martedì 13 dicembre 2022

The Beach Boys - Sail On Sailor 1972 (2022) Recensione

Come ogni anno da un lustro ormai, in questo periodo abbiamo il piacere di assistere all'uscita di un cofanetto celebrativo per il cinquantennale di uno (o più) album dei Beach Boys, interessante non tanto per l'obbligatoria rimasterizzazione (poche volte si è trattato di remix, come nel caso di WILD HONEY nel 2017), quanto per l'enorme quantità di materiale aggiuntivo di contorno.
Questa uscita non fa eccezione, e si focalizza su un periodo piuttosto bistrattato nella storia dei Beach Boys, un momento in cui Brian Wilson è sempre meno coinvolto, Bruce Johnston abbandona momentaneamente e Blondie Chaplin e Ricky Fataar (dalla band Flame) vengono aggiunti alla formazione, portando sia nuovi brani che un nuovo sound nei concerti, che se precedentemente non sono stati il punto forte della band, in questo periodo raggiungono un livello altissimo (come testimoniato dall'album IN CONCERT, registrato in varie date nel 1973 e pubblicato a Novembre di quell'anno). 
Con questa formazione i Beach Boys pubblicano CARL & THE PASSIONS: SO TOUGH! e HOLLAND, su cui non mi dilungo troppo in quanto ne ho parlato nel dettaglio qui e qui

SAIL ON SAILOR 1972 include nei suoi 6 CD i due album rimasterizzati, l'EP MOUNT VERNON AND FAIRWAY, l'intero concerto alla Carnegie Hall di New York del 23 Novembre 1972 su due CD, e una lunga serie di outtake, versioni strumentali, a cappella, e così via.

Partiamo dagli album veri e propri, andando a toccare fin da subito il punto più debole dell'intero cofanetto, in quanto entrambi sono stati rimasterizzati in modo, a mio parere, decisamente poco appropriato. Ciò che ha sempre caratterizzato questi album è, forse più di ogni altra cosa, un suono caldo e avvolgente, vellutato, mai aspro, mentre ora tutto è eccessivamente brillante, spesso affiorano fruscii prima inudibili, quando non addirittura qualche distorsione (particolarmente evidente in Steamboat, da HOLLAND, su voce e chitarra). Da un lato comprendo la scelta di rendere gli album più brillanti e moderni, d'altronde è anche la premessa dietro i recenti remix dei Beatles, però qui i difetti citati erano facilmente evitabili, e se si tratta di scelte stilistiche sono al limite dello scellerato, mentre se si tratta di errori o sviste beh, sono molto dilettantesche, oltre che inaccettabili per il prezzo a cui viene venduto il tutto. Poi certo, entrano anche in gioco i gusti personali, e infatti ho visto persone non notare questi difetti, a loro consiglierei una visita all'udito.

Superato questo macigno (per fortuna le vecchie versioni degli album sono ancora reperibili, e chi le ha se le tenga strette), spostiamoci a quello che forse è il punto forte del cofanetto: il concerto alla Carnegie Hall, fortunatamente masterizzato decisamente meglio degli album in studio. Già precedentemente alcuni brani isolati erano stati pubblicati come parte di diversi cofanetti antologici, ma è la prima volta che l'intero concerto viene pubblicato, e se da un lato il già citato IN CONCERT rimane essenziale, dall'altro è magnifico poter finalmente ascoltare un intero concerto di quell'epoca in ottima qualità. Spiccano ottime versioni di Long Promised Road, Let The Wind Blow, il bel medley, oltre che audace, di Wonderful e Don't Worry Bill (prima di Wonderful Mike Love parla di SMILE e lo annuncia come in uscita l'anno successivo), e soprattutto Wild Honey, cantata da Blondie Chaplin. C'è veramente tanto di cui godere, anche se non mancano gli interventi di sovraincisione, con parti corali e strumentali prese da versioni in studio o da altri concerti, e se ciò è di uso comune in praticamente ogni uscita live, ad alcuni può lasciare l'amaro in bocca (per questo, per fortuna, continuano ad esistere i bootleg). Un live che, tutto sommato, meriterebbe l'uscita individuale. 
Il rimanente materiale illustra le session in studio di quel periodo, con momenti decisamente interessanti e altri che si ascolteranno giusto una volta per curiosità. Vale la pena ascoltare brani all'epoca esclusi dagli album, come We Got Love, Out In The Country e, soprattutto, Carry Me Home, oltre alle versioni senza orchestra di Cuddle Up e Make It Good, mentre è curioso ascoltare i pochi input creativi di Brian Wilson all'epoca, nelle versioni alternative dei frammenti dell'EP MOUNT VERNON e brani, sempre strumentali, come Spark In The Dark (che poi diventerà Chain Reaction Of Love nel suo album da solista del 1988) e la bizzarra Rooftop Harry, oltre alla registrazione casalinga in cui Brian accenna Sail On Sailor a Van Dyke Parks, che poi ne scriverà il testo. Insomma il materiale interessante non manca, bisogna solo trovarlo tra le decine e decine di brani presenti.

In conclusione, ogni fan dei Beach Boys non può non essere felice di assistere all'uscita di cofanetti come questo e i precedenti, in quanto permettono, finalmente, di rivalutare una fase della loro carriera ingiustamente mai celebrata a dovere (ricordiamoci, ad esempio, che per gran parte degli anni '90 album come SUNFLOWER, SURF'S UP e i due qui presenti erano fuori catalogo, una follia per una band di tale importanza), ma le pecche non mancano, e l'elevato prezzo di vendita lo rende decisamente fuori portata per molti fan. Per fortuna che esiste lo streaming, altrimenti si può anche prendere in considerazione la versione a 2 CD, che include i due album e una selezione di brani bonus, ma niente dal concerto alla Carnegie Hall, quindi in sostanza ben poco di interessante, specialmente visti i già citati problemi di rimasterizzazione. Insomma, ascoltatelo su Spotify, Youtube, dove volete, ma date una chance ai Beach Boys di quel periodo, non ve ne pentirete.    

mercoledì 23 novembre 2022

Devin Townsend - Lightwork \ Nightwork (2022) Recensione


A più di tre anni da EMPATH, dopo aver passato un innegabilmente complicato periodo da cui sono usciti lavori più particolari come THE PUZZLE e SNUGGLES, oltre ad una lunga serie di demo e video a testimoniare il processo creativo di Devin, eccoci finalmente di fronte ad un suo vero e proprio nuovo album. 
Per la prima volta Devin è affiancato da un produttore, Garth Richardson, e ciò sicuramente ha influito sul risultato finale, che, specialmente se confrontato alla schizofrenia creativa di EMPATH, risulta decisamente più semplice, coerente, convenzionale, pop, ovviamente sempre entro quello che è il suo tipico stile.
Devo fare una premessa prima di scendere nel dettaglio: gran parte della fanbase di Devin Townsend arriva dalla musica metal, che indubbiamente è il suo genere principale, ma, per quanto mi riguarda, ciò che mi ha attirato alla sua musica ha più a che fare con il suo stile compositivo, il suo gusto melodico, la sua voce, la sua personalità, e pur non apprezzando il metal, in questo specifico caso posso tollerarlo. Questo mi permette di avere un punto di vista diverso da molti nei confronti di questo album, che, vista la sua natura sopra citata, è più pop e lineare del suo solito, e quindi laddove ciò può essere una delusione per i fan più inclini ad apprezzare il suo lato metal, per il sottoscritto è quasi un pregio. 

Detto questo, già i tre singoli che hanno anticipato l'uscita dell'album mostrano questa tendenza, e sono brani piuttosto solari, senza grosse sorprese, con bei ritornelli coinvolgenti, perfetti per donare pace e buonumore. Ed è proprio questa la premessa dietro a LIGHTWORK: creare un punto fermo in mezzo alla tempesta, come un faro appunto, in cui rifugiarsi quando ce ne si ha bisogno, o quando si necessita di una guida che ci mostri una direzione da seguire. 
In questo senso canzoni come Moonpeople, Call Of The Void, l'epica Equinox, la più teatrale Lightworker (forse il miglior brano del disco), o la potente Celestial Signals sono un perfetto esempio di equilibrio tra sonorità potenti, con l'ormai tipico wall of sound di Devin (in questo caso, però, con le chitarre più basse nel mix rispetto al passato), ma non deflagranti, piuttosto liberatorie, e momenti più sussurrati, con ottimi e memorabili ritornelli che non sfigurerebbero in ipotetiche radio decenti (seppure ciò sia sostanzialmente un ossimoro il più delle volte). 
Tutto porta poi al culmine finale di Children of God, un vero e proprio inno che chiude perfettamente il cerchio lasciando spazio nel finale a suoni ambientali marini. Nel mezzo ci sono anche delle eccezioni alla formula, e in questo senso il brano che più spicca è Heartbreaker, indubbiamente il più intricato dell'album, con continui cambi e tempi complessi, e il motivo di questo improvviso cambio rispetto allo stile degli altri brani è stato causato dalla necessità di eliminare un altro brano dalla scaletta per motivi legali, ed il che ha portato alla decisione di inserirne un altro al suo posto, anche se meno in linea con il resto. Anche Dimensions, seppur più lineare, si distacca per via delle sue sonorità più aggressive, mentre Vacation è una piccola e graziosa pausa acustica. Doveroso poi ricordare che all'album hanno contribuito molti musicisti aggiuntivi, troppi per essere elencati qui, oltre alle ormai consuete Anneke Van Giersbergen e Ché Aimee Dorval ai cori.  
Insomma siamo di fronte ad un album estremamente piacevole all'ascolto, soprattutto se confrontato con altri suoi lavori, che sembra rimandare a dischi come ADDICTED! o EPICLOUD, e che di conseguenza, come anticipato, scontenterà alcuni fan del metal e sarà adorato da chi invece apprezza il lato più melodico di Devin.
Come ormai di consueto, ogni album di Devin Townsend, se acquistato nella sua versione deluxe, è affiancato da un secondo disco, spesso della durata e qualità di un album vero e proprio, contenente una selezione di "demo" realizzati da Townsend stesso (che poi chiamarli demo li fa sembrare peggio di quello che sono) e non inclusi nell'album principale, spesso, più che per motivi di spazio, per differenze tematiche o stilistiche. E infatti in questo caso il secondo CD, chiamato NIGHTWORK, raccoglie materiale decisamente più eterogeneo e complesso: inizia con brani al limite del metal estremo, Starchasm pt. 2, Stampy's Blaster e, specialmente, Factions, tira poi fuori cose come la lunga e sperimentale Precious Sardine, la versione alternativa di Children of God chiamata Children of Dog, con sezioni aggiuntive poi eliminate nella versione finale (presumibilmente dal produttore, a ragione), e poi dei magnifici brani più acustici come Yogi, Sober, Boogus, che sembra uscire da un musical, e la commovente Carry Me Home
Ci sarà chi preferirà questo secondo album al principale, specialmente vista l'inclusione di parentesi più metal, ma per quanto mi riguarda lo vedo semplicemente come una interessantissima aggiunta con ottimi brani che, palesemente, non potevano stare in LIGHTWORK. 

