sabato 24 febbraio 2018

Queen - Live at the Rainbow '74 (recensione)


Ricordo benissimo l'uscita di questo album, in occasione del quarantesimo anniversario nel 2014. Lo ricordo perchè i Queen non sono mai stati generosi in termini di pubblicazioni d'archivio significative, quindi l'annuncio di questo live si rivelò davvero molto interessante, oltre che un piccolo faro di speranza. Perchè speranza? Beh, perchè era un'uscita per il quarantesimo anniversario, come anticipato, e l'anno dopo fu seguito dal live all'Hammersmith Odeon del 1975, altro quarantennale; lì la gente iniziò a captare segnali ovvi sulle possibili pubblicazioni future. Ci fu un errore: ci dimenticammo che è con i Queen che abbiamo a che fare, e quindi tutte le speranze nei confronti di Hyde Park '76, Earls Court e Houston '77 si sono dissolte sostituite da On Air e il cofanettone di News Of The World, su cui mi sono già espresso poco tempo fa. E se A Night At The Odeon fu un lavoro appena discreto, in Live At The Rainbow '74 fu fatto un lavoro che rasenta la perfezione. E ricordo bene l'hype, come ricordo di aver assistito ad una diretta online dove vennero trasmessi in anteprima i primi 30 minuti del DVD, con link privato per chi "ritwittava" la notizia della pubblicazione.
Si, lo so, un po' una bastardata, ma ciò non mi ha impedito di crearmi un profilo su Twitter per l'occasione e cancellarlo poco dopo aver visto il video in questione! All'epoca uscì ovviamente nell'ormai classico formato a cofanetto sfiorante i 100 euro, con poster, biglietti e ammennicoli vari. Per fortuna in questa occasione fu possibile accaparrarsi singolarmente tutto il contenuto interessante (2 Cd e un Dvd, che il BluRay era in SD, quindi inutile) a poco più di 20 euro... Eeeehhh certe logiche di marketing mi rimangono oscure. Comunque, cosa troviamo all'interno dei Cd e Dvd? Allora, dovete sapere che la sorpresa qui fu la decisione di mettere insieme ben due concerti al Rainbow Theatre: quello classico di Novembre '74 che già usci tagliuzzato in videocassetta nel 1992 (qui però completo) e quello di Marzo '74, facente parte del tour precedente, con scaletta leggermente diversa. Il primo Cd contiene il concerto di Marzo, anch'esso bootleggato da anni ma mai completo. Che dire? Un'ottima testimonianza della band in piena ascesa, con brani presenti anche nell'altro concerto come Ogre Battle, Son And Daughter, Faher To Son, White Queen, Liar... Le cose però si fanno interessanti, per quanto mi riguarda, grazie a due canzoni. La prima è Great King Rat: pezzo suonato sicuramente molto spesso nei primi anni, ma difficilissimo da trovare in qualità decente. E che versione! Da notare che Freddie entra in ritardo dopo l'assolo a causa del cambio costume, e ci scherza anche su dopo. E credetemi, trovare un "errore" genuino in una pubblicazione ufficiale dei Queen fa gridare al miracolo!  Ma la punta di diamante è The Fairy Feller's Master Stroke: folle brano tratto da Queen II di cui nessuno sapeva nulla del fatto che fu effettivamente mai suonata live! Ed è questo che tanto manca in gran parte delle pubblicazioni dei Queen, la sorpresa! Si sa che ne hanno, ma non le pubblicano! E questo è un caso particolarmente interessante perchè neanche i fan più informati sapevano dell'esistenza, quindi potete immaginare le reazioni.
