel passato causando commenti e reazioni dei vicini (It Ain't 1918)? Insomma una folle combinazione di quotidianità ed ammirevole immaginazione, decorata con un vestito strumentale e vocale assolutamente originale. Perchè ovviamente le performance vocali di Russel Mael sono sempre inarrivabili. Sono pochi gli album che possono cavarsela con contrasti come quello tra il proto-punk di In The Future e il quasi charleston con tanto di big band di Looks, Looks, Looks, che tra l'altro si susseguono senza alcuna pausa, come a confondere ulteriormente l'ascoltatore; forse solo negli album dei Queen ho notato salti equivalenti. O in qualcosa dei Mr. Bungle, ma in altri tempi e con altri risultati. Certo, ci sono brani più "tipici" nello stile Sparks come Happy Hunting Ground, How Are You Getting Home? e The Lady Is Lingering, anch'essi comunque cosparsi di cambi improvvisi e melodie strampalate. E come non citare Profile? Altro magnifico brano carico di melodie letteralmente folli, ai tempi semplice lato b di un singolo, per fortuna presente nella versione rimasterizzata dell'album.
Ogni singolo brano qui è un gioiellino, si potrebbe scriver libri a proposito, ma sarebbe molto più utile e piacevole ascoltarlo. E l'importante è ascoltarlo senza cercare di etichettare ogni cosa, perchè la varietà di stili e la quantità di idee presenti in questi 41 minuti è difficilmente riscontrabile altrove, anche in intere discografie; non c'è progressive che tenga. Quindi chiedersi "che genere è?" sarebbe completo nonsense, non fatelo.
Si tratta certamente di un album controverso: i precedenti sono più "solidi" e coerenti, così come molti dei successivi, ed è facile pensare che qui ci sia "troppo", o che manchi di direzione, o che sia auto-indulgente. E proprio su quest'ultima definizione, usata da alcuni critici, Ron Mael ebbe a dire: "si, è molto auto-indulgente, grazie di esservene accorti!"
Non so se questo Indiscreet sia il mio album preferito degli Sparks, è comunque una dura lotta con Propaganda, però è senza dubbio almeno al secondo posto. Un album che consiglio a tutti coloro che amano esser stupiti da musica che spazia molto. Un 9 come voto.


venerdì 20 aprile 2018

Concert Reviews 3: Jethro Tull - Asti 14/07/2011

Altri due anni dal concerto precedente, stesso posto del suddetto. Quando ancora ad Astimusica appariva gente di un certo livello, non avrei certo potuto perdere l'occasione di assistere al mio unico concerto dei Jethro Tull! Perchè unico? Beh, perchè il primo per me ma anche parte dell'ultimo tour dei Jethro Tull prima dello scioglimento. E no, quelli di adesso non sono Jethro Tull, per me quel nome nelle locandine dei concerti di Ian Anderson ha circa lo stesso valore di quello dei Genesis in quelli di Steve Hackett. Si, lo so che Ian Anderson in sostanza rappresenta i Jethro Tull, ma il suo bel discorso del tipo "voglio andare in giro a nome mio che troppa gente crede che il mio nome sia Jethro Tull" che fine ha fatto? C'era poca gente ai concerti? Scelta legittima per carità, ma un po' come mettere il piede in due scarpe o volere la botte piena e la moglie ubriaca, oltre che segno di una leggerissima incoerenza.

Cooooomunque, nel 2011 erano ancora i Jethro Tull, con ancora Martin Barre e Doane Perry a bordo, insieme agli ormai fissi David Goodier e John O'Hara; ed il concerto di Asti era parte di una sorta di tour celebrativo per il quarantesimo anniversario di Aqualung, quindi va da sé il fatto che la scaletta sia ampiamente dedicata ad esso. Ricordo un leggero ritardo nell'inizio, a causa di quel simpaticone di Anderson che faceva storie per i fotografi, che prontamente trovavano nascondiglio tra le rientranze della Cattedrale che affianca la piazza dove si svolse il concerto. La piazza fu divisa in due parti: la prima con le sedie per i più abbienti, e la seconda per i poveracci come il sottoscritto ovviamente in piedi. Fortuna vuole che la posizione da me aggiudicata fu in primissima fila tra i poveracci, così da avere visuale libera grazie al numeroso pubblico seduto davanti a me.