In definitiva, questo album è ben lontano da EMPATH, e forse proprio questo è uno dei suoi maggiori pregi, in quanto, seppure quest'ultimo è tutt'ora visto da molti, compreso il sottoscritto, come un capolavoro, trovo sia sempre meglio evitare di ripetersi, ed in questo senso LIGHTWORK è un album estremamente apprezzabile, quasi come un'altra faccia della stessa medaglia, simile nelle radici ma profondamente diversa nei risultati. 


domenica 30 ottobre 2022

Ween -Tutti gli album dal peggiore al migliore

I Ween sono un gruppo praticamente indefinibile, tanti sono i generi musicali che hanno affrontato con successo, sempre in equilibrio tra serietà e parodia, senza mai sbilanciarsi né dall'una né dall'altra parte. Forse proprio per questa loro difficile categorizzazione sono così poco conosciuti in Italia, a cui tanto piace definire le cose con inequivocabili etichette (che poi scatenano sanguinarie discussioni tra "appassionati"), oltre al fatto che gran parte dei generi da loro affrontati sono tipicamente americani. Tuttavia, proprio questo aspetto è uno dei loro più grandi punti di forza, la versatilità ed un generale atteggiamento figlio diretto del punk (non come genere musicale, ma proprio nel modo in cui la band se ne frega totalmente di ciò che avrebbe senso fare, a partire da ciò che magari vorrebbero i loro fan), che va dai primissimi lavori ai limiti del lo-fi, fino ai più maturi album dove scrittura, arrangiamenti e performance sono di altissimo livello, senza mai perdere quella indefinibile ma riconoscibile identità.

I Ween sono tecnicamente un duo fondato intorno alla metà degli anni '80 a New Hope, Pennsylvania, da Aaron Freeman e Mickey Melchiondo, il primo cantante e il secondo chitarrista, che rispettivamente sono conosciuti con i nomi Gene e Dean Ween, a cui, negli anni, si sono aggiunti altri musicisti, specialmente dal vivo, a supportarli (Claude Coleman Jr. alla batteria, Glenn McClennan alle tastiere e Dave Dreiwitz al basso). Tutti i loro album sono prodotti da Andrew Weiss (che per un breve periodo a metà anni novanta fu anche loro bassista dal vivo), ed è ricorrente la presenza della divinità demoniaca di loro invenzione chiamata Boognish, che, stando alla definizione ufficiale sul sito della band: "è un Dio Demone che è apparso tre volte ai fratelli profeti Dean e Gene Ween. Risiede da qualche parte al di fuori del buffer orbitale. La tradizione vuole che questa entità tenga uno scettro in ogni mano: quello della ricchezza e quello del potere". A ciò va doverosamente aggiunto il termine "marrone", o meglio "brown", che seppur non abbia un significato inequivocabile, è generalmente accettato che stia a significare qualcosa di talmente brutto e fatto male che diventa, a suo modo, un capolavoro (in questo senso l'album THE POD è considerato un manifesto). Se tutto ciò pensate che abbia poco senso, non importa. 

Detto ciò, andiamo ad analizzare la loro discografia cercando di ordinare gli album puramente in base a preferenze personali di chi scrive, premettendo che si tratta di una sequenza molto solida di album, e che quindi anche quelli in fondo alla lista hanno al loro interno qualcosa degno di nota. 


11 - Friends EP (2007)


L'unico EP in questa lista (se non si contano altri precedenti di natura promozionale, contenenti, però, brani poi inclusi negli album veri e propri), è una raccolta di cinque canzoni sostanzialmente di natura "danzereccia", tendenzialmente ritmate, ma profondamente diverse tra loro. Spicca Friends, pesantemente ispirata dalla dance anni '90, la quasi caraibica Light Me Up, dall'allegria contagiosa, e la conclusiva Slow Down Boy, la versione dei Ween di una tipica ballad pop anni '80. Il resto si piazza un po' indietro, in quanto I Got To Put The Hammer Down è sicuramente carina ma dimenticabile, e il reggae di King Billy è, semplicemente, troppo lungo. Non è un brutto EP, ma ha un po' poco da offrire rispetto agli standard tipici di questa band, non solo in termini di durata. 


10 - La Cucaracha (2007) 


Ad oggi l'ultimo album dei Ween, è uscito poco dopo l'EP Friends, e con esso condivide la title track, qui però presente con un diverso arrangiamento forse un pelo inferiore all'originale. Il resto dell'album sembra voler a tutti i costi ribadire la versatilità del duo, con però un po' meno ispirazione a supportarla, specie se confrontato ai lavori anche immediatamente precedenti. Ci sono quindi ottimi brani come la magnifica Object, il ritorno del country (vedremo dopo perché si parla di ritorno) in Learnin' To Love, il pesante rock guidato da Dean nella esilarante With My Own Bare Hands, la commovente Lullaby, la lunga Woman And Man (con uno spettacolare assolo di Dean), e la perfetta conclusione sia dell'album che di una eventuale discografia con Your Party. Il resto oscilla un po' in termini di qualità, dall'esperimento con l'autotune di Spirit Walker alla parodia del pop punk di Shamemaker, si nota quanto i Ween tentino di catturare ancora una volta la magia di album come CHOCOLATE AND CHEESE, riuscendoci, tuttavia, solo in parte. 



9 - Pure Guava (1992) 


Il loro terzo album, il primo sotto una major (la Elektra), ma ancora tutt'altro che commerciale. Già il precedente THE POD, come vedremo, fu registrato praticamente in modo "casalingo", con un registratore a quattro tracce ed un uso pesante della drum machine, ma se in un certo senso il precedente riusciva, in tutta la sua stranezza fuori di testa, a risultare fresco e sincero, PURE GUAVA a tratti sembra quasi un tentativo di replicare quella stessa formula, senza però riuscirci appieno. Tutte le caratteristiche ci sono: brani stralunati, drum machine psicotica, effetti di varia natura applicati alle parti vocali (da distorsioni e vere e proprie manipolazioni della velocità del nastro), ma forse manca un po' dell'ispirazione del precedente. Troviamo al suo interno una piccola hit, Push Th' Little Daisies, con la voce di Gene accelerata ed estremamente acuta (a tratti ricorda la voce di Eric Cartman di South Park, perlomeno in lingua originale, e sicuramente ne è stata un'ispirazione), la terza parte della saga di The Stallion, forse la parte più "normale", un brano diventato poi un classico delle loro scalette dal vivo, Don't Get 2 Close (2 My Fantasy), dal ritornello contagioso ed il finale corale a la Queen, altri brani stralunati poi portati stabilmente in concerto come Big Jilm, Touch My Tooter e i classiconi Reggaejunkiejew e Poopship Destroyer (quest'ultima spesso suonata come ultimo bis estremamente esteso laddove la band decidesse di "punire" un pubblico ostile nei loro confronti). Nel mezzo trovano posto le concitate The Goin' Gets Though From The Getgo e Pumpin' 4 The Man, oltre a brani-non brani come la conversazione strafatta di I Play It Off Legit. In definitiva, quasi un THE POD parte 2, ma un po' meno riuscito, con più riempitivi ma tanti brani essenziali al suo interno. 

8 - 12 Golden Country Greats (1996) 


Che ci trovassimo di fronte ad una band particolare credo che ormai si fosse capito, ma in pochi si sarebbero aspettati che il loro quinto album potesse essere un lavoro totalmente country (ecco perché ho parlato di "ritorno" precedentemente), oltretutto con al suo interno dieci canzoni e non dodici come indicato dal titolo. I Ween andarono a Nashville a registrare questo album, utilizzando anche svariati veterani session man dell'ambiente, e sfoderarono una serie di canzoni, appunto, country. In un certo senso si tratta dell'album più "normale" della loro discografia, ottimamente suonato, cantato e prodotto, senza alcuna stranezza sonora, se non fosse per i testi. Basta infatti citare un titolo come Help Me Scrape The Mucus Off My Brain o Piss Up A Rope per capire il tono dei testi, oppure la magnifica Mister Richard Smoker, di cui invito a cercare e leggere il testo perché non sarò io a spiegarvelo. C'è chi consiglia questo album come punto di partenza per scoprire poi la loro intera discografia, proprio in luce della sua normalità, e non so quanto essere d'accordo, ma di fatto se vi piace il country, non fatevelo sfuggire! 

