sabato 30 gennaio 2021

Steven Wilson - The Future Bites (2021) Recensione

Finalmente, dopo ritardi su ritardi, quasi quattro anni dopo To The Bone, ecco il sesto album solista di Steven Wilson. Da qualche anno ormai seguo le sue uscite, dopo aver iniziato ad apprezzare la sua musica grazie al brano Drive Home, che forse meglio di ogni altro brano rappresenta ciò che amo del suo stile, dalle melodie alle sequenze di accordi. Ormai quasi un anno fa arrivò il primo singolo, Personal Shopper, introducendo sia il "nuovo" stile che una grossa fetta delle tematiche di questo nuovo lavoro. Il pezzo in questione, con il suo ritmo disco ed il pesante uso di sintetizzatori, sequencer e cori, fece discutere, ma seppur forse fin troppo lungo, ci sono parti che funzionano e che ho apprezzato. Fast forward un anno dopo, con cinque singoli a precedere il tutto (di fatto lasciando praticamente un quarto d'ora di musica inedita all'uscita), e finalmente ci troviamo il prodotto finito tra le mani, e che dire?

Iniziamo con i lati positivi: i singoli brani funzionano decisamente meglio se ascoltati nel loro contesto che se isolati ed estrapolati. Da un lato c'era da aspettarselo, dall'altro fa riflettere sull'effettiva qualità di quei brani. 12 Things I Forgot è un gran bel pezzo, indubbiamente il migliore dell'album e tra i migliori di Wilson in tempi recenti, sia come testo che come musica, con anche un bel potenziale commerciale che non so quanto verrà sfruttato. La produzione è tra il buono e l'ottimo, dipende dai gusti dell'ascoltatore. E... basta, ora iniziano i problemi. 

Partiamo dal "concept", tra virgolette perchè in realtà sono più argomenti che si incontrano. Si passa dagli acidi commenti sul consumismo (proprio sul pezzo eh, argomento nuovissimo e originale) per arrivare alla dipendenza dai social che causano narcisismo. Ed è interessante che ciò arrivi da un artista che letteralmente vive grazie alla vendita di musica su supporto fisico (dal semplice CD ai costosissimi boxset) e che, per forza di cose, basa gran parte della promozione sui social. Insomma, ammettere, come ha effettivamente fatto, di esser lui stesso parte del "problema" non porta a molto, e anzi fa sembrare Wilson un boomer che, dall'alto del suo castello simbolico costruito proprio grazie al consumismo, predica su come spendere i soldi che ognuno si guadagna. Che poi lo faccia ironicamente fa aggiustare di ben poco il tiro. E non mi si faccia neanche cominciare su quanto i testi di quest'album sembrino più degli elenchi di parole che altro. Sapete come a volte si dice: ci sono cantanti che con la voce che hanno possono anche cantare la lista della spesa? Ecco, qui le liste ci sono, manca tutto il resto (ironicamente Elton John è presente proprio a elencare cose in Personal Shopper). 

Oh beh, alla fine a me il messaggio è arrivato: io il suo nuovo album non l'ho comprato. 

Grazie del consiglio Steven. 

Il problema è che sembra di esser tornati a quando sfasciava iPod criticando gli mp3, salvo poi mettere la propria musica in streaming anni dopo. Oppure quando criticava i videogiochi in Fear Of A Blank Planet, salvo poi farne la colonna sonora quando un videogioco venne tratto dalla sua Drive Home ("non pensavo che i videogiochi potessero raccontare una storia" disse, e ciò mi fa supporre che troppo spesso critichi cose senza conoscerle, quindi come posso dar credito ai suoi testi? A sto punto era meglio che continuasse ad inventare storie come in Raven, lasciando ai telegiornali la realtà, anche se oggi mediamente i giornalisti inventano di più che gli artisti; magari bisognerebbe proporre uno scambio). 

Ma torniamo alla musica, perchè dopo quasi quattro anni ci aspettano BEN 42 MINUTI di musica. E che musica. Ho già letto recensioni contenenti termini superlativi, e lo capisco benissimo, si sa quanto la stampa musicale sia imparziale ormai (Money dei Pink Floyd suona in sottofondo), nel grande e nel piccolo, e quindi ora arriva il poveraccio guastafeste. Quello che mi ha attirato alla musica di Steven non è stato il prog strettamente, non me ne può fregar di meno di tempi dispari, di abusatissimo mellotron cori o di riff rubati ai King Crimson (sì seconda metà di Ancestral e Raider II, dico a voi), quanto piuttosto un certo gusto per melodie ed armonie presente, dove più dove meno, in tutti i suoi lavori. Drive Home, Routine, ma pure la criticata Permanating, quanto la rimpiango. Se da un lato apprezzo che si sia un po' allontanato da quel (post?) prog che ormai fa chiunque, pure Peppino il fruttivendolo, in questo album le melodie memorabili si contano sulle dita della mano di Topolino, e quelle presenti vengono ripetute innumerevoli volte fino alla nausea, su di un tappeto di ritmi elettronici tanto gratuiti quanto prevedibili. E se per scuotere un brano come Man Of The People deve arrivare una palese citazione dei Pink Floyd di Welcome To The Machine, beh, allora forse in fondo di idee non ce ne sono molte. In tanti apprezzano King Ghost, a me pare un brano che chiunque può far uscire oggi, per di più affossato da un abuso di falsetto da parte di Wilson (che decisamente non è Brian). Certo i suoni sono cristallini, la resa in generale è ottima, ma la sensazione è quella di assistere al definitivo trionfo della forma sulla sostanza, perfettamente in linea con un periodo storico in cui si dà eccessiva importanza alla produzione, ai suoni, al massimo ai testi, e molto poco alla melodia o all'armonia. E no, Count Of Unease non conta: non è un piano malinconico ed un ritmo più disteso a render migliore un'idea musicale, oltretutto riciclata, seppur possa sembrare così. 