Finalmente il concerto inizia con la "nuova" versione di Living In The Past, che considero superiore all'originale: un ottimo inizio soprattutto viste le ampie parti strumentali. Si, perchè quando invece il virtuoso flautista è costretto a cantare beh, i risultati già allora erano non certo eccelsi. Per fortuna il gruppo pare molto solido e lo stesso Anderson in ottima forma al flauto e presenza scenica. Segue la canonica versione ridotta di Thick As A Brick che poi lascia spazio al primo estratto di Aqualung: Up To Me, in una versione fedele all'originale. Poi la prima sorpresa con il magnifico strumentale In The Grip Of Stronger Stuff, che ai tempi non conoscevo e mi è piaciuto molto. Altra grande sorpresa per me fu Farm On The Freeway, uno dei picchi di Crest Of A Knave, album che apprezzo molto; e tra l'altro qui Ian rese decentemente a livello vocale essendo un brano non troppo ostico da cantare. Poi Mother Goose ed una bella versione di Heavy Horses, erroneamente presentata da Ian come Songs From The Wood, correggendosi subito dopo tra risate imbarazzate (immagino per abitudine vista la sua presenza in scaletta nel tour americano del mese prima). Poi l'obbligatoria Boureè, la bella Wind Up, una nuova versione di Hymn 43 che ho apprezzato molto, e poi la doppietta micidiale di My God e Budapest, che da sole valevano il prezzo del biglietto. Il concerto si concluse con le ovvie Aqualung e Locomotive Breath come bis, tra l'altro con un da me apprezzatissimo estratto da Teacher. Saluti, poche cerimonie, e via veloci.
Probabilmente per chi li seguiva da anni se non da decenni poteva sembrare un concerto come tanti, un po' un compitino da fare, un andare avanti per inerzia; ma essendo stato l'unico per me l'ho apprezzato molto, pur con gli ovvi limiti vocali del pur grandioso Anderson, che quella sera ha però fatto miracoli al flauto. Tutti gli altri membri della band hanno suonato divinamente, a parte O'Hara che ogni tanto scivolava in svarioni piuttosto evidenti, ma facciamo finta di niente.
Purtroppo ci sono ben poche testimonianze di questo concerto, e le uniche cose che posso allegarvi sono una manciata di inascoltabili video ripresi dal pubblico, ma ci si accontenta.
Per il mio concerto successivo non dovettero passare due anni questa volta, ma appena tre giorni...

mercoledì 18 aprile 2018

Genesis - The Jackson Tapes (1970) + bonus

Per decenni si è saputo poco o niente di queste misteriose Jackson Tapes, le registrazioni parevano perdute, e tutt'ora noto in giro un po' di confusione sulla loro provenienza ed il loro contenuto. Cercherò quindi di fare un po' di chiarezza qui.
Siamo nel 1970, a Gennaio, quindi tra From Genesis To revelation e Trespass, in un'epoca di costante cambiamento che portò i Genesis dal discreto gruppetto del primo album a ciò per cui ancora oggi vengono ricordati. Quei mesi tra fine 1969 ed inizio 1970 furono forse il periodo più importante della loro carriera, dove trovarono una strada e gettarono importanti basi per il futuro, evidenti tanto in Trespass, quanto in Nursery Cryme ed in queste Jackson Tapes. Dunque dicevo, siamo all'inizio del 1970 e ai giovani Genesis fu commissionata una colonna sonora per un documentario, che avrebbe dovuto essere su un pittore dal nome Mick Jackson (o almeno questo pare essere il nome, anche se non è totalmente sicuro). Tristemente però questo documentario non vide mai la luce e risulta tutt'oggi perduto, e così parevano essere anche le tracce dei Genesis. Questo fino a qualche anno fa quando, pare, queste tracce spuntarono nel giro dei bootleg e furono comprate dagli stessi Genesis (o chi per loro conto) e poi pubblicate ufficialmente in un CD bonus nel cofanetto "Genesis 1970-1975" nel 2008. Ma quindi di cosa si tratta in pratica? Beh, andiamo ad analizzare tutti e quattro i brani che compongono queste Jackson Tapes:

1 - Provocation
Pare subito ovvio all'ascolto che l'introduzione di questo brano finì poi in The Fountain Of Salmacis l'anno dopo. Qui però Gabriel canta un linea vocale inedita su di essa (che tra l'altro inizia in modo diverso, più frammentario) e poco dopo arriva una sezione mai sentita, piena di stacchi, che ci porta poi, curiosamente, a ciò che diventerà la parte conclusiva di Looking For Someone, anche qui con una linea vocale inedita poi assente nella versione definitiva. Esempio perfetto del processo di crescita in corso allora, oltre che del fatto che molte idee musicali usate successivamente nacquero in quest'epoca. Ne vedremo altre infatti.

2 - Frustration

                                                     
Ecco appunto, parlavamo di idee usate successivamente e ci ritroviamo di fronte praticamente Anyway, da The Lamb Lies Down On Broadway. La sezione principale è praticamente quasi identica (a parte il testo ovviamente), fino agli stacchi che nell'album precedono l'assolo di Hackett, qui seguiti da una sezione inedita in cui Gabriel esclama "I say what's the use" (curioso il fatto che questa frase fosse già presente, in modo molto simile anche come base musicale, nel brano Hair On The Arms And Legs, scarto dell'epoca di From Genesis To Revelation) e da una ulteriore sezione più ritmica che ricorda quasi i primissimi Camel (o viceversa più probabilmente); fino ad un finale che, dopo una frenetica salita d'organo, ci lascia sospesi.

3 - Manipulation

Nel caso servissero altre prove del fatto che The Musical Box arrivi in gran parte da Anthony Phillips (oltre al demo F Sharp), qui troviamo una versione strumentale embrionale della suddetta, completa anche delle sezioni che poi andranno ad accompagnare i vari assoli. Man mano che procede però si avventura in sezioni che non troveranno posto nella versione definitiva, sempre rimanendo però strumentale.

4 - Resignation

Ecco, qui invece siamo di fronte ad un brano totalmente inedito, di nuovo strumentale, non lontano però da certe sezioni di Stagnation. Quindi non è così assurdo pensare che magari alcune di queste sezioni potessero far parte della leggendaria The Movement: lunga suite suonata, pare, solamente dal vivo e di cui si sa ben poco se non che fu poi condensata, appunto, in Stagnation.