In quanto alla performance, è ovviamente diversa dall'originale, tempestata com'è di voci; però, per essere un pezzo suonato pare 2 o 3 volte al massimo, non è niente male! Nonostante i dubbi sull'uso di auto-tune in un paio di punti... Interessante anche la performance completa di Seven Seas Of Rhye, presente in entrambi i concerti, perchè finora le uniche versioni live ufficiali erano parziali, parte di medley negli anni '80. Il concerto si chiude con il classico medley Rock And Roll, Liar e una bella versione di See What A Fool I've Been, brano piuttosto raro e forse l'unico esempio di "imitazione" dello stile dei Led Zeppelin, nonostante le accuse dei mitici critici e giornalisti dell'epoca, che in quanto tali non capiscono un c... proprio come molti loro colleghi attuali. Il secondo Cd contiene invece il concerto di Novembre, quello presente anche in video. La scaletta ha vari punti in comune con l'altro, come anticipato, ma la performance sembra più "matura" e la qualità audio decisamente migliore. Ovviamente, essendo un concerto del tour di Sheer Heart Attack (l'altro era ancora di Queen II), troviamo in scaletta brani da quell'album. Fin da subito infatti abbiamo Now I'm Here, poco dopo Flick Of The Wrist (magnifico brano poco rappresentato dal vivo e quindi benvenuto); interessate il nuovissimo medley che continuerà ad evolversi ed espandersi fino agli anni '80, qui introdotto da In The Lap Of The Gods, ben poco suonata dal vivo, seguita da Killer Queen, altra novità, un frammento di The March Of The Black Queen e chiuso da un arrangiamento strumentale di Bring Back Leroy Brown. Troviamo poi anche la bellissima Stone Cold Crazy, suonata sempre a velocità incredibile, e il bel finalone di In The Lap Of The Gods...Revisited, quasi un antesignano di We Are The Champions. Ovviamente seguono i bis Rock And Roll come nell'altro Cd. Ottimi live, entrambi, interessanti nonostante le ripetizioni, giustificate da una differente interpretazione.
Ma abbiamo ancora il Dvd! E che dire? Siamo di fronte alla perfezione. La vecchia versione era un omicidio artistico fatto di tagli scellerati e sovraincisioni, e per anni ci si è dovuti accontentare. Ora finalmente quei mediocri 50 minuti sono stati ripuliti e portati a 82, offrendoci praticamente tutto il concerto in qualità impressionante per l'epoca in cui fu filmato. Prepariamoci quindi a goderci vestiti sgargianti e svolazzanti, capelli lunghi, guanti con diamanti, smalto alle unghie, e tutte quelle cose belle che caratterizzavano i Queen prima dell'epoca "baffi e giacca gialla". E come bonus possiamo goderci una decina di minuti o poco più del concerto di Marzo! Purtroppo pare non esista di più, quindi accontentiamoci comunque di fronte a tutto questo ben di Dio. Magari facendo finta di dimenticarci che "non esiste il filmato completo" è una frase usata anche per la prima serata di Wembley '86, salvo poi pubblicarla nell'ennesima versione del live nel 2011. Insomma, una bellissima testimonianza di una band all'epoca ancora relativamente "di nicchia", che dimostra anche la loro notevole capacità come band live: cosa che molti, troppi tendono a dimenticare o sottovalutare. Un'uscita che rasenta la perfezione, come purtroppo non ce ne sono più state da allora. Aspettando invano altri lavori simili, o anche solo un cofanetto di Live Killers, visto che quegli sbadatoni della Universal si sono dimenticati di rimetterlo in vendita dopo l'acquisto del catalogo dei Queen (insieme al Live At The Bowl dell'82), questo Live At The Rainbow '74, crepi l'avarizia, si prende un 9,5.