7 - Shinola Vol. 1 (2005) 


Un unicum nella discografia dei Ween, in quanto si tratta di una raccolta di vecchi brani scartati dagli album precedenti (e ce ne sono a decine, se non centinaia, reperibili su bootleg vari), però riregistrati in studio apposta per questo album. Quindi non aspettatevi vecchi e polverosi demo ricoperti di fruscio, perché la sensazione è, invece, quella di trovarsi di fronte ad un vero e proprio nuovo album (se, ovviamente, già non conoscete le canzoni qui incluse). Si tratta di un lavoro molto eterogeneo, in quanto convivono pacificamente al suo interno brani risalenti ai primi anni '90, quindi di natura più sperimentale, come Tastes Good On Th' Bun e Big Fat Fuck, e canzoni più recenti e mature come la conclusiva Someday, esclusa da QUEBEC del 2003. Nel mezzo c'è il rock da stadio di Gabrielle, la floydiana Did You See Me, forse il miglior brano del disco ed uno dei loro migliori in generale, la ballata psichedelica How High can You Fly, e la squisita Monique The Freak, un ritorno alle sonorità tipiche di Prince (vedremo anche qui perché ritorno) o di certe cose di Nile Rodgers. 
Forse un album non essenziale, ma pieno di ottime canzoni che meritavano di essere pubblicate ufficialmente. A quando un volume 2?

6 - The Pod (1991) 


Probabilmente uno degli album più folli mai usciti, il secondo ufficiale della discografia dei Ween ed il primo, di fatto, registrato in modo totalmente casalingo (in quanto l'esordio, come vedremo, vanta una produzione generalmente di più alta qualità). Qui ci si trova di fronte a quasi un'ora e venti minuti di folli drum machine, voci manipolate, tanta distorsione ed effetti sonori quasi a mascherare o deturpare molte ottime idee musicali, rendendole al limite dell'ascoltabile. Se infatti l'inizio con Strap On That Jammypack, con i suoi start e stop casuali e la voce maniacale, sembra un semplice esercizio goliardico (come ne troveremo più avanti), già brani come Dr. Rock, Captain Fantasy e Sketches Of Winkle sono ottimi esempi di quell'atteggiamento punk alla base soprattutto dei loro primi lavori (ben più evidente nell'album precedente, come vedremo), tanto sono cariche di distorsione ed energia. Ci sono poi brani che stupiscono per i motivi più disparati, dal folk epico di Right To The Ways And The Rules Of The World a Oh My Dear (Falling In Love), che sembra uscire da uno dei primi album dei Beatles, fino alla maniacale Laura, che, dopo una prima sezione cantata pesantemente effettata, travolge l'ascoltatore con un'apocalisse sonora fatta di arpeggi di chitarra sovrapposti leggermente stonati fra loro. Iniziano poi a venir fuori temi ricorrenti, come il piatto "pork roll, egg & cheese", non solo presente nell'omonima, ottima, canzone, ma anche in Frank, e, soprattutto, è ripetuto in modo ossessivamente depresso nell'oscura She Fucks Me, oppure non si può non citare l'inizio della magnifica saga di The Stallion, con le sue prime due parti, le più malate, con Gene al megafono a urlare insulti e Dean a sfoderare una sequenza di riff dissonanti (la terza è in PURE GUAVA, mentre la quarta e la quinta sono reperibili solamente in bootleg, e sporadicamente la band le suona tutte e cinque in sequenza dal vivo). Un album dai toni generalmente scuri, opachi, spesso sonnolenti, dal particolare senso dell'umorismo spesso nonsense (Pollo Asado), squisitamente marrone, ostico per molti, un capolavoro per altri. 

5 - God Ween Satan: The Oneness (1990) 


L'album d'esordio dei Ween è sostanzialmente una selezione dei migliori pezzi composti dai due nei loro primi anni insieme, dal 1986 al 1990, anni in cui realizzarono svariate cassette demo (reperibili come bootleg) di variabile qualità, e ciò rende questo album non solo lungo, ma anche estremamente solido. Qui trova sfogo l'anima più punk e distorta dei Ween, in brani come You Fucked Up, Bumblebee, Fat Lenny, Old Queen Cole, Papa Zit e altre, e generalmente, a differenza dei due successivi, la qualità di registrazione e produzione è migliore, in quanto hanno potuto registrare a casa del produttore Andrew Weiss, potendo quindi anche utilizzare una vera batteria, che fa la differenza. Essendoci ben 26 canzoni, non mancano i primi segni di una versatilità che li caratterizzerà per tutto il resto della carriera, come nella divertente El Camino, dai toni messicani, o la lunga L.M.L.Y.P., di fatto una non dichiarata cover di Shockadelica di Prince, fino al folk medievaleggiante di Squelch The Weasel, spassoso nel suo uso di termini antichi in un testo ai limiti del nonsense. Spiccano brani come l'amara Birthday Boy, affogata da una pesante distorsione e da un suono lo-fi, probabilmente registrata alla buona sul primo nastro trovato, in quanto alla fine si può sentire qualche secondo di Echoes dei Pink Floyd, la beatlesiana Don't Laugh (I Love you), ma la lista sarebbe veramente lunga, tanti sono i brani, molti di cui brevi, che si susseguono sena sosta (meritano una citazione Tick, I Gots A Weasel, Up On The Hill e la finale, comatosa, Puffy Cloud). Un esordio con i fiocchi, specialmente se si considera che Gene e Dean all'epoca avevano solamente vent'anni, con molti brani che negli anni, grazie ai concerti, diventeranno dei classici.


4 - White Pepper (2000) 


Salto avanti di dieci anni e ci troviamo di fronte all'album più "normale" dei Ween dopo 12 GOLDEN COUNTRY GREATS, senza però essere confinato ad un solo genere. WHITE PEPPER, il cui titolo è un ovvio riferimento a due dei più celebri album dei Beatles, si propone come una più consueta raccolta di canzoni, sempre piuttosto varie, ma meno che in passato. L'ispirazione dei Fab Four (comunque sempre presente nella loro musica) si nota soprattutto in brani come la cadenzata Even If You Don't o la magnifica e commovente Stay Forever, tra i loro migliori brani di sempre, mentre altrove, ovviamente, le ispirazioni si fanno più disparate. Si va dalla caraibica Bananas and Blow al pesante rock a la Move di The Grobe, fino all'ovvio omaggio agli Steely Dan in Pandy Fackler e al quasi speed metal di Stroker Ace. Se a ciò aggiungiamo ottimi brani come Exactly Wher I'm At (ottima la produzione che "apre" il suono dopo la prima strofa) e il folk psichedelico orientaleggiante di Flutes Of The Chi, ci troviamo di fronte ad un album forse non coraggioso quanto altri dei Ween, ma certamente uno dei più solidi e piacevoli all'ascolto, senza troppe stranezze, ma semplicemente tante belle canzoni. 

3 - Chocolate And Cheese (1994) 


Il loro quarto album è anche il primo ad uscire fuori dalla prima fase più "lo-fi", e vanta una generale resa sonora decisamente più "professionale" e di alto livello, oltre a mostrare un enorme passo avanti in termini di scrittura delle canzoni. Questo album è una sorta di manifesto della musica dei Ween, quello in cui, forse più che in ogni altro, mostrano la loro versatilità, sfoderando sedici canzoni tutte diversissime fra loro. Ci sono ancora tracce del nonsense, a volte anche di dubbio gusto (in senso buono), dei lavori precedenti in brani come The HIV Song o Spinal Meningitis (Got Me Down), ma è in canzoni come l'orientaleggiante I Can't Put My Finger On It, Voodoo Lady, squisitamente funk, o le beatlesiane Mister Wold You Please Help My Pony? e What Deaner Was Talkin' About (una delle loro migliori canzoni in assoluto), tutti brani poi poi divenuti leggendari per i fan, che la band eccelle. In generale la distorsione e gli strani effetti sonori dei lavori precedenti qui trovano poco spazio, e quando lo trovano è sempre ai fini di un risultato finale originale e bilanciato, mai eccessivo. Come non citare poi il soul di Freedom Of '76, con una performance vocale di Gene da applausi, o Tear For Eddie, tributo strumentale di Dean a Eddie Hazel con un assolo da brividi, e che dire dei ben 7 minuti di Buenas Tardes Amigo, drammatica quanto comica storia dai toni messicani pare ispirata da Sesame Street? E poi ci sarebbe anche Roses Are Free, altro ottimo brano, la carica Take Me Away, in cui Gene fa quasi il verso a Elvis, e potrei continuare... CHOCOLATE AND CHEESE è un autentico capolavoro, con giusto una manciata di brani più "deboli" a tenerlo nel gradino più basso del podio, ma forse si dimostra essere un ottimo punto di partenza per i nuovi fan, tanto è varia la proposta musicale al suo interno. 

2 - Quebec (2003) 


Un album dai toni un po' più oscuri e amari rispetto agli altri, frutto del divorzio che stava attraversando Gene ai tempi, che traspare in molteplici brani al suo interno. Non che rabbia e disperazione prendano il sopravvento in tutti i brani, ci sono le eccezioni, ma in generale la varietà e la goliardia di altri loro lavori fa qui un passo indietro. Ci sono quindi riferimenti a depressione e antidepressivi, come nelle psichedelice Zoloft, bel brano sognante e rilassato, e Happy Colored Marbles, che ad una prima sezione inquietantemente allegra contrappone un distorto ed inaspettato finale strumentale, ci sono riferimenti alla difficile situazione sentimentale, come nella bella Tried And True e I Don't Want It, più malinconiche, o nell'epico finale, quasi una parodia dei Radiohead (comunque migliore di grandissima parte della loro discografia), If You Could Save Yourself (You'd Save Us All). Ci sono poi momenti più distesi e meditativi, come Captain e Alcan Road, che si contrappongono alle sporadiche follie sonore di So Many People In The Neighborhood e The Fucked Jam, quasi uno sguardo al loro passato. C'è anche un breve momento vaudeville in Hey There Fancypants, divertente canzone dal testo inaspettatamente amaro, oltre ad alcuni dei loro migliori brani mai composti, Transdermal Celebration e l'epica The Argus
Pur essendo un album meno vario degli altri, la maturità dei due e la genuina ispirazione dietro alle composizioni rendono QUEBEC uno dei loro album più compiuti e completi, apprezzabile anche da chi non è fan dei Ween e vuole ascoltare, semplicemente, un gran bell'album. 