Un interessantissimo documento di quell'epoca dunque, specialmente se completato poi con un'altra manciata di testimonianze contemporanee o di poco successive, come ad esempio:

BBC "Nightride" 22 Febbraio 1970
Di fatto la prima registrazione live dei Genesis, interessante per la presenza di altri 3 brani inediti: Placidy, Shepherd e Let Us Now Make Love, oltre a Stagnation e Looking For Someone (quest'ultima già nella sua versione definitiva, testimonianza del fatto che in appena un mese dalle Jackson Tapes la sezione di Provocation fu utilizzata qui). 

Piccola aggiunta con quello che è il primo bootleg dei Genesis, registrato a La Ferme in Belgio il 7 Marzo 1971. Si, ci sono già Hackett e Collins in formazione, ma vale la pena di condividere, nonostante la qualità audio non eccelsa, questa The Light. Si dice sia una composizione in gran parte dovuta all'allora relativamente nuovo arrivato Collins, e contiene idee poi confluite in Lilywhite Lilith e The Colony Of Slippermen nel 1974, in The Lamb Lies Down On Broadway. Come a ribadire l'altissima ispirazione e creatività di quel periodo.

domenica 15 aprile 2018

Jon Lord - Gemini Suite (recensione)

Altro mio recente acquisto, oltre che un album che mai mi sarei immaginato di trovare tranquillamente tra i vari Abba, Beatles e Eagles. E invece... Un album curioso sicuramente. Curioso perchè una sorta di secondo tentativo nell'affrontare la formula "band e orchestra", ma stavolta, almeno sulla carta, dal solo Jon Lord e non a nome Deep Purple. Si, perchè il primo tentativo fu ovviamente il Concerto For Group And Orchestra nel 1969, prima uscita della cosiddetta mark 2 con i nuovi arrivati Ian Gillan e Roger Glover. Un lavoro certamente ottimo ma con i suoi difetti: su tutti l'eccessivo distacco ed alternanza tra gruppo ed orchestra, cosa voluta nel primo movimento, che infatti Lord concepì come una "presentazione" o confronto delle due diverse componenti musicali, che poi avrebbero dovuto combinarsi ed accompagnarsi meglio nei successivi movimenti, specialmente nel terzo. Ecco, se sulla carta fu così, in pratica invece ci si ritrovava con lunghi minuti di sola orchestra interrotti sporadicamente dal gruppo, anche se certamente con ottimi momenti musicali.
I temi del primo movimento, la melodia del cantato del secondo e la carica possente del terzo lo rendono un ascolto indubbiamente interessante e, a tratti, più che piacevole. Visto il successo del suddetto esperimento, a Lord venne commissionata un'ulteriore opera di quel genere, e così nacque questo Gemini Suite. Ed esso effettivamente nacque come un lavoro dei Deep Purple ancora una volta, e fu suonato dal vivo nel Settembre 1970 di nuovo alla Royal Albert Hall con la Little Light Music Society Orchestra. Per qualche motivo, questa volta si decise di non pubblicare la registrazione dell'evento (che uscirà postuma parecchi anni dopo), ma di ri-registrare il tutto in studio. E fu qui che Blackmore e Gillan, che già parteciparono controvoglia (specialmente il signore in nero) al Concerto For Group And Orchestra a causa del dubbio effetto sull'immagine del gruppo che quell'opera avrebbe avuto (ricordiamoci che all'epoca erano anche al lavoro su In Rock), decisero di farsi da parte. Fu quindi presa la decisione di considerare Gemini Suite come un lavoro del solo Jon Lord (che comunque, come per il Concerto, scrisse tutta la musica), nonostante la presenza dei compagni di band Ian Paice alla batteria e Roger Glover al basso. Al posto di Blackmore fu chiamato Albert Lee, e alla voce si optò per un duetto con Yvonne Elliman e Tony Ashton laddove il solo Gillan se ne occupava in sede live. Lord decise di imparare dagli errori del Concerto, andando quindi a dare più spazio ai musicisti della band e creando un maggiore equilibrio tra le due parti, e questo comportò una decisione curiosa nella struttura dell'intero lavoro. Infatti, dopo i canonici tre movimenti del Concerto, formato usato anche nella performance live del 1970 della Gemini Suite, qui si decise di dividere il lavoro in sei parti, dedicando ognuna ad un singolo strumento (se si considera anche la voce come tale).
Troviamo quindi brani guidati da, in ordine: chitarra, piano, batteria, voci, basso e organo. Ed ognuno ha modo, durante la durata del proprio spazio, sia di lasciarsi andare al canonico ed obbligatorio assolo, ma anche di duettare e diventare parte dell'orchestra (che in studio è la London Symphony Orchestra condotta di nuovo da Malcolm Arnold). Quindi sono molto più rari i momenti di sola orchestra, ed il tutto scorre decisamente meglio che nel Concerto, a mio parere; paradossalmente però senza proporre temi altrettanto memorabili. Interessantissimi i contrasti tra chitarra tinta di blues di Albert Lee e l'orchestra nel primo movimento (in ulteriore contrasto se confrontato con la consueta anarchia controllata della versione di Blackmore), curiose le derive quasi jazzate della parte di piano, roboanti e coinvolgenti le parti dedicate a basso e batteria, emozionante il duetto di voci (tra l'altro in un bellissimo brano, anche decontestualizzato) e risolutivo oltre che riassuntivo l'ultimo movimento all'organo. Si, Lord si prende due parti e fa anche bene! Insomma, si nota una maggiore consapevolezza e migliori risultati in generale, in tempi in cui comunque il concetto di combinazione tra il mondo pop/rock e quello classico era ancora una novità. Ed in questo senso potrebbe risultare un ascolto un po' "inutile", se non addirittura noioso, se affrontato con un'ottica più rivolta alla situazione musicale attuale ed i passi avanti (o indietro?) che sono stati fatti in 45 anni abbondanti.
Come sempre, va contestualizzato nei suoi tempi insomma. Personalmente lo trovo estremamente godibile, non eccessivamente pesante e sicuramente una potenziale fonte di ispirazione ancora oggi. Questo primo passo verso la carriera solista di Lord lo portò poi verso altri lavori come Windows e Sarabande (buono il primo, ottimo il secondo), dimostrando quindi un processo interessante e curiosamente distante da quella che sembrava essere la sua principale realtà, e cioè i Deep Purple. Band che di certo implementava una certa ispirazione classica, specialmente negli assoli, ma sempre un po' in sordina.
Questo Gemini Suite lo consiglio principalmente per curiosità, ma se siete fan del Concerto For Group And Orchestra non potete lasciarvelo sfuggire, perchè sono sicuro che vi piacerà.
Un voto? Beh, non è un lavoro perfetto, direi però che si merita un 7,5 - 8.
Qui sotto vi allego la versione dell'album che ho io, rimasterizzata nel 2016 con copertina diversa, ed anche la versione live dei Deep Purple del 1970, uscita nel 2006.