domenica 18 febbraio 2018

Album su cui ho cambiato idea. EP.1: King Crimson - The Power To Believe

Ho deciso di iniziare una nuova "serie" dove parlerò di album che negli anni mi hanno fatto ricredere a riguardo. Album che magari subito non apprezzavo oppure addirittura odiavo, ed ora adoro, ma anche l'opposto.
Inizio oggi da quello che si può considerare come l'ultimo album in studio dei King Crimson: The Power To Believe, risalente al 2003. Per chi non ha seguito la storia dei King Crimson, è importante sapere che negli anni hanno cambiato spesso formazione e suono, pur senza scontrarsi con orde di fan al grido di "cambiate nome", a differenza di altri gruppi con nomi biblici, per fortuna loro. Comprai quest'album quando avevo circa 16/17 anni, non ricordo esattamente, ma ricordo che poco prima comprai In The Court Of The Crimson King: primo mitico album che ho adorato tanto da spingermi, appunto, ad acquistarne altri a nome Re Cremisi. Siccome ero ancora in una fase della mia vita priva di internet e di qualsivoglia informazione se non sui libri, quando vidi questo "The Power To Believe" non mi feci troppi problemi ad acquistarlo.
Ora, cercate di immaginare la mia reazione quando, arrivando da un album carico di Mellotron e Sax, mi ritrovo davanti un misto tra riffoni tendenti al metal, ritmi e suoni a tratti elettronici ed una strana voce che non era certo Greg Lake! Se e questo aggiungiamo il fatto che ero ancora nella fase di rifiuto verso l'elettronica (sapete, quella fase "eh, la musica si suona con gli strumenti veri" che poi ho superato arrivando a capire che l'importante sono le idee ed il risultato, non i mezzi... E dire che pensavo fosse una cosa puramente adolescenziale, ma a quanto pare, leggendo in giro, non è propriamente così.) e la frittata è fatta. Ovviamente lo ascoltai molte volte, perchè forse oggi non è così comune, ma non avendo internet la musica che ascoltavo era quella che compravo, quindi spesso mi ritrovavo ad ascoltare un album a forza pur di farmelo piacere, perchè l'avevo pagato! Ma non ci fu molto da fare. Oggi ovviamente la penso quasi totalmente al contrario, considerando The Power To Believe come una sorta di sintesi dei King Crimson anni '90/2000, contenendo gran parte degli elementi di quella fase in un album ben bilanciato, vario e non troppo pesante. Insomma, non un monolite come The ConstruKction Of Light! Qui troviamo i soliti riff alla Larks' Tongues In Aspic in Level Five (che in realtà sarebbe dovuta essere Larks' 5), la canonica ballata Eyes Wide Open, il quasi metal recitato di Facts Of Life, i contrasti tra soundscapes e parti decisamente più pesanti nelle varie sezioni della title track, condite dalla spettrale voce modificata di Belew, l'inarrestabile crescendo di Dangerous Curve e la geniale Happy With What You Have To Be Happy With. Insomma c'è tanta carne al fuoco!
Ovviamente pecca un po' di originalità, soprattutto se confrontato con gli album precedenti, e abbonda di suoni moderni ed industriali; quindi se mal sopportate queste cose è difficile apprezzarlo. Però trovo che questa formazione dei King Crimson sia tra le più equilibrate: il contrasto tra le chitarre di Fripp e Belew è cosa appurata (metodico e schematico il primo, folle ed imprevedibile il secondo), ma apprezzo anche l'uso della Warr Guitar di Trey Gunn al posto del basso (cosa comunque che già faceva l'inarrivabile Tony Levin con il simile ma diverso Stick) ed il drumming molto quadrato di Pat Mastelotto, che ovviamente non vale un Bruford, ma qui il batterista dalla grande B sarebbe stato totalmente fuori posto in ogni caso. Cosa mi ha fatto cambiare idea? Ah, saperlo! Immagino che crescendo i gusti si evolvano, e come c'è chi si mette ad ascoltare indie e jazz pensando di essere alternativo, ci sarà chi ogni tanto apprezza uscire dal confortevole guscio fatto di produzione spectoriana e strumenti analogici. Non troppo spesso però eh!
All'epoca probabilmente non avrei dato la sufficienza a quest'album, ma ora si merita un bell'8.

sabato 17 febbraio 2018

Sparks - Propaganda (recensione)

Un gruppo particolare gli Sparks. Ne ho già parlato più volte, ma per chi non mi segue abitualmente, sappiate che ho un debole per il gruppo dei fratelli Mael: uno dei pochissimi in grado di raggiungere, per quanto mi riguarda, la varietà, le stranezze e la genialità di alcune cose dei Queen. Lungi dal confrontare i due gruppi ovviamente! Di certo però entrambi hanno caratteristiche praticamente assenti altrove.