1 - The Mollusk (1997)


Ricordato da molti come "l'album che ha ispirato Spongebob" (stando alle parole del suo creatore), o "l'album con Ocean Man" (per chi è più avvezzo ai meme), THE MOLLUSK è senza alcun dubbio il più alto risultato raggiunto dai Ween. Definibile come un concept album ,sia per il tema d'ispirazione marina che accomuna gran parte delle tracce (oltre all'onnipresenza di suoni ed effetti sonori di natura "acquatica), sia per una qualche storia che alcuni teorizzano si possa trarre dai testi dei brani, qui la band trova il perfetto equilibrio tra ottime canzoni, follie sonore e goliardia. Ocean Man non ha bisogno di presentazioni, ed è un ottimo brano pop caratterizzato dalla voce rallentata di Gene, a riprova del fatto che la manipolazione della voce tramite il cambio di velocità del nastro continua ad essere ben presente, come anche nella meravigliosa I'm Dancing In The Show Tonight, perfetta apertura del disco, d'ispirazione vaudeville. Nel resto dell'album trova spazio il folk, come nella title track e Cold Blows The Wind, la psichedelia nella spettacolare Mutilated Lips, nel valzer malato di Polka Dot Tail o nella più pesante The Golden Eel, per arrivare ai canti marinareschi della spassosa The Blarney Stone e della più malinconica She Wanted To Leave. Nel mezzo ci sono alcuni dei migliori brani dell'intera discografia dei Ween, come It's Gonna Be (Alright), una delle melodie più pure che io abbia mai ascoltato, l'epica Buckingham Green, che in appena tre minuti e mezzo riesce ad includere un saliscendi che alcuni neanche nel triplo di quel tempo riuscirebbero a realizzare, e la divertente Waving My Dick in the Wind. Non esagero quando affermo che THE MOLLUSK è uno degli album più belli degli anni '90, e mi chiedo come sia possibile che non sia più conosciuto, specialmente in Italia, poi mi ricordo quali altri gruppi esteri dell'epoca venivano apprezzati qui e mi do da solo la risposta. 
Detto ciò, ascoltatelo, non ve ne pentirete. 




venerdì 23 settembre 2022

Pink Floyd - Animals 2018 Remix (2022) Recensione


Probabilmente uno degli album più controversi dei Pink Floyd, adorato da alcuni, snobbato da altri, probabilmente in quanto uscito tra due album estremamente famosi come WISH YOU WERE HERE e THE WALL, ma in un certo senso unico nella loro discografia. Siamo nel pieno dell'epoca punk, e per tanto che si cerchi di vedere le sonorità di questo album, tendenzialmente più dure rispetto ai loro lavori precedenti, come una reazione al suddetto movimento, di fatto ben più di metà album già veniva suonato in tour dal 1974 (per chi non lo sapesse, Dogs era You Gotta Be Crazy e Sheep invece Raving And Drooling), per poi essere leggermente rivisto e rielaborato con testi parzialmente nuovi, che con l'aggiunta di Pigs (Three Different Ones) andarono a suddividere l'umanità in cani, maiali e pecore, su ispirazione della Fattoria Degli Animali di Orwell. Certo, c'erano le due parti di Pigs On The Wing a introdurre e concludere l'album,  che con i loro toni acustici intimistici alleggerivano in parte i toni, ma in generale l'album si attestava su un'atmosfera cupa, violenta, inquieta, nervosa, dominata forse per la prima volta quasi totalmente dall'identità di Roger Waters, quasi come una prova generale per THE WALL (il cui concetto base fu ispirato proprio dalla triste esperienza di Waters nel tour degli stadi che seguì in promozione ad ANIMALS). 

Questa atmosfera non era solo creata dai testi, tutt'altro che ottimistici e solari (seppur il finale di Sheep dava un tocco di speranza assente nel romanzo da cui Waters si era ispirato), ma anche dalla resa sonora dell'album, che, probabilmente, essendo stato il loro primo lavoro registrato negli allora neonati studi personali della band, i Britannia Row, risultava lontano dalla cristallina pulizia degli album precedenti, ma anche dalla pomposità data da Bob Ezrin al successivo THE WALL. Il suono era certamente più caldo, ma anche più opaco, come offuscato da qualche nuvola (pun intended), e se ciò ha di certo dato un carattere tutto particolare all'album, di fatto non lo ha aiutato a fare breccia nel cuore del grande pubblico quanto altri (poi la mancanza di potenziali brani radiofonici di certo non ha aiutato a sua volta), portando quindi ANIMALS ad essere, negli anni, più un album per appassionati e fan che un lavoro universale quanto un THE DARK SIDE OF THE MOON, senza, tuttavia, mai raggiungere totalmente lo status di "album di nicchia", sia ben chiaro.

Forse proprio per questo qualche anno fa fu commissionato a James Guthrie (già al fianco della band dai tempi di THE WALL in poi come tecnico del suono) un remix, inizialmente previsto per il 2018, poi rimandato per anni fino ad ora, principalmente per problemi tra Waters e Gilmour riguardanti la presenza, o meno, di liner notes nel libretto (l'avrà vinta Gilmour, quindi niente note storiche nel libretto, che Waters ha, tuttavia, condiviso sulla sua pagina Facebook). L'idea di base, suppongo, sia simile a quella dietro a molti remix di album storici, come ad esempio quelli recenti dei Beatles ad opera di Giles Martin, cioè quella di rendere il suono più "attuale", di svecchiarlo un po'.
Ovviamente, premetto, questo tipo di operazioni è sempre da prendere con le pinze, in quanto non si può e non si deve sostituire il lavoro originale (infatti i casi in cui ciò accade, si vedano i Genesis o gli Who, sono scandalosi), ma offrirne una visione alternativa, che, in quanto un mix non è mai scienza perfetta, avrà sicuramente pregi e difetti.

La prima cosa che si nota è un generale "asciugamento" del suono, togliendo gran parte del riverbero precedentemente presente soprattutto sulle voci (particolarmente evidente laddove le parti vocali sono più "isolate", come in Pigs On The Wing e l'inizio di Dogs), mentre le chitarre sono tendenzialmente più presenti e, a loro volta, nitide, sia l'acustica di Pigs On The Wing che le numerose parti di elettrica solista e in armonia di Gilmour in Dogs. Altro grande cambiamento si nota per la batteria di Mason, in quanto, a fronte di un mix generale (quindi di tutti gli strumenti e delle voci) generalmente più "stretto" nello spettro stereo rispetto all'originale, le iconiche rullate sui tom sono state distribuite in modo molto ampio, dando più chiarezza, oltre ad una generale resa più spinta sia sulle frequenze basse che alte, con un risultato finale meno "inscatolato". Simile trattamento è stato fatto ai numerosi effetti sonori presenti, dal latrato dei cani al grugnito dei maiali, fino al belato delle pecore, più presenti e meglio distribuiti nello stereo. Chi, però, ci guadagna di più è probabilmente Rick Wright, le cui parti di tastiere sono ora decisamente più enfatizzate, specialmente in Sheep (si ascoltino le parti di organo Hammond ora in primissimo piano, ad esempio), mentre un simile discorso lo si può e lo si deve fare anche per le magnifiche parti di basso di Pigs (Three Different Ones), in studio suonato da Gilmour, talmente spinto di volume che a tratti si sente la cordiera del rullante di Mason vibrare. 

Generalmente ora sembra tutto più a fuoco, più presente, più nitido e "in faccia", laddove l'originale era più oscuro, ovattato, opaco: insomma due chiavi di lettura diverse ma altrettanto valide e supportate da due diversi artwork che perfettamente ne rappresentano il contenuto. Se infatti l'iconica foto originale della centrale Battersea con il maiale volante era carica di toni caldi, la più recente foto utilizzata nel remix è quasi in bianco e nero, fredda, con la centrale circondata da cantieri, e da un certo punto di vista si possono usare simili termini per descrivere rispettivamente il sound delle due versioni dell'album.
Il remix infatti è tendenzialmente più freddo, appunto moderno, non suona più totalmente come un album anni '70, ma come una versione che, a posteriori, si avvicina sì alla pulizia dei precedenti album, ma lo fa con un orecchio attuale, con la potenza del suono data da moderne compressioni ormai tipiche di ogni tipo di produzione, che, tuttavia, paradossalmente, tolgono un tocco di dinamica che donava un maggior impatto a sezioni come il finale di Dogs, ora un pelo più smorzate. 

Quindi, in definitiva, vale la pena ascoltare questo remix? Tutto dipende da quanto siete fan dell'album originale, e da quanto vorreste sentirne una versione realizzata da un punto di vista diverso, che rivela dettagli apparentemente inediti, ma non sostituisce affatto l'originale. Si tratta di un buon remix? Assolutamente. Supererà mai lo status di "curiosità"? Ne dubito. 

giovedì 14 luglio 2022

Tiny Tim - Rock (1993) Recensione


Tiny Tim è uno dei personaggi più particolari e, in un certo senso, controversi dello scorso secolo. Ricordato soprattutto per l'enorme successo che ebbe la sua versione di Tip Toe Through The Tulips del 1968, in cui metteva in mostra il suo iconico e particolare falsetto accompagnandosi con l'ukulele, in realtà i suoi primi album di fine anni '60, specialmente il primo GOD SAVE TINY TIM, sono dei piccoli gioielli splendidamente prodotti e arrangiati, con ottime interpretazioni di vecchi brani di inizio '900 e una manciata di cose nuove. Perché in fondo uno degli aspetti più interessanti di Tim (vero nome Herbert Butros Khaury) era la sua enciclopedica conoscenza di canzoni provenienti fin dalla fine dell'800 fino al secondo dopoguerra, oltre a saperli eseguire in quel suo stile unico che fa sì che la sua voce sembri quasi uscire da una registrazione d'epoca. Ovviamente negli anni questo aspetto è stato messo in secondo piano dai risvolti comici delle sue apparizioni televisive, come conseguenza della sua particolare personalità e aspetto, soprattutto in un periodo in cui, dopo l'enorme successo di fine anni '60, Tim di fatto accettava ogni offerta pur di esibirsi, anche a costo di coverizzare brani "nuovi" e di venir deriso. 