venerdì 13 aprile 2018

Sulle labbra del tempo. Area tra musica, gesti ed immagini. (Diego Protani e Viviana Vacca) (recensione)

So che di solito non recensisco libri, ma prima o poi avrei voluto\dovuto iniziare in ogni caso, quindi...
Gli anni '70 sono stati indubbiamente un periodo storico irripetibile per tanti motivi. Io non c'ero, sarei arrivato una ventina di anni dopo e, per un qualche strano scherzo del destino, nel tempo ho poi sviluppato una sorta di interesse per la musica e la cultura che si sviluppò tra gli anni '60 e '70. Certo, il mio interesse, per via dei miei gusti personali, si dirige molto più spesso verso lidi esteri piuttosto che nostrani, ma ciò non toglie che per comprendere ciò che fu la realtà di quegli anni sia necessario, oltre che molto interessante, leggere racconti anche sulla realtà di casa nostra. Ed in questo senso il libro in questione, opera di Diego Protani e Viviana Vacca, riesce bene nell'intento. Il libro infatti illustra quell'irripetibile decennio coinvolgendo direttamente personaggi che l'hanno vissuto in prima persona, sia italiani che di altri paesi. Ovviamente molto spazio è dato alla scena Progressive, indubbiamente dominante almeno nella prima metà abbondante del decennio, senza però limitarsi ad esso, ma anzi spaziando molto tra le diverse correnti artistiche; andando quindi a raccogliere interviste con molte figure di varia provenienza, con anche alcune sorprese. Ho infatti apprezzato la presenza di nomi non sempre "famosi", personalità che magari solo gli appassionati conoscono (per fare un esempio senza andare troppo nel dettaglio, una bella sorpresa per me è il coinvolgimento di Dez Allenby dei Forest, band che apprezzo particolarmente pur non essendo certo di grande fama). Largo spazio è dedicato anche agli Area, che ovviamente sono un po' il simbolo sia della sperimentazione sonora che della situazione sociale in Italia in quegli anni. Ed infatti quello che traspare da questo libro è spesso un'analisi dell'interazione tra Arte e vita sociale, in periodi di proteste e cambiamenti, specialmente tra i giovani. Quindi, trovandomi nel difficile compito di usare parole per descrivere parole, laddove di solito le mie parole tentano di descrivere suoni, non ho molto altro da aggiungere. Quello che posso fare è consigliare questo libro a chiunque si voglia interessare a quest'epoca, o che ne sia semplicemente affascinato, oppure che voglia riviverla attraverso numerose testimonianze qui presenti.
Per ulteriori informazioni potete visitare la pagina Facebook dedicata. Il libro lo potete ordinare in qualunque libreria e sarà presto disponibile (sta per essere ristampato) sui vari siti come Amazon, ibs e Mondadori Store.

mercoledì 11 aprile 2018

Gentle Giant - Acquiring The Taste (recensione)