Ma parliamo di questo Propaganda.
Dopo il primo successo del precedente, ed ottimo, Kimono My House (di cui magari parlerò un'altra volta), gli Sparks si ritrovano alla solita, classica, corsa per ripetere il successo. Cosa che, nonostante gli ottimi risultati di questo album, non capiterà. E tra l'altro, fatto molto curioso, gli Sparks dovranno aspettare fino al 2017 con Hippopotamus per poter vantare un successo paragonabile a Kimono e Propaganda. Ho sempre visto questi due album quasi come due metà di un doppio album; complici forse anche le loro "similitudini" stilistiche accentuate dal contrasto con i due album precedenti e il successivo, magnifico ma decisamente più eclettico, Indiscreet. Forse tra i due Propaganda è quello più "folle", frenetico, quasi a riflettere l'affanno nell'inseguire il successo raggiunto con This Town.... da Kimono My House.
L'album inizia con la title track: pochi secondi a cappella quasi a riecheggiare la fine dell'album precedente e poi via con At Home, At Work, At Play. Un impatto devastante che già mette in chiaro il tono dell'album: dove canzoni si pop, ma alquanto complesse, permettono lo sfoggio di frenetiche ed incredibili acrobazie vocali di Russel Mael sui geniali testi del fratello Ron. Ed in questo brano in particolare si guarda, come in altri casi, ai rapporti umani da un punto di vista diverso. Qui in particolare il difficile rapporto con una donna in carriera sempre impegnata; non scendo nel dettaglio dei testi, che andrebbero assolutamente ascoltati, letti, e non certo tradotti, perchè perderebbero tutto il loro senso. Vi lascio un bel link con i testi di tutti i brani dell'album. In ogni caso, questo primo (secondo?) brano riesce a non far notare la notevole complessità che lo compone, ed è una gran cosa in un mondo in cui non si fa altro che far sfoggio della propria tecnica (o pseudo conoscenza di essa) complicando cose semplici. Qui è l'esatto opposto. Chapeau. Segue Reinforcements, altro gran bel pezzo che fa del contrasto tra la tematica della guerra e la leggerezza della musica il suo punto di forza. Bellissimo il coro finale.
B.C. è semplicemente un capolavoro. Una filastrocca che aumenta man mano di velocità, si ferma, riparte, e fa quasi mancare il fiato anche a chi ascolta. Davvero non ci sono parole qui: da ascoltare!
Thanks But No Thanks è un brano che ho sempre un po' snobbato, ma che sono riuscito poi ad apprezzare più recentemente. Complice anche il bel testo dal punto di vista di un bambino che ha ricevuto ordini "dall'alto" sul non dar confidenza alla gente e, in sostanza, a non divertirsi (dal suo punto di vista). Bellissimo il passaggio "My parents say the world is cruel, I think that they prefer it cruel". Don't Leave Me Alone With Her è un altro capolavoro. Sfido chiunque a cantare in modo credibile brani come questo. Altro testo letteralmente geniale: "A Hitler wearing heels ,a soft Simon Legree, a Hun with honey skin, De Sade who makes good tea, don't leave me here to be"... Never Turn Your Back On Mother Heart è una delle poche "ballate" della loro discografia, ed è certamente la benvenuta in un album così frenetico! La cosa interessante è come molti si siano fatti trarre in inganno dal titolo, definendo questa una canzone a difesa della Terra. In realtà non è propriamente così... Anzi! Sarebbe troppo semplice altrimenti, vista l'intelligente ironia dei fratelli Mael. Magnifico pezzo, tra i migliori dell'album. Something For The Girl With Everything ci riporta altra frenesia e forse la performance vocale più complessa dell'album. Bello anche il testo sulla corsa per accontentare una ragazza che ha tutto, nella speranza che non se ne vada. Achoo invece, nonostante il titolo buffo, è paradossalmente un testo piuttosto serio che parla della facilità di trasmissione di qualunque cosa tramite l'aria e, in particolare, gli starnuti. Come al solito, geniale.
Who Don't Like Kids è forse un gradino sotto alle precedenti, ma non per questo si tratta di una brutta canzone, anzi! Trovo solo che, seppur molto allegra e godibile, sia un po' meno riuscita delle altre a livello melodico. Mentre la conclusiva Bon Voyage, nonostante si trascini un po' troppo sul finale, è cosparsa di cambi e trovate che riescono sempre a stupire nell'arrangiamento. L'album si chiuderebbe qui, ma la versione in cd ci regala anche due lati b di singoli: Alabamy Right e Marry Me. Brevi pezzi molto carini ed in linea con le atmosfere dell'album, seppur non raggiungendone la qualità per ovvi motivi. Diciamo che non fanno male vista anche la brevità dell'album originale!