Ciò ci porta agli anni '90, periodo in cui godette di una sorta di riscoperta, ed in cui pubblicò una interessante manciata di album, sempre composti da cover. Nulla, però, può essere paragonato all'album intitolato, semplicemente, ROCK. Il titolo è alquanto appropriato, in quanto effettivamente Tim si cimenta con un repertorio di natura rock quasi del tutto inedito per lui, senza però riarrangiare le canzoni nel suo peculiare stile, ma essendo invece accompagnato da una vera e propria rock band australiana chiamata His Majesty. A prima vista, guardando la tracklist, si notano solamente cinque titoli, e subito si pensa ad un EP, ma non si può essere più distanti dalla realtà. La tracklist è la seguente:

  1. Highway To Hell
  2. You Give Love A Bad Name
  3. Rebel Yell
  4. I Love Rock And Roll (The Medley)
  5. Eve Of Destruction
Già davanti a titoli del genere viene da strabuzzare gli occhi, ma subito dopo si andrà a notare la lunghezza totale dell'album: 76 minuti. Sì, perché se i primi due brani si aggirano sui 6 minuti l'uno, e il medley rock and roll già sui 16, le rimanenti Rebel Yell e Eve Of Destruction sfiorano i 24 minuti a testa. Highway To Hell, una volta superato il trauma iniziale nel sentire Tiny Tim cantare gli AC\DC in uno stile non lontano da quello di certe cose di Arthur Brown (uno stile che caratterizzerà quasi tutto l'album), è relativamente "normale", specialmente se confrontata con quello che ci aspetta più avanti, mentre You Give Love A Bad Name dei Bon Jovi è assolutamente esilarante e decisamente più energica dell'originale. Già in questi due brani si nota come le take sembrino sostanzialmente in gran parte improvvisate, con la band che segue Tim ovunque vada, spesso ripetendo strofe e ritornelli infinite volte in modi diversi, a volte partendo qualche battuta in anticipo e costringendo, quindi, la band ad adattarsi sul momento. Fino ad ora, però, è stato solamente un antipasto, in quanto i 24 minuti di Rebel Yell (di Billy Idol) sono quasi un inquietante rituale in cui Tim sfodera ogni sua voce e anche qualcuna in più, e dopo tempo interminabile ci si trova di fronte ad urla agghiaccianti e alle ossessive invocazioni di "more, more, more!" con una convinzione ed intensità da far impallidire non solo l'originale, ma l'intero movimento e genere punk. Dopo una quasi mezz'ora estenuante eccoci a I Love Rock And Roll, un "tipico" medley di classici del genere, in cui Tim balza da un brano all'altro come se fosse in un campo di tulipani, ovviamente tutti resi nello stile del resto dell'album, quindi anche qui la maniacale follia non manca. L'apoteosi si raggiunge con l'infinita versione di Eve Of Destruction, in cui il messaggio contro le guerre dell'originale diventa ancora più forte ed intenso, di nuovo avvicinandosi ad un mantra, e in un certo senso rappresentando sia sonoricamente che vocalmente la "distruzione" a cui si va incontro se si continua su questa via: se qualcuno ha ancora voglia di mandare dei giovani a combattere in qualunque guerra dopo questi 24 minuti, forse dovrebbe considerare una visita all'udito, sempre che ancora ci senta qualcosa dopo questa deflagrante quasi mezz'ora. 

Certo, non è assolutamente l'album da cui iniziare la scoperta di Tiny Tim (ripeto, meglio ascoltare GOD BLESS TINY TIM del 1968, vero capolavoro della sua carriera), ma è uno di quei lavori che è difficile credere che esista fino a che non lo si ascolta, e che proprio per la sua natura può provocare reazioni diametralmente opposte nell'ascoltatore, da chi lo considera un capolavoro che va oltre ogni possibile valutazione, a chi lo vede come un noioso, inascoltabile e inutile album di cover "fatte male". Personalmente, in mezzo a tanta melma "sperimentale" che molti snob idolatrano, non vedo perché non inserirci anche ROCK, che magari, oltre ad essere "strano" e "difficile", strappa anche qualche sorriso, seppur sappia bene quanto poco ai suddetti snob piaccia sorridere...   
  




lunedì 11 luglio 2022

The Beatles - Let It Be: qual è la miglior versione?


Dopo l'uscita di THE BEATLES, o "White Album", alla fine del '68, i Beatles decisero di fare qualcosa di un po' diverso nel gennaio 1969, anche se, all'inizio, non sapevano bene cosa in particolare. Innanzitutto, ai primi di Gennaio sono andati agli studi di Twickenham con l'idea di essere filmati mentre suonavano insieme, lavorando su nuove canzoni, magari facendo delle prove per un qualche tipo di concerto, con l'assistenza di George Martin, Glyn Johns e una troupe di cameraman diretta da Michael Lidsay-Hogg. L'obiettivo doveva essere quello di suonare i nuovi brani insieme dal vivo in una stanza, quindi senza nessuna grande produzione di alcun tipo, in contrasto con i loro album più recenti. Quello che è successo ormai non è un mistero, grazie al film Let It Be del 1970 e, soprattutto, alla serie Get Back di Peter Jackson del 2021, tuttavia, per farla breve: hanno provato a Twickenham per un po', George Harrison se ne è andato per frustrazione dopo qualche giorno, si sono riuniti di nuovo a Savile Row, George è tornato, hanno chiamato Billy Preston come tastierista, poi, alla fine, hanno deciso di fare un concerto sul tetto, hanno registrato qualche altra canzone il giorno dopo, e poi hanno praticamente chiuso il progetto. Dopo di che sono andati oltre molto rapidamente e, da fine Febbraio, hanno iniziato a lavorare su ABBEY ROAD, mentre Glyn Johns ha lavorato su un paio di possibili versioni di un album poi chiamato GET BACK, tratto da quelle session di gennaio, entrambe scartate dalla band. Hanno quindi deciso di pubblicare un paio di canzoni di quelle session, "Get Back" e "Don't Let Me Down", come lato A e B di un singolo ad aprile, mentre ABBEY ROAD esce a settembre, Lennon chiede quindi a Phil Spector di assemblare un'altra versione del possibile album da quelle registrazioni, l'album cambia titolo in LET IT BE ed esce nel maggio 1970, insieme al film e a un libro. Non è un mistero che a McCartney non piacesse la versione dell'album realizzata da Spector, e questo non ha aiutato in quello che è stato un periodo molto difficile per i Beatles, che alla fine ha portato alla fine definitiva un mese prima dell'uscita dell'album.

Nel corso degli anni abbiamo avuto quattro versioni ufficiali di LET IT BE, senza contare i bootleg, quindi potrebbe essere un po' complicato per il fan occasionale sceglierne una da ascoltare (sebbene la versione originale sarà sempre storicamente importante e fondamentale), soprattutto data la natura del progetto e l'ormai ampia documentazione delle session, insieme a innumerevoli diverse take di singoli brani tra cui scegliere. Proviamo a vedere cosa abbiamo nel dettaglio.

Let It Be (1970)

La versione originale dell'album è prodotta da Phil Spector, ed è uno strano mix di una produzione molto pomposa (il suo famoso "wall of sound") su alcune tracce, e un approccio molto semplice su altre, a cui va aggiunta l'inclusione di brevi spezzoni di dialoghi in studio tra le canzoni. Quindi, da un lato, c'è "The Long And Winding Road" con archi e coro, e dall'altro c'è l'improvvisata "Maggie Mae", o un frammento di "Dig It", una jam in studio. Il risultato è un po' discontinuo, ma in qualche modo funziona. Per qualche ragione, "Don't Let Me Down" non è stata inclusa in questa versione dell'album, anche se è stata effettivamente pubblicata come singolo nel 1969.

Alla fine, ad alcuni piace la peculiare produzione che Spector ha portato su alcune delle canzoni, mentre altri la odiano (incluso McCartney), affermando che è in totale contrasto con l'idea del "ritorno alle origini" che era alla base del intero progetto. Detto ciò, Spector è stato chiamato a lavorare sui brani senza che gli fosse detto esattamente cosa fare, e ha semplicemente fatto il suo lavoro nel suo stile; quindi, anche se il risultato potrebbe suonare discontinuo, non coerente con l'idea iniziale del progetto, e forse anche diverso dal solito "sound" dei Beatles in quanto non prodotto da George Martin), quello che ha fatto è storicamente importante e non può essere sottovalutato.