Un album che per me è un po' un paradosso, in quanto regalatomi pochi giorni fa nonostante lo conoscessi già da molti anni. I paradossi dell'era di Internet suppongo... Però, per come sono fatto io, non riesco mai a dedicarmi all'ascolto di un album con attenzione ed impegno finché non ne ho una copia originale tra le mani. Immagino che sia il vecchio che vive in me che ogni tanto si fa più evidente. Comunque, negli anni ho avuto modo di esplorare la discografia dei Gentle Giant in lungo e in largo e posso tranquillamente dire che, pur amando molti altri loro album, questo Acquiring The Taste è forse il più riuscito. Forse perchè il quasi eccessivo (e sottolineo quasi, specialmente tenendo conto di molto progressive più recente) tecnicismo degli album successivi a Octopus qui è molto meno evidente, implementato in brani complessivamente più "facili" all'ascolto ma non per questo meno complessi. Quasi come se il tutto fosse semplicemente più a fuoco, meno sfuggente, più concreto e memorabile.
Fin dall'apertura con Pantagruel's Nativity, con testo ispirato al libro Gargantua e Pantagruele di Rabelais, si nota come i consueti intrecci siano costruiti intorno a linee melodiche memorabili, parti che rimangono stampate nella mente. Anche il riff di chitarra che ogni tanto emerge, per poi portare il brano alla magnifica parte centrale, con armonie vocali che definire audaci è quasi riduttivo. Il tutto però, seppur indubbiamente complesso, non suona freddo, cosa che invece sento in alcuni loro lavori successivi (i magnifici In A Glass House o The Power And The Glory, pur adorandoli, ne sono un esempio). Edge Of Twilight è un brano più "pacato" ma decisamente interessante (solo io l'ho sempre trovato un po' inquietante?), specialmente nella parte centrale dove di nuovo le voci esplorano territori inusuali per poi lasciar spazio ad una sorta di assolo(?) di timpani ed interventi di clavicembalo. Un brano che ho sempre sottovalutato a dire il vero, sbagliandomi. Interessante notare la citazione a The Moon Is Down all'inizio, brano che troveremo più avanti. The House, The Street, The Room ci riporta in territori più movimentati con il consueto cantato aggressivo di Derek Shulman, alternandosi con Kerry Minnear qua e là. Un brano che diventa poi particolarmente interessante nella quasi impressionistica parte strumentale centrale, poi praticamente spazzata via da un'aggressiva entrata prima della chitarra e poi del resto del gruppo (con tanto di Hammond distorto, cosa piuttosto rara per loro) ad accompagnare un bell'assolo, tra l'altro curiosamente piuttosto "canonico" tenendo conto del gruppo in questione, di Gary Green. Ciò ci accompagna alla ripresa del cantato e alla chiusura di un gran bel brano, uno dei migliori dell'album. La title track è una sorta di breve parentesi strumentale del solo Kerry Minnear, dove può sfoggiare le sue doti al Moog intrecciandone molteplici parti e creando una interessante partitura con un che di barocco. Mi ha sempre incuriosito l'inizio "stonato": mi chiedo se sia un effetto voluto o un errore di velocità del nastro. Wreck sembra quasi riprendere il discorso iniziato con Why Not? nell'album precedente, rivelandosi però un brano decisamente migliore non solo per il riff azzeccato ripetuto molteplici volte, ma anche per il contrasto con le sezioni quasi barocche (di nuovo) che spezzano il brano. Un capolavoro per me.
The Moon Is Down è un'altra delle mie preferite: bellissime le melodie e l'uso dei fiati all'inizio, particolarmente riuscito poi l'intermezzo strumentale, forse la parte che preferisco dell'intero album. Poi la ripresa della prima sezione alla fine mi ha sempre fatto venire la pelle d'oca. Ecco, proprio parti come questa mi convincono del fatto che l'equilibrio tra parti puramente tecniche ed altre semplicemente belle ed emozionanti raggiunto in questo album, raramente in altri si è ripetuto con altrettanta efficacia. Ovviamente senza nulla togliere agli altri loro lavori! Black Cat è un piccolo gioiellino con quartetto d'archi che ben rappresentano un andamento felino; forse qui sono un po' meno efficaci le parti vocali, ma di fronte a tale perfezione strumentale ci si può solo inchinare. La conclusiva Plain Truth ci porta in territori più "canonici" dove violino e chitarra guidano il tutto regalandoci un brano che forse in un certo senso impallidisce al confronto con altri, ma che si tratta comunque di una energica conclusione perfetta per questo album.
Come detto all'inizio, Acquiring The Taste si tratta, molto probabilmente, del mio album preferito in assoluto dei Gentle Giant, seguito a ruota da Octopus e dal primo omonimo. Trovo che dopo Octopus la loro musica sia diventata un po' più impervia, con più tecnica a volte fine a sé stessa e meno cose che considero memorabili. Anche se vorrei spezzare una lancia a favore di In'terview: album di cui si parla troppo poco ma meritevole di essere affiancato a cose come Free Hand (anzi, lo preferisco anche a quest'ultimo personalmente).
Un ultimissimo appunto sulla produzione di Tony Visconti che qui fa davvero un ottimo lavoro.
Un voto? Beh dai, sono generoso in questo caso, se lo merita: un 9.