Dunque, per chi non conosce gli Sparks ed è interessato, consiglio vivamente di iniziare dalla coppia vincente di Kimono My House e questo Propaganda. Questo album è un vortice travolgente di ottime canzoni ben più complesse di quanto possa sembrare ad un primo ascolto, testi di una qualità e un umorismo intelligente che è molto difficile trovare nel pop, un'originalità altrettanto unica nell'ambiente e la capacità di rimanere facilmente ascoltabili ed apprezzabili fin da subito. Un album che ha lentamente scalato la mia classifica personale di album degli Sparks arrivando al primo posto. Esagero, sono di parte, ma non me ne frega niente, nessuno parla mai abbastanza degli Sparks: un 9,5 come voto.

mercoledì 14 febbraio 2018

Robert Wyatt - The End Of An Ear (recensione)

Mmmmmm..... boh? Si può recensire questo album? Esistono parole per definire quello che succede in questi 47 minuti? Oppure siamo di fronte a puro dadaismo che andrebbe affrontato con approccio simile? Nel dubbio, farò 2 "recensioni": la prima in linea con l'album, e la seconda più "normale".

Recensione 1: un po' di tempo di robe. Cacofonie. Lalalalalala tum da tum tsss. Mah. 10/10

Recensione 2:
Allora, il signor Wyatt si ritrovava in una situazione piuttosto limitante all'interno dei Soft Machine, che creativamente parlando aveva praticamente congedato con l'indescrivibile Moon In June nell'album Third. In The End Of An Ear Wyatt vuole estremizzare la sua idea di musica, in totale contrasto con il troppo ordine diffusosi ormai nella sua vecchia band. Quindi, quello che si ha qui è un lungo esperimento sonoro a cavallo tra il free jazz e la pura sperimentazione, con tanto di nastri a varie velocità e sovraincisioni tra il casuale, il folle ed il geniale. Fin dal titolo, con l'evidente doppia interpretazione "ear - era", quindi anche la fine di un'era, e non solo una strana affermazione sull' orecchio - ascolto. Nell'album troviamo Wyatt accreditato a batteria, bocca, piano e organo, Neville Whitehead al basso, Mark Charig e Elton Dean ai fiati, Mark Ellidge al piano, Cyril Ayers a varie percussioni e David Sinclair all'organo. Molti nomi noti tra Canterbury ed il progressive in generale (Charig lo troviamo anche in vari lavori dei King Crimson, come in Islands), così come molte sono le dediche da parte di Wyatt a vecchi amici, tutte nei titoli delle canzoni, da Daevid Allen e Gilly Smith dei Gong ai Caravan...
L'album è, per forza di cose, dominato dalla sua interpretazione (o distruzione) di Las Vegas Tango di Gil Evans. Brano praticamente irriconoscibile qui, e pretesto per l'uso quasi folle della voce tramite nastri a varie velocità. Un ottimo inizio che viene "ripreso" a fine album (tra virgolette perchè, seppur condividendone le radici, si tratta di qualcosa di ancora diverso). Personalmente preferisco la versione in apertura dell'album, un po' più a fuoco della seconda che forse si trascina per un po' troppo tempo. O forse una volta arrivati a fine album si tende ad essere leggermente esausti in ogni caso, chissà... Il resto del primo lato (da To Mark Everywhere a To Nick Everyone per intenderci) è sostanzialmente una lunga jam (seppur suddivisa in parti diverse) guidata dalla batteria di Wyatt, usata spesso anche come strumento solista invece di tenere semplicemente il tempo, decorata da interventi di piano, e dominata da nervosi frasi di fiati improvvisate che dialogano tra loro in un continuo ed infinito botta e risposta che è si casuale, ma forse proprio per questo ha un che di interessante e coinvolgente. Di umano, ecco. Il secondo lato sembra forse un po' più "organizzato" del primo. Troviamo infatti un ritmo ipnotico e stabile a guidare For Caravan And Brother Jim, per poi lasciare all'organo e al piano tutto lo spazio tra accordi jazz e sprazzi free però, appunto, decisamente più "ascoltabili" di ciò che c'è stato finora a mio parere. To The Old World ci riporta alla sperimentazione sonora più pura, mentre To Carla, Marsha And Caroline inizia con una bella parte di piano e pare essere un pezzo con radici comuni a Instant Pussy, brano già suonato da Wyatt con i Soft Machine e poi portato nei Matching Mole. Ovviamente dopo poco l'anarchia ritorna, e ci guida alla ripresa di Las Vegas Tango già citata sopra, dove il ritmo è dettato dalla voce di Wyatt invece che dalla batteria, ed i suoi vocalizzi ci portano di nuovo in territori credo indescrivibili a parole.
Siamo di fronte all'album potenzialmente più ostico di Robert Wyatt, spesso visto come un esperimento giovanile fine a sé stesso, e forse alla fine questo è. Però, e ve lo dice uno che fatica molto ad ascoltare il jazz, figuriamoci le sue derive free, ci ho trovato qualcosa ascoltandolo. Non so bene dire cosa, se l'atmosfera, il concetto stesso di natura quasi dadaista in quanto rifiuto e reazione nei confronti della musica con un qualsivoglia schema. Quello che posso dire è che ne consiglio l'ascolto, anche se potenzialmente traumatico, e che come voto, essendo questa una recensione più "seria" della precedente, gli darei in 7,5.
Meglio iniziare da Rock Bottom insomma... Ma da qui passateci eh!