Tracklist in dettaglio:

  1. Two Of Us: a quanto pare quello che sentiamo è la "take 12", registrata il 31 gennaio.
  2. Dig A Pony: questa versione è tratta dal concerto sul tetto del 30 gennaio: Spector ha deciso di abbassare il pianoforte di Preston nel mix e tagliare la parte "all I want is.." all'inizio e alla fine della canzone.
  3. Across The Universe: la versione base è stata registrata il 4 febbraio 1968, con un sitar, una tamboura e un coro di ragazze, e quella versione è uscita come singolo nell'ottobre 1969. Tuttavia, dal momento che si vedono i Beatles mentre provano la canzone nel film , qualcuno ha pensato che avesse senso averlo anche nell'album, quindi, in quanto non sono mai arrivati ​​​​a una versione finale della canzone in quelle session, Spector ha ripescato la traccia base del 1968, ha aggiunto archi e coro e l'ha rallentata, quindi abbassandola da Re a Re bemolle, il 1 aprile 1970.
  4. I Me Mine: Questa canzone è, ancora una volta mostrata nel film, ma la registrazione vera e propria è stata realizzata solamente il 3 gennaio 1970, senza John Lennon. La take principale utilizzata è la 15, da cui Spector ha copiato e incollato un verso alla fine per renderla più lunga, e ha aggiunto alcuni archi il primo aprile 1970.
  5. Dig It: un breve frammento di una jam in studio nata il 24 gennaio, anche se questa versione specifica è del 26.
  6. Let It Be: la take principale è la 27A del 31 gennaio 1969. Quando decisero di pubblicarla come singolo nel 1970, George Martin scrisse e registrò un arrangiamento di ottoni e nuove sovraincisioni di un coro (di McCarney, sua moglie Linda e Harrison), piano elettrico e nuove percussioni. Per l'album, Spector ha utilizzato un altro assolo di chitarra registrato da Harrison nell'aprile 1969 (riconoscibile per non essere stato suonato tramite un altoparlante Leslie, come i precedenti) e ha alzato l'arrangiamento degli ottoni di Martin nel mix.
  7. Maggie Mae: una vecchia canzone tradizionale improvvisata e registrata molto velocemente il 24 gennaio, questo è il terzo tentativo assoluto.
  8. I've Got A Feeling: quella che sentiamo è la prima esecuzione completa di questa canzone sul tetto il 30 gennaio 1969 (l'hanno suonata due volte quel giorno).
  9. One After 909: questa versione è, ancora una volta, dal concerto sul tetto, l'unica take che hanno suonato lì.
  10. The Long And Winding Road: il brano base è stato registrato il 26 gennaio 1969, a cui Spector ha aggiunto gli archi (arrangiati da Richard Hewison), un coro e un'ulteriore parte di batteria di Ringo il primo aprile 1970.
  11. For You Blue: la traccia base è la take 6 del 26 gennaio 1969, Spector ha deciso di includere una nuova traccia vocale principale registrata da Harrison l'8 gennaio 1970, e di omettere la sua traccia di chitarra acustica dall'intera canzone, mantenendola solo per l'introduzione.
  12. Get Back: quella che sentiamo è la take 11 del 27 gennaio 1969. La coda che registrarono il giorno successivo fu usata solo nella versione del singolo. 


Let It Be... Naked (2003)


Nel 2003 esce il primo remix di LET IT BE, nel tentativo di riportare il suono verso l'approccio più "essenziale", che era poi la premessa originale. Paul McCartney è il motore principale dietro questo progetto, visto che ha sempre odiato il lavoro di Spector sull'originale, e il remix è realizzato da Paul Hicks. Il risultato ha i suoi alti e bassi: da un lato, possiamo ascoltare l'album senza le sovraincisioni orchestrali fatte da Spector (e Martin, nel caso di "Let It Be"), e finalmente c'è anche "Don't Let Me Down" come parte della tracklist; d'altra parte, tutti i piccoli frammenti di jam in studio ("Dig It" e "Maggie Mae") e i dialoghi sono spariti, e le canzoni sono presentate come take in studio pulite, come in un normale album. Questo, insieme all'uso massiccio della tecnologia "de-noise" per rendere tutto ancora più pulito, crea una sorta di strano ibrido di un album che dovrebbe suonare più "dal vivo", ma in alcuni punti suona puramente come una creazione in studio, anche più del mix originale.

Quindi, se si vuole solo ascoltare le canzoni come sono state suonate dai Beatles, in un ordine rivisto (che, secondo me, funziona meglio dell'originale), più "Don't Let Me Down", come album in studio senza alcuna aggiunta, sicuramente si apprezzerà questa versione; se, invece, si vuole una buona rappresentazione dell'atmosfera delle session, si potrebbe rimaner delusi (anche se, tecnicamente, c'è un disco bonus di 20 minuti "Fly On The Wall" con frammenti di dialoghi e jam in studio, non è come avere questi frammenti implementati nell'album vero e proprio).

Vediamo le tracce nel dettaglio:

  1. Get Back: un semplice remix della stessa take usata sia per il singolo che per l'album originale, sempre senza coda, ma anche senza dialoghi.
  2. Dig A Pony: solo un remix della stessa take dal tetto usata nell'album originale (sempre con la parte "all I want is..." tagliata), senza dialoghi e false partenze.
  3. For You Blue: ancora una volta, la stessa versione dell'album originale, con la nuova traccia vocale del gennaio 1970, ma questa volta con la chitarra acustica di George presente nel mix per l'intera canzone.
  4. The Long And Winding Road: questa è probabilmente la traccia che suona in modo più diverso, poiché non solo hanno eliminato le sovraincisioni, ma hanno anche deciso di utilizzare una take completamente diversa. Quella che sentiamo è in realtà la take 19 del 31 gennaio 1969, l'ultima volta che i Beatles hanno suonato la canzone, e anche la stessa versione che vediamo nel film LET IT BE.
  5. Two Of Us: una versione remixata di quella ascoltata nell'album originale, senza dialoghi.
  6. I've Got A Feeling: per questa canzone hanno deciso di combinare le due take del concerto sul tetto, invece di usare solo la prima come nell'album originale, probabilmente per ottenere una versione dal suono più "perfetto".
  7. One After 909: una versione remixata dell'unica take fatta sul tetto, la stessa utilizzata nell'album originale.
  8. Don't Let Me Down: questa canzone non è stata inclusa nell'originale LET IT BE, ma è stata pubblicata come singolo nel maggio 1969, utilizzando una versione registrata il 28 gennaio con l'aggiunta di take vocali registrate nel febbraio dello stesso anno. Questa specifica versione, invece, è una combinazione di due diverse take del concerto sul tetto del 30 gennaio 1969.
  9. I Me Mine: un remix della stessa versione più lunga realizzata da Spector nel gennaio 1970, però senza l'orchestra.
  10. Across The Universe: qui viene utilizzata la stessa take del 1968, ma in questo caso la canzone è presentata alla velocità e alla tonalità originali, senza l'orchestra, con solo voce, chitarra, percussioni leggere e la tamboura di George, con un tocco di riverbero crescente man mano che la canzone avanza.
  11. Let It Be: qui viene utilizzato un remix della take 27A del 31 gennaio (stessa take dell'album originale), senza alcun tipo di sovraincisione del 1970, originariamente presenti sia nel singolo originale che nell'album, e con l'ennesimo assolo di chitarra diverso, questa volta dalla take 27B di quello stesso giorno.
  


Let It Be (Giles Martin 2021 Remix)

Dopo SGT PEPPER'S LONELY HEARTS CLUB BAND nel 2017, il WHITE ALBUM nel 2018 e ABBEY ROAD nel 2019, nel 2021 LET IT BE ottiene a sua volta il "trattamento Super Deluxe". Quindi, in pratica, di solito ci troviamo di fronte ad un nuovo remix di Giles Martin e molte outtake dalle session; in questo caso specifico, insieme al nuovo mix e alle outtake, abbiamo anche un mix di Glyn Johns del 1969 dell'album, che vedremo tra poco.

Il remix del 2021 utilizza le stesse versioni dei singoli brani presenti nell'album originale (quindi non è necessaria una tracklist dettagliata qui), mantenendo anche ogni pezzetto di dialogo e jam, e cerca solo di rendere il tutto più "moderno" in qualche modo . Nel complesso, i bassi sono notevolmente più alti ovunque nel mix, tutto suona molto più chiaro e brillante, meno "cupo", e si possono anche sentire alcuni particolari che prima non erano udibili. Le aggiunte di Spector sono ancora tutte lì, ma ovviamente suonano un po' diverse, il più delle volte un po' meno invadenti.

Alla fine, mentre il nuovo mix fa un ottimo lavoro nel cercare di rendere l'album meno datato, sia che si ascolti il ​​mix originale o questo nuovo, tutto dipende dalle preferenze personali, poiché entrambi sono validi.
 

Get Back (Glyn John 1969 Mix)

Insieme a due CD di outtake delle session e al nuovo remix, l'edizione 2021 di LET IT BE include finalmente una versione di Glyn Johns dell'album del 1969, quando ancora si chiamava GET BACK. Johns ha realizzato più versioni dell'album, tutte scartate dalla band, e la versione qui inclusa è quella di Maggio 1969 (non abbiamo la versione completa del 1970, tuttavia i suoi mix di "Across The Universe" e "I Me Mine" sono presenti in un EP bonus, in quanto quelle due canzoni furono aggiunte alla versione del '70 insieme alla maggior parte dei brani di quella del 1969).

La sua versione è probabilmente la rappresentazione più realistica di quelle session in forma di album, con molti frammenti di dialogo, false partenze e non poche jam in studio; e sebbene alcune scelte delle singole take delle canzoni siano discutibili (ce n'erano di migliori, che in effetti sono state scelte in seguito per LET IT BE e ... NAKED), la sensazione generale è quella di essere in studio con i Beatles che semplicemente suonano insieme le nuove canzoni, scherzano e improvvisano.