lunedì 9 aprile 2018

Concert Reviews 2: Steve Hackett - Asti 23/07/2009

Dovettero passare ben 2 anni tra il mio primo ed il mio secondo concerto, ed ironicamente si trattò di nuovo di qualcosa legato ai Genesis. Ricordo che per puro caso trovai un volantino del festival Astimusica in cui, tra i vari nomi, spiccava questo Steve Hackett che io allora conoscevo solamente come l'ex chitarrista dei Genesis. Non avevo la minima idea del fatto che avesse una carriera solista, tanto meno di cosa effettivamente suonasse in termini di stile e genere. Ma visto il prezzo irrisorio e la vicinanza al luogo del concerto, decisi di non rinunciare. Il concerto si tenne nella bellissima Piazza della Cattedrale, ricordo il palco non certo grande, anzi piuttosto scarno ed essenziale, ma d'altronde non stiamo parlando di Roger Waters dopotutto no? Ci sediamo, tra l'altro in una ottima posizione, ed aspettiamo. Stavolta non tutto il giorno come per Peter Gabriel, che mi si frega una volta sola eheh. Proprio mentre aspettiamo ci passa praticamente di fianco Steve e la sua band, accolti da un rumoroso applauso mentre si avviano nel retro palco per prepararsi.
Ricordo benissimo l'inizio del concerto: luci soffuse, un simil-carillon e via con quella che poi scoprii essere Fire On The Moon, dall'allora ancora inedito Out Of The Tunnel's Mouth. L'impatto devastante di quello che credo sia il ritornello ci alzò letteralmente da terra: definire "alto" il volume di questo concerto credo che sia riduttivo. La chitarra in particolare mi trapassava letteralmente, e sono sicuro che una buona metà di Asti quella sera sia stata in grado di sentirsi il concerto anche da casa propria. Questo primo pezzo è uno dei motivi per cui sono particolarmente legato all'album Out Of The Tunnel's Mouth: quell'inizio mi riporterà sempre a quella sera. Every Day segue a ruota e lì iniziai a capire che la mia decisione, anche se alla cieca, di andare a quel concerto si rivelò più che azzeccata. Quell'assolo finale lo preferisco tutt'ora a quello di Firth Of Fifth, ebbene si. E poi Ace Of Wands, che fui contento di sentire insieme ad A Tower Struck Down poco dopo, in quanto proprio quella sera alla bancarella presente lì comprai Voyage Of The Acolyte (in cui sono presenti quei brani), sempre alla cieca ovviamente. E poi tanti bei brani come l'inquietante Darktown, la crimsoniana Mechanical Bride... Ecco, un'impressione che ebbi quella sera fu proprio una importante presenza di tinte cremisi in alcuni brani; il che non poteva che farmi piacere! Poi The Steppes, Slogans, Spectral Mornings, Serpentine Song, Storm Chaser dall'allora ancora inedito progetto con Chris Squire, insomma un magnifico brano dopo l'altro. Ovviamente ci fu anche una parentesi dedicata ai Genesis, qui rappresentati con Firth Of Fifth, Blood On The Rooftops, Horizons, Fly On A Windshield/Broadway Melody of 1974, ...In That Quiet Earth e Los Endos. Una cosa che mi piacque particolarmente fu la prestazione vocale del batterista Gary O'Toole, che, a posteriori, preferisco di gran lunga a colui che oggi si occupa del repertorio Genesis: Nad Sylvan. Infatti O'Toole innanzitutto non assomiglia e non vuole assomigliare ai vari Gabriel e Collins ed offre quindi un'interpretazione valida e personale (tenendo anche conto del fatto che canta suonando la batteria), e poi perlomeno nei momenti in cui canta note più alte non sfocia in un timbro fastidiosamente sottile e quasi caricaturale, come il pur bravo Sylvan (che se invece canta in basso è un signor cantante, basti sentire le sue versioni di Icarus Ascending e One For The Vine in anni recenti). Gli altri membri della band fecero un lavoro egregio, nonostante qualche piccola sbavatura da parte di Roger King alle tastiere. Nick Beggs al basso è sempre uno spettacolo, e Rob Townsend ha aggiunto dei piacevoli interventi di sax e flauto nei vari brani. Dopo l'apoteosi di Los Endos, il bis di Clocks con tanto di assolo di batteria fu qualcosa di letteralmente devastante. Un bellissimo concerto, uno dei migliori a cui ho assistito.
Ciò che, tra le altre cose, ha reso questo concerto così piacevole secondo me è stato proprio l'equilibrio della scaletta. Qui infatti si era ancora in tempi precedenti a tutta la serie di tour a nome Genesis Revisited, progetto che mi ha sempre lasciato un po' perplesso. Hackett ha tantissimi album da cui pescare brani, e per questo trovo un po' insensato occupare più di metà scaletta con brani dei Genesis che, per forza di cose, nonostante la sua presenza, risultino all'ascolto paragonabili ad una band tributo. Specialmente quando vengono eseguiti brani in cui Hackett non ha partecipato alla composizione e/o ha sempre detto che non gli piacevano (One For The Vine, The Cinema Show). E capisco che per Hackett mettere il nome Genesis in locandina è una scelta più che azzeccata, che gli porta molto più pubblico ed ha fatto risvegliare fan nostalgici che all'improvviso, casualmente, si sono ricordati di lui, magari attirati da quel nome biblico. Però, personalmente, se voglio sentire brani dei Genesis coverizzati (e di solito non voglio) è più facile che mi diriga verso i vari The Musical Box o The Watch, che complici le scenografie nei primi e la fedeltà anche a livello di voce nei secondi (e non voci irritanti alla Nad Sylvan) rendono il tutto più fedele e più "Genesis". Insomma, ad un concerto di Hackett vorrei sentire brani di Hackett, magari con giusto una manciata di pezzi rappresentativi della sua ex band come l'obbligatoria Firth Of Fifth (principalmente per il suo assolo), ed allora così fu. E grazie a questo scoprii la sua notevole carriera solista tra l'altro, cosa a cui probabilmente non sarei arrivato diversamente, o perlomeno non a quei tempi.
Ci tornai un paio di anni dopo ad Astimusica, ma di questo vi parlerò nella terza puntata di Concert Reviews!
Qui sotto trovate il filmato, ripreso dal pubblico, dell'intero concerto.

giovedì 5 aprile 2018

The Kinks - Something Else By The Kinks (recensione)