sabato 3 febbraio 2018

Van Der Graaf Generator - Godbluff (recensione)

Il primo album di una delle prime vere e proprie reunion della storia. Quando ancora le eventuali reunion erano giustificate da qualcosa di effettivamente nuovo. E se da una parte i membri dei VDGG erano comunque spesso presenti nei lavori solisti di Peter Hammill, qui si ritorna ad un lavoro veramente di gruppo, anche se con risultati un po' diversi dal precedente Pawn Hearts, di ormai 4 anni prima. Godbluff si presenta come un album più diretto fin dalla copertina: sfondo nero, magnifico logo ispirato ai quadri di Escher a opera di John Pasche e titolo marchiato in rosso. Il contrasto tra le copertine precedenti e quella di Godbluff è di poco inferiore a quello tra un Sgt. Pepper e un White Album, ma diciamo che rende l'idea.
Ed il contenuto dell'album è, sotto certi punti di vista, in linea con questa copertina; essendo in sostanza molto più diretto e compatto se confrontato con i lavori precedenti. 4 brani, tutti intorno ai 10 minuti: il che potrebbe sembrare in contrasto con il termine "compatto", ma invece non fa altro che dimostrare che i minuti sono solo numeri, è ciò di cui è fatto un brano che lo rende compatto o ridondante. Certo, dopo il precedente Nadir's Big Chance di Hammill solista ma con praticamente l'intera formazione dei VDGG a suonare, fa strano pensare di nuovo a brani lunghi... Insomma, visti i cambiamenti imminenti in termini di correnti musicali, sembra quasi un passo indietro. Invece a mio parere, nonostante la lunghezza, quest'album riesce ad avere comunque un'urgenza e una "carica" che non è troppo lontana dal punk, seppur qui caratterizzata dal saper suonare più di 3 accordi in 4/4. The Undercover Man apre l'album con un bel flauto con delay che introduce l'entrata di tutti, quasi in punta di piedi. Hammill entra sussurrando ed accompagna il brano ad una parte più positiva. E qui tra riprese, nuove parti, riff strumentali a supportare assoli di sax, ci troviamo di fronte ad un brano piuttosto melodico per i loro standard, seppur si tratti di melodie non convenzionali.
Forse un po' il "brano manifesto" di questi nuovi VDGG: più scheletrici, meno psichedelici, più "dritti al punto". Un brano che di nuovo ci porta all'esplorazione della psiche umana, della pazzia: temi piuttosto tipici per Hammill, ma qui resi in modo estremamente efficace. Senza una vera e propria pausa ci troviamo in Scorched Earth, brano che parla di guerra, tema che, seppur in modo diverso, troviamo anche nella successiva Arrow. Scorched Earth è un brano decisamente più aggressivo del precedente, in linea con le sue tematiche; è caratterizzato da un ritmo che sembra diventare sempre più incalzante man mano che si va avanti. Davvero bellissimo l'intermezzo strumentale ed il lungo finale carico e potente come poche altre cose partorite dai VDGG. Qualche minuto di improvvisazione quasi tendente al free-jazz introducono Arrow. Ammetto che questa introduzione non mi ha mai fatto troppo impazzire, ma diciamo che fa il suo dovere nell'introdurre un brano forse un po' sottovalutato. Si, perchè forse complice una parte vocale letteralmente folle, è un pezzo che è stato suonato poco dal vivo purtroppo; ma questo non significa che sia meno valido degli altri, anzi! A livello di struttura è sicuramente più lineare, ma la già citata incredibile performance vocale di un Hammill di nuovo alle prese con temi bellici è qualcosa di indescrivibile. Il modo in cui letteralmente urla "how strange my body feels impaled upon the arrow" è da pelle d'oca ogni volta.
The Sleepwalkers chiude l'album in modo esemplare. Uno dei brani più "famosi" dei VDGG e a mio parere uno dei meglio concepiti e costruiti. Innumerevoli i cambi di tempo e gli stacchi presenti qui, e in qualche modo tutto sembra comunque naturale, non forzato. Si concedono anche un brevissimo "divertissement" strumentale dopo circa tre minuti: geniale. Dopo circa metà entra una parte più lineare in 4/4 che ci porta, in crescendo, alla ripresa del tema iniziale. Ed il tutto si conclude senza speranze dopo l'orda di questi "sleepwalkers": "If I only had time, but soon my time is ended". Il tutto in un curioso contrasto con The Undercover Man che si concludeva con "you still have time".
Insomma, forse l'album più compiuto dei VDGG, dove tutte le parti si incastrano perfettamente. Ammetto che di questo secondo corso personalmente preferisco Still Life, che trovo un po' più arioso e meno claustrofobico; credo però che questo sia forse l'album perfetto per introdurre qualcuno ai VDGG. Certo, Pawn Hearts è forse il capolavoro assoluto sotto molti aspetti, ma per un nuovo ascoltatore credo che possa anche arrivare dopo Godbluff.
Tra l'altro nelle session di lavorazione a Godbluff furono scritte anche Pilgrims e La Rossa: interessante notare come effettivamente sarebbero state fuori posto qui a mio parere, e quanto invece siano appropriate nel successivo Still Life.
In definitiva, un ottimo album senza alcun dubbio anche se non il mio preferito in assoluto della loro discografia.
Un 8,5 come voto.
Qui sotto trovate l'intero album affiancato ad una versione live con video filmato in Belgio nel 1975.