Vediamo una tracklist dettagliata (tenete presente che tra ogni traccia ci sono molti dialoghi e false partenze che non menzionerò in dettaglio):
  1. One After 909: questa è la stessa take usata in ogni versione dell'album, quella del concerto sul tetto, e qui è mixata in modo diverso, con uno stereo più ampio.
  2. I'm Ready (Rocker) / Save the Last Dance for Me / Don't Let Me Down: un medley di qualche jam in studio con un frammento di "Don't Let Me Down" improvvisato alla fine, una breve traccia che dà il primo assaggio di quelle session, registrato il 22 gennaio 1969.
  3. Don't Let Me Down: una versione più rilassata della canzone, una delle prime take con Billy Preston al piano elettrico, registrata il 22 gennaio 1969.
  4. Dig a Pony: registrata ancora il 22 gennaio come i brani precedenti, questa volta mantiene la sezione "all I want is..." all'inizio e alla fine.
  5. I've Got a Feeling: un altro brano del 22 gennaio, suonato proprio dopo "Dig A Pony", una versione molto energica che purtroppo si interrompe prima dell'ultima strofa, e finisce lì. Questo è probabilmente uno degli esempi più evidenti di alcune discutibili scelte di take fatte da Jones: sebbene abbia scelto un'ottima performance, il finale mancante è un difetto molto evidente.
  6. Get Back: questo è in realtà la stessa take e mix della versione del singolo del 1969 (quindi la stessa usata anche in ogni versione dell'album), registrata il 27 gennaio, senza la coda del giorno successivo.
  7. For You Blue: la stessa versione usata per tutte le altre uscite, solo con la traccia vocale originale di quella stessa take (non quella ri-registrata nel gennaio 1970), sempre con la chitarra acustica tenuta nel mix.
  8. Teddy Boy: una canzone di Paul McCartney che i Beatles hanno provato in queste session, ma che alla fine l'ha finita da solo per il suo primo album da solista nel 1970. Questa versione, tutt'altro che definitiva, è del 28 gennaio 1969.
  9. Two of Us: questa è la versione finale registrata il 24 gennaio 1969, il primo giorno in cui decisero di provare un arrangiamento acustico del brano, ed è leggermente più lenta e imprecisa nelle parti canore rispetto alla versione che tutti conosciamo.
  10. Maggie Mae: la stessa versione di LET IT BE, solo con una dissolvenza alla fine.
  11. Dig It: questa è la stessa jam presentata su LET IT BE con lo stesso nome, ma qui abbiamo la take completa di 4 minuti invece di soli 40 secondi.
  12. Let It Be: la stessa take usata sul singolo e tutte le diverse versioni dell'album (27A del 26 gennaio), con lo stesso assolo del singolo e senza sovraincisioni di sorta.
  13. The Long And Winding Road: sempre dal 26 gennaio, come in ogni versione dell'album a parte ... NAKED, senza sovraincisioni, solo un tocco di riverbero aggiunto.
  14. Get Back (Reprise): la coda del 28 gennaio.
Alla fine, non esiste una versione definitiva di questo album e, prevedibilmente, tutto dipende dalle preferenze personali. Il mix originale è storicamente importante e, con tutti i suoi difetti, rappresenta perfettamente una band in piena crisi; ... NAKED è una bella esperienza di ascolto più "essenziale", anche se, a causa del suo suono molto pulito, non dà l'impressione di una registrazione dal vivo, e suona invece come un album in studio; il remix del 2021 cerca di far suonare il mix classico più moderno, meno cupo, e si possono sentire meglio i dettagli, ma non perde la sua identità originale; e, infine, il mix di Glyn Johns è imperfetto ma la rappresentazione più vicina di quelle session sotto forma di album.

Quindi, alla fine, tutto si riduce a ciò che uno cerca e, inoltre, ognuno può creare la "sua" versione scegliendo singole tracce da una versione o dall'altra. Se ciò non bastasse, si possono facilmente trovare altre outtake su ANTHOLOGY 3 e il cofanetto LET IT BE SUPER DELUXE EDITION, insieme a una miriade di bootleg.

Per completezza e curiosità, qui sotto trovate la registrazione intera del famoso concerto sul tetto del 30 Gennaio 1969.

giovedì 26 maggio 2022

Journey - Escape (1981) Recensione

Dopo i primi tre album dalle tendenze fusion, con il tastierista Gregg Roile nel ruolo di cantante, l'entrata di Steve Perry già aveva portato un cambiamento nel sound nell'album INFINITY del 1978 (ne ho parlato qui), inaugurando una fase, poi proseguita negli album EVOLUTION e DEPARTURE, in cui il talento vocale del nuovo arrivato si afferma via via sempre più, seppur con ancora Roile ben presente, in uno stile via via sempre più radiofonico. Come profetizzato dal titolo dell'album DEPARTURE (ricordato per la hit Any Way You Want It), Roile abbandona la band poco dopo l'uscita del suddetto, lasciando di fatto gli ex compagni liberi di proseguire nel loro ormai ben avviato percorso alla conquista delle classifiche mondiali, e lo sostituirà Jonathan Cain. Ciò che ne consegue è uno degli album più importanti degli anni '80, che, volontariamente o meno, contribuisce alla nascita e all'affermazione del cosiddetto genere AOR, che sebbene sia un acronimo utilizzato in varie situazioni e contesti, qui lo intendiamo come quel tipico "arena rock" che proprio in questo decennio avrà il suo momento di massimo splendore. 

ESCAPE è probabilmente la perfetta rappresentazione del pop-rock anni '80, con tutti i suoi alti e bassi a seconda dei gusti dell'ascoltatore, ed è anche il momento in cui il mondo si rese definitivamente conto del talento vocale di Perry, qui al suo indiscutibile apice. Fin da subito si mette in chiaro come stanno le cose, con la celeberrima Don't Stop Believin' ad aprire le danze, caso particolare di tipico pezzo da stadio in cui, tuttavia, l'iconico ritornello arriva una sola volta, alla fine. Qui ogni singolo elemento è dosato alla perfezione, dagli accordi di piano iniziali, all'iconica performance vocale di Perry, fino ai centellinati interventi chitarristici di Neal Schon, il tutto aiutato da una cristallina e potente produzione (merito di Mike Stone e Kevin Elson) che farà da base a gran parte delle uscite dello stesso genere che seguiranno negli anni successivi. Se da un lato aprire un album con questo brano è una scelta vincente, dall'altro c'è il concreto rischio che il resto sfiguri al confronto, non essendoci, di fatto, altri brani paragonabili al primo in termini di fama. Detto ciò, il solare rock di Stone In Love e la vivace Keep On Runnin', la quasi-ballad Who's Crying Now e la vera e propria ballad Still They Ride godettero di un buon successo, e a loro volta rientrano in pieno nei canoni AOR, dimostrandosi brani magnificamente composti ed arrangiati. L'unico altro brano in grado di competere (quasi) con Don't Stop Believin' in termini di fama è la conclusiva Open Arms, prototipo di ballad commovente al piano perfetta per far sfoderare gli accendini al pubblico, oltre ad una ulteriore, perfetta, occasione per Perry di mettersi in mostra con la sua magnifica voce. 

Nonostante gli altri brani non siano così conosciuti dal grande pubblico, sono in realtà altri fondamentali tasselli di un album che rasenta la perfezione: se Lay It Down e Dead Or Alive sono forse i brani meno memorabili dell'album, con il loro stile piuttosto generico, un pezzo come l'energetica title track spicca per la sua struttura più complessa, un concentrato di riff e melodie che esce dalla forma canzone tipica senza che ce ne si accorga (come, tra l'altro, già è successo con Don't Stop Believin').
Un altro picco indiscusso dell'album si ha con Mother, Father, enfatico ed epico brano in crescendo (più in termini di intensità interpretativa che di effettive sonorità) in cui Perry dà il meglio di sé, raggiungendo altezze via via sempre più impressionanti, seguito a ruota dai sempre perfetti interventi di Schon alla chitarra: un piccolo capolavoro spesso oscurato dal successo dei brani che lo circondano (consiglio di guardarsi il video della performance dal vivo di questo brano a Houston nel 1981, che trovate in fondo alla recensione).

ESCAPE proietta i Journey verso un indiscutibile successo planetario, che continuerà coerentemente con il successivo FRONTIERS, dalle sonorità un po' più dure, e RAISED ON RADIO, più vicino ad un album solista di Perry (infatti sarà proprio lui a produrlo) ma con altre ottime canzoni al suo interno, prima dello scioglimento della band, interrotto solo a metà anni '90. Dopo l'uscita di ESCAPE non si contano le band rock, di cui molte con già una carriera già avviata nel corso degli anni '70, che si accodarono a questo genere macinando hit su hit, da supergruppi come Foreigner e Asia ai già comunque affermati Toto, i tanto odiati anni '80 (tranne quando tornano di moda, come di questi tempi, allora non sono più odiati, e tutti giù con mullet e giacche con le spallone, perchè viva l'identità) prendono definitivamente forma.

domenica 22 maggio 2022

Wizzard - Introducing Eddy and the Falcons (1974) Recensione


Dopo una prima fase dalla duplice identità stilistica per i Wizzard, dove coesistevano dei magnifici singoli radiofonici di stampo spectoriano e il radicalmente diverso, distorto e sperimentale album WIZZARD BREW (ne ho parlato qui), il leader Roy Wood pubblica il suo primo vero e proprio album solista (in quanto scrive, suona e canta tutto in solitudine), BOULDERS (ne ho parlato qui). Ben presto, essendo BOULDERS composto da brani registrati tra la fine degli anni '60 e i primissimi anni '70, e quindi non ha richiesto una effettiva pausa per la sua realizzazione, Wood ritorna con i suoi Wizzard, abbandonando in gran parte le sperimentazioni di BREW e realizzando un album di canzoni più "canonico", con, tuttavia, un'altra delle sue trovate a dare carattere al lavoro.