Ho come l'impressione che i Kinks siano sempre stati un po' sfortunati dopo il boom iniziale con You Really Got Me. Sembra quasi che pubblicassero album ottimi ma sempre con un anno di ritardo. Non per niente fatico a togliermi dalla testa il collegamento Village Green - 1967. Perchè in realtà si tratta di un album del 1968, però solo io lo vedrei perfetto in quel colorato anno precedente? E forse è proprio per questo che, a livello puramente commerciale, gli album di fine anni '60 non potevano certo ambire alle vette dei Beatles; complice anche il divieto di fare tour in America e la spiccata "englishness" delle composizioni, in veloce maturazione, di Ray Davies (che diciamocelo, canzoni sul tè in America non vanno molto).
Tra il '66 ed il '67 in realtà l'idea di un progetto che poi sarebbe diventato Village Green già esisteva, però tardò a realizzarsi, e quindi al suo posto arrivò una "semplice" raccolta di canzoni dal titolo Something Else By The Kinks. Titolo non certo altisonante che anzi, sembra quasi voler sminuire il contenuto e dare l'idea di un album di canzoni messe insieme tanto per buttare fuori qualcosa. E se da un lato, vista la mancanza di concept (che seppur debole era presente sia nel precedente Face To Face che nei successivi Village Green, Arthur etc...), sembra essere così, all'ascolto si rivela invece essere tutt'altro.
Fin dall'apertura di David Watts pare chiara la progressione naturale dal precedente Face To Face: atmosfere e sonorità simili ma maggiore maturità compositiva. Maturità che trova qui l'apice in brani come Death Of A Clown, Two Sisters, Tin Soldier Man, Situation Vacant... Insomma praticamente tutti i brani presenti qui sono di ottima qualità, senza riempitivi, a differenza invece di altri album decisamente più celebrati. E forse la mancanza di concept ha aiutato in questo senso, non sentendosi "costretti" ad usare un brano perchè in funzione dello svolgimento dell'album al di là del suo effettivo valore musicale. Anche un pezzo semplice come Harry Rag diventa contagioso come pochi; lo canterete per giorni, ve lo assicuro. Ed è proprio in brani come questo che si sente la forte natura puramente inglese (Harry Rag è uno slang che indica una sigaretta, difficilmente in uso al di fuori di Regno Unito ed Irlanda). Come anche in Afternoon Tea, uno dei miei preferiti dell'album, con quel suo avanzare sonnolento emana fascino britannico da ogni nota. E poi che dire di Waterloo Sunset?
Uno dei brani più famosi in assoluto dei Kinks, quasi nascosto in quest'album (curiosamente all'ultimo posto), e perfettamente in grado di rappresentare al meglio un tempo ed un luogo, creando immagini di una nitidezza e profondità seconde forse solo a Penny Lane, guarda caso nello stesso anno. End Of The Season e Lazy Old Sun sono altri due gran bei brani perfettamente descrittivi, rispettivamente, dell'inizio dell'inverno e del sole "pigro" che si nasconde dietro le nuvole. Due ottimi esempi di ciò che dicevo prima sulla maturità di Ray Davies nel suo modo di scrivere e descrivere, anche musicalmente, qualunque cosa gli passi per la testa. Senza nulla togliere al fratello Dave, ovviamente, che offre importanti contributi a Death Of A Clown e scrive le più "canoniche" Love Me Till The Sun Shines e Funny Face, che ben si accompagnano al resto dell'album. Se comprate la versione CD potrete godervi una lunga serie di bonus tracks, tra cui spicca il capolavoro Autumn Almanac: Ray Davies al massimo delle sue capacità nello scrivere una canzone ispirata ad un giardiniere con frasi come "breeze blows leaves of a musty-coloured yellow, so I sweep them in my sack" e "my poor rheumatic back". Geniale. Senza dimenticare altri bei brani come Wonderboy e Polly. Insomma tanti bei brani in linea con l'album vero e proprio e che quindi sono i benvenuti per ampliare un lavoro già ottimo in partenza.
Se proprio dovessi trovare un difetto in questo album, che poi è lo stesso del successivo Village Green, è la produzione. Lo stesso Ray Davies se ne occupò qui, e lui stesso a posteriori lo definì un errore a causa della sua poca esperienza. Infatti questo album suona molto "anni '60", e non sempre nel bene; specialmente se confrontato con le vette dei Beatles grazie a quel geniaccio di George Martin! Certo, tutto ciò contribuisce al fascino di un album incastonato in un'epoca ben precisa, però diciamo che avrebbe potuto esser decisamente migliore sotto questo aspetto. Magari un bel remix gli farebbe bene se solo esistessero ancora i nastri originali da qualche parte...
Mi è difficile dare un voto a quest'album, perchè in sostanza adoro ogni loro album tra Face To Face e Lola allo stesso modo o quasi, quindi non è facile dar loro dei numeri. Però credo che, visto il mio amore incondizionato per il pop inglese anni '60, si meriti un 8,5 abbondante.


lunedì 2 aprile 2018

Vanilla Fudge - Vanilla Fudge (recensione)