venerdì 2 febbraio 2018

Steve Hackett - When The Heart Rules The Mind (re-recorded 2018)

Ooohh ecco, bravo Steve! Finalmente la mossa giusta per far andare in confusione tutti quelli che: "Steve Hackett è l'unico che ha mantenuto lo spirito dei Genesis quelli veri, altro che Invisible Touch della Phil Collins Band" (guarda caso affermazione che gira da quando Hackett va in giro con i vari tour di Genesis Revisited). E cosa fa Steve? Ri-registra un pezzo dei GTR: un brano in pieno stile pop anni '80, che di certo però suona molto più "Genesis" di Invisible Touch e Abacab, vero? (Sarcasmo).
Scherzi a parte, se da un lato mi piace vedere che Hackett non rinnega questa parte del suo passato, dall'altra sinceramente non capisco il senso di questa nuova versione. Non aggiunge nulla all'originale, elimina una parte interessante suonata nell'originale da Howe, coinvolge Steve Rothery senza praticamente farlo sentire, e Hackett stesso si occupa della voce con risultati, seppur apprezzabili, lontanissimi e molto più di maniera rispetto all'originale con Max Bacon.
Ma dopotutto viviamo in tempi di revival, accontentiamoci... Certo magari l'album originale dei GTR rimasterizzato sarebbe stato meglio, ma vabbeh...
Allego anche l'originale per un confronto diretto e per dar ulteriore prova agli scettici del fatto che anche Hackett ha vissuto gli anni '80, come tutti. E poi dai, a me il pezzo piace.