I Wizzard qui suonano nei panni di una band fittizia, Eddy and the Falcons, con un repertorio che, stilisticamente, guarda alla fine degli anni '50 e ai primissimi anni '60. Il nome è un ovvio riferimento alla tendenza delle band dell'epoca, molto diffusa nel periodo "pre-Beatles", ad avere non un singolo nome identificativo, ma bensì a combinarlo con quello del cantante (Gary Lewis & the Playboys, Cliff Richards and the Shadows, e così via...), mentre le canzoni si differenziano da quelle precedenti ad opera di Wood per un piccolo particolare: se certi riferimenti e influenze non sono mai stati nascosti nel sound (specialmente il sound a la Phil Spector), qui si arriva alla realizzazione di vere e proprie "riscritture" di brani celebri, tra il tributo e la divertente, ma mai irrispettosa, parodia. Anche il look della band cambia nelle foto interne dell'album, non più il colorato trionfo glam dell'esordio, bensì un glorioso ritorno di giacche di pelle, motociclette e capelli tirati indietro con la brillantina (tra l'altro, essendo lunghi, l'effetto è quello di terrificanti mullet).
L'album ha una breve introduzione in cui si sentono due giovani che vanno al concerto di Eddy & the Falcons, le porte si aprono, il pubblico è in visibilio, il presentatore annuncia la band e via con il primo brano. La sensazione di star assistendo ad un concerto viene solamente suggerita all'inizio, e mai più ripresa (a differenza di, chessò, un Sgt. Pepper), ma, per qualche motivo, la sensazione permane durante l'ascolto. Il primo brano è uno strumentale, Eddy's Rock, pesantemente ispirato al sound del chitarrista Duane Eddy, qui però decorato da pesanti interventi ai sax tipici del sound dei Wizzard, a cui segue Brand New 88, classico brano rock 'n' roll sullo stile di Jerry Lee Lewis.
You Got Me Runnin' guarda invece ai gruppi vocali dei primi anni '60, dalle Ronettes ai Four Seasons, con largo uso di acuti coretti, mentre Dun Lotsa Cryin Over You è, ovviamente, un tributo a Elvis Presley. Ciò che segue sono forse i due brani più di spicco dell'intero lavoro, probabilmente in quanto i più vicini allo stile che lo stesso Wood ha sviluppato in quegli anni; This Is The Story Of My Love (Baby) è un brano pesantemente spectoriano, non lontano stilisticamente dai precedenti singoli dei Wizzard, ed il suo fallimento commerciale come singolo tutt'oggi rimane un mistero. Le tipiche caratteristiche delle produzioni di Spector, soprattutto il famoso wall of sound, sono qui riprodotte in modo totalmente realistico e fedele, e il brano è tra le cose più memorabili composte da Wood. Segue invece una vera e propria riscrittura del classico Runaway di Del Shannon, altro eroe sia di Wood che dell'ex compagno di band Jeff Lynne; la sensazione all'ascolto di questo brano, Everyday I Wonder, è molto particolare, in quanto a tratti sembra di ascoltare una cover, ma proprio quando si pensa che il brano debba andare in un certo modo, ecco che devia altrove, cambiando tempo e sonorità. L'iconico assolo di Clavioline di Runaway è qui riproposto molto simile, una volta all'oboe, un'altra al sax e poi con un sintetizzatore, ed in generale, nonostante la sua natura derivativa, si tratta di un gran bel brano (come d'altronde lo è anche la sua fonte di ispirazione). Segue un tributo a Gene Vincent con Crazy Jeans e un'altra vera e propria riscrittura, questa volta di Oh Carol di Neil Sedaka, con Come Back Karen (pare che lo stesso Sedaka passò dagli studi durante le registrazioni e fu divertito e onorato del tributo), per poi concludersi con il brano forse più vicino alla pesante distorsione sonora del precedente BREW, We're Gonna Rock 'n' Roll Tonight, festosa e rumorosa conclusione dell'album dal sapore, appunto, rock 'n' roll. Se si acquista la recente versione in CD pubblicata dalla Esoteric (dopo che l'album è stato irreperibile per decenni) si può godere di cinque brani aggiuntivi, tutti tratti da dei singoli: il mancato classico Rock 'n' Roll Winter, i lati b strumentali dal sapore jazz Dream Of Unwin, Nixture e Marathon Man (il perché di questo stacco stilistico lo vedremo tra poco) e la divertente Are You Ready To Rock, altro canonico brano rock 'n' roll che non avrebbe sfigurato nell'album, con una sorprendente conclusione dominata dalla cornamusa. 

Dicevamo poco sopra dello stacco stilistico che caratterizza i lati b dei singoli, più dal sapore jazz, e il motivo di ciò sta nell'idea iniziale dietro alla realizzazione di EDDY AND THE FALCONS, che avrebbe dovuto essere un doppio album in cui solo la prima metà sarebbe dovuta essere un revival rock n' roll, mentre la seconda sarebbe stata di natura più jazz e sperimentale, ma la casa discografica decise di imporre ai Wizzard la pubblicazione della sola prima parte, scartando la seconda, che solo nel 2000 vide la luce con il titolo MAIN STREET (anche se di fu un ulteriore tentativo di pubblicazione intorno al 1976 con il titolo WIZZO, poi a sua volta scartato, poco prima dello scioglimento dei Wizzard).

EDDY AND THE FALCONS è senza alcun dubbio l'album più commerciale e di facile ascolto dei Wizzard, lontano da BREW senza però stravolgerne il sound, ed è un'ulteriore dimostrazione del talento compositivo e interpretativo di Roy Wood, oltre che della sua incredibile versatilità, anche e soprattutto a livello vocale. Si tratta, tuttavia, anche di un album abbastanza divisivo, in quanto gli amanti della vena più eclettica e sperimentale di Wood potrebbero rimanere delusi di fronte ad un album di "canzoni vecchio stile", mentre chi, come me, quel tipo di canzoni le adora, non potrà non apprezzarne questo originale e riuscito tributo, soprattutto in quanto molti altri album analoghi dell'epoca (come ROCK 'N' ROLL di John Lennon) proponevano vere e proprie cover, riarrangiate o meno, mentre qui siamo di fronte a brani originali. Fatevi un favore e ascoltate questo album, la sua leggerezza e vivacità non può lasciarvi totalmente indifferenti. 




giovedì 17 marzo 2022

Del Shannon - The Further Adventures of Charles Westover (1968) Recensione


Del Shannon è un nome solitamente legato alla musica dei primi anni '60, periodo in cui raggiunse il successo con la leggendaria Runaway, oltre ad altri brani come Little Town Flirt e Hats Off To Larry, dove oltre alla sua potente voce da rocker metteva bene in mostra anche il suo leggendario falsetto. Affermatosi sulla scia di figure come Roy Orbison, dopo il primo periodo di successo passò attraverso una fase di crisi d'identità verso metà anni '60, periodo in cui si alternarono album di cover, tra cui brani di Orbison, tributi al country di Hank Williams, e via discorrendo, fino al fatidico giro di boa della seconda metà dei '60, il periodo in cui prese piede la psichedelia. Se Orbison decise di ignorare queste tendenze, lo stesso non fece Shannon, che già nel 1967 registrò un album intitolato HOME AND AWAY, ma a fronte di una tiepida accoglienza dei singoli pubblicati (tra cui una nuova versione di Runaway rallentata, intitolata Runaway '67), all'epoca non vide la luce; bisognerà attendere il 1978 per ascoltarlo, seppure in versione remixata con il titolo AND THE MUSIC PLAYS ON, e solo nel 2006 vedrà la luce nel suo formato originale. 
A quanto pare, però, all'epoca Shannon non si perse d'animo, e l'anno dopo ci ritentò con un altro album, intitolato THE FURTHER ADVENTURES OF CHARLES WESTOVER (il vero nome di Shannon è, appunto, Charles Weedon Westover). 

L'album in questione è una delle perle dimenticate del pop psichedelico, una delle tante di un genere oggi molto poco considerato, complice, probabilmente, anche l'immagine di Shannon più legata, appunto, ad un periodo storico precedente. Doveroso notare che, a differenza di molti artisti affermatisi nei primi anni '60, Shannon componeva gran parte delle sue canzoni, e quest'album non fa eccezione, rivelandosi una perfetta dimostrazione della versatilità di un artista che meriterebbe molto più rispetto. Nell'album non mancano tipici brani a marcetta come l'introduttiva Thinkin' It Over, con un bell'arrangiamento di fiati, o la magnifica Gemini, con intensi archi a creare un avvolgente letto strumentale su cui si regge il brano. Shannon a tratti abbandona le sue tipiche interpretazioni da rocker e abbraccia uno stile vocale più sussurrato tipico del periodo, sulla scia di Chad & Jeremy. Altrove si fanno largo ispirazioni inaspettate, come nel caso di Silver Birch, uno dei brani migliori del disco, che sembra prendere molto dai Love di FOREVER CHANGES, e si collega senza pausa alla stranamente inquietante I Think I Love You (che non è quella della Partridge Family), in cui si fanno notare un consueto, per l'epoca, sitar, ed un bellissimo ed incalzante intervento di graffianti violoncelli ritmici. Colour Flashing Hair è un altro bellissimo brano pop di natura sinfonica, mentre Magical Musical Box ci immerge totalmente in sonorità barocche, che a quanto pare non erano esclusiva dell'Europa, come invece molti critici revisionisti affermano oggi (ebbene sì, in America non c'era solo blues e country, sebbene questa narrazione faccia comodo quando si vuole elevare la musica europea). Non mancano poi brani più canonici come Runnin' On Back e Conquer, mentre le tinte r'n'b di Been So Long con il suo ritornello discendente in minore sembrano anticipare certe cose dei Procol Harum anni '70. 

L'album, ovviamente, fu un flop commerciale, a riprova del fatto che confondere il genere pop con il concetto di musica commerciale è una castroneria partorita dalla mente di qualche snob, e la carriera di Shannon intraprese una inarrestabile parabola discendente. Questa fase fu interrotta solamente dalle collaborazioni dapprima con Tom Petty nel 1981, da cui ne uscì l'album DROP DOWN AND GET ME, e poi con Jeff Lynne a fine anni '80, poco prima della sua morte nel 1990, anno in cui uscì, postumo, il frutto della loro collaborazione, l'album ROCK ON!. 
THE FURTHER ADVENTURES OF CHARLES WESTOVER, insieme al precedente, e, come visto, ai tempi inedito, HOME AND AWAY, rappresenta un riuscitissimo tentativo da parte di Shannon di accodarsi alle tendenze dell'epoca senza risultare fuori posto, ma anzi partorendo un lavoro che ben poco ha da invidiare ad altri illustri esempi del genere, e di conseguenza meriterebbe di essere (ri)scoperto da qualunque appassionato di musica.