Una band di cui ho sentito parlare più volte, spesso da vari membri dei Deep Purple, che li citano come una delle principali ispirazioni nei loro primissimi anni di attività (la formazione mark 1 per intenderci). Per qualche motivo per tanto tempo non ho neanche provato ad ascoltarli, non chiedetemi perchè. Finchè, qualche mese fa, quella bellissima copertina colorata fece capolino da uno scaffale del mio negozio di musica di fiducia, pregandomi di spendere una parte della sudata pecunia e di portarlo a casa insieme ai tanti (troppi? Naaaahh) suoi simili. Dovetti cedere.
Fin da subito è ben chiaro ciò che ci troveremo davanti in questi 40 minuti abbondanti: cover pesantemente riarrangiate ed abbondante psichedelia allucinata. Ah dimenticavo: tanto, tanto Hammond. Ecco quindi che l'album inizia con una versione stravolta, rallentata, "drogata" di Ticket To Ride dei Beatles. Una descrizione che potrei tranquillamente applicare ad ogni pezzo di questo album a dire il vero. Già da qui si può notare anche la loro propensione all'uso di armonie vocali, purtroppo qui ancora un po' acerbe e traballanti nell'intonazione, e forse proprio per questo complici nel creare un'atmosfera lisergico-psichedelica in tutto l'album.
Avranno modo di migliorare notevolmente negli album successivi sotto questo aspetto. Dopo il crescendo e l'esplosione sonora del primo brano, le acque si calmano con People Get Ready, degli Impression, che, a livello sonoro, è l'esatto opposto di Ticket To Ride nella sua pacatezza. She's Not There di Rod Argent mette di nuovo in chiaro le cose in questo arrangiamento devastante con tanto di stop and start totalmente inaspettato prima del finale. Uno dei miei preferiti dell'album. Bang Bang di Cher, scritta da Sonny Bono, è ancora oggi una ventata d'aria fresca, soprattutto alla luce delle innumerevoli cover (spesso buttate senza pietà in qualche pubblicità) piatte e senza la minima personalità. Basta l'introduzione con quella filastrocca inquietante per capire che erano "oltre". Ecco, quello che veramente non manca ai Vanilla Fudge è la personalità. La capacità di prendere pezzi altrui, stravolgerli e renderli propri; quasi al punto di chiedersi, in alcuni casi, se non si tratti di pezzi di loro composizione. E soprattutto, la loro idea di stravolgere i brani, e di conseguenza il risultato, rientra comunque nell'ampiamente ascoltabile\godibile; non come la tendenza di molte cover degli ultimi anni, che o le copiano identiche o le rendono letteralmente pessime alternandosi tra ukulele + voce sfiatata depressa o urlata all'americana. O entrambe. E se vuoi una versione "originale" spesso si sfocia nell'orribile ed irriconoscibile. Come al solito, o bianco o nero. Sad.
Ed eccoci finalmente al pezzo forte dell'album! Il loro brano forse più famoso, introdotto e chiuso da una loro breve composizione strumentale: You Keep Me Hanging On delle Supremes. Ecco, forse tra tutte le loro cover questa è la più riuscita, la più a fuoco. Tutti gli elementi del loro suono qui contribuiscono a creare una versione di questo brano non solo alternativa all'originale, ma possibilmente anche migliore. E per tanto che io possa amare questo album, non sono molti i casi in cui posso tranquillamente dire che la cover è meglio dell'originale, quanto piuttosto semplicemente un'altra bella ed interessante versione. Qui non c'è dubbio a riguardo. Take Me For A Little While di Trade Martin è un altro bel brano in linea con il resto dell'album forse oscurato dal precedente e dal successivo, comprensibilmente. Anche perchè ciò che segue, in chiusura dell'album, è forse la più grande sorpresa dell'album. Eleanor Rigby dei Beatles in una versione letteralmente irriconoscibile, anche qui introdotta da una loro composizione strumentale. Una versione rallentata, rarefatta, con atmosfera e cori inquietanti spesso "stonati". L'immagine che crea pare quasi essere ciò che sente chi ascolta l'originale dei Beatles dopo aver ingurgitato importanti quantità di LSD. Bellissimo poi il crescendo finale con le voci che si incrociano e ci portano ad una inaspettata citazione in coro a cappella di Strawberry Fields Forever: "Nothing is real, nothing to get hung about" con in lontananza agghiaccianti rumori presumo ricavati con la classica molla del riverbero dell'Hammond. Ed il tutto finisce lasciandoci una sensazione del tipo "ma cosa ho appena ascoltato?"
Ecco, pur sapendo che finirei nella banalità facendo un discorso simile, e senza nel contempo sminuire niente e nessuno: com'è che io riesco ad avere una sensazione simile con un album di cinquant'anni fa e non con uno uscito negli ultimi 10-20 anni? E uno potrebbe dire che la musica ha già esplorato tanti territori diversi, è impossibile essere totalmente originali, ed è vero; ma allora perchè trovo molta più originalità in senso assoluto (quindi non legato alla data di uscita) in album di 40-50 anni fa? Teoricamente avendo già ascoltato musica uscita successivamente non dovrebbe suonarmi originale. E invece... La mia teoria è che oggi ci accontentiamo troppo facilmente, si sono abbassati gli standard, prendiamo ogni cosa che suona un po' fuori dal "mainstream" (qualunque cosa sia oggi) come qualcosa di ottimo a prescindere. Non lo so, potrei sbagliarmi, e tutti i gusti sono validi e rispettabili, però non posso fare a meno di pormi certe domande...
I Vanilla Fudge continuarono a sfornare album, e se il secondo The Beat Goes On è una curiosità piuttosto sperimentale che lascia poche tracce, il successivo Reinassance porta invece a compimento il discorso iniziato con i primo album, consolidando in modo ottimo il loro stile; lo consiglio caldamente. Questo primo album omonimo invece è Storia, andrebbe ascoltato o riscoperto da chiunque, perchè c'è molta carne al fuoco e molto da imparare. Non ho citato i singoli musicisti ma ovviamente sono tutti ottimi: in particolar modo Mark Stein all'Hammond, che ha praticamente inventato un modo di suonare, e Carmine Appice alla batteria, che oggi potrà non sembrare nulla di che essendo abituati a ben altro, ma ricordiamoci che è un album del 1967 e allora non erano in molti a suonare così. Un gran bell'album che merita un 8,5.