Certo, The Future Bites è tendenzialmente più coerente e scorrevole di To The Bone (e pare che alcuni dei brani migliori siano stati relegati a bonus nelle varie edizioni e singoli, in quanto troppo simili a cose già fatte o poco coerenti con l'album), ma la varietà sia stilistica che compositiva di quest'ultimo è un lontano ricordo. Suppongo dipenda da cosa uno cerca in un album. Ovvio che se uno è il classico snob che vuole sembrare moderno ascoltando musica con elementi elettronici (talmente moderna che in ambito pop si fa da almeno 45 anni ed in ambiti più d'avanguardia da praticamente un secolo) ovviamente adorerà questo album. Per quanto mi riguarda, non credo che sentirò tanto presto il bisogno di riascoltarlo, e visto quanto mi sono piaciuti i suoi lavori precedenti, mi dispiace non poco. A parte 12 Things I Forgot, quella la riascolterò volentieri. Forse tra le 12 cose che si è dimenticato c'è anche come scrivere belle melodie nelle altre canzoni...

                                             

mercoledì 20 gennaio 2021

The Beach Boys - Holland (1973) Recensione


Dopo un album particolare come Carl and The Passions - "So Tough" ed una serie di concerti in cui la nuova formazione porta la band ad una resa live mai raggiunta prima (e dopo, il tutto è documentato nell'ottimo album In Concert), per qualche motivo, a fine 1972, si decise di registrare il nuovo album in Olanda. Lo studio casalingo di Brian Wilson venne così smantellato e trasportato, pezzo dopo pezzo, nella cittadina di Baambrugge, dove la band passò un difficile periodo lontano dalle proprie famiglie a registrare gran parte del nuovo album. Brian era più assente che mai, e seppur contribuì effettivamente ad alcuni brani (con non poche difficoltà), la sua creatività confluì in un altro progetto, a cui arriveremo dopo. 

In Holland il suo marchio è presente soprattutto nel brano di apertura, oltre che il più celebre, Sail On Sailor. Quasi un'aggiunta postuma su insistenza della Warner Bros. che lamentava l'assenza di un potenziale singolo nel nuovo album. L'idea del brano partì da Van Dyke Parks, storico collaboratore di Brian ai tempi di Smile, il quale portò a Wilson la bozza del brano che svilupparono insieme, per poi portarla al resto della band, non prima di averla fatta passare per le mani di Ray Kennedy, Tandyn Almer ed il manager Jack Rieley. Alla fine la voce venne affidata a Blondie Chaplin, in quanto Brian non si presentò alle session e diede giusto qualche indicazione al telefono. Con il suo shuffle ondeggiante è probabilmente uno dei migliori brani di quest'epoca, oltre cha la conferma del ruolo di Blondie nella band, che ormai si è definitivamente allontanata dagli anni '60. Un ruolo centrale nell'album lo ha la cosiddetta California Saga, composta da tre brani, in gran parte opera di Mike Love e Al Jardine. Curiosa la scelta di inserire un'ode alla California in un album nato in Olanda, ma probabilmente si trattò di nostalgia di casa.

Il primo dei tre brani, Big Sur è opera di Mike Love, e si tratta di una versione rielaborata di uno scarto di Sunflower del 1970, seguito da The Beaks Of Eagles, forse la parte più controversa, in cui Love recita un poema di Robinson Jeffers, ed il tutto si risolve nell'altro brano discretamente noto dell'album, California Saga: California. Saltellante ed euforico brano corale di Al Jardine, contiene anche l'unico contributo alla voce solista da parte di Brian, seppur limitato alla prima strofa. Altrove l'album si fa più intenso, sfoderando di nuovo una incredibile doppietta di canzoni scritte da Dennis Wilson: Steamboat e Only With You. Entrambe saggiamente affidate alla voce di Carl Wilson, se la seconda è l'ennesima ballata malinconica tipica dello stile di Dennis (tra l'altro stranamente con un testo scritto da Mike Love), la prima è un piccolo capolavoro. Spinta dal pigro soffiare del suono di un motore a vapore, è un meraviglioso brano con spettacolari sequenze armoniche ed un arrangiamento che lascia a bocca aperta: forse la composizione di Dennis più vicina ai livelli più alti del fratello Brian. E se Chaplin e Fataar a sto giro si aggiudicano un solo, ottimo, brano, Leaving This Town (tra il folk ed il soul, con un inaspettato assolo di sintetizzatore nel mezzo), pur componendo anche We Got Love, poi esclusa, forse la più grande sorpresa è il gran ritorno del Carl Wilson compositore, che dopo le magnifiche Long Promised Road e Feel Flows in Surf's Up due anni prima, torna con The Trader. Introdotto dall'innocente "Hi!" di suo figlio, è un brano diviso in due metà, con la prima più spinta e la seconda più pacata; quello che fa Carl con la voce qui ha dell'incredibile, non come note, ma come intensità, e ciò aggiunto agli spettacolari interventi vocali dei compagni rendono The Trader un capolavoro ingiustamente ignorato da troppe persone. In chiusura c'è la controversa Funky Pretty, altro contributo di Brian che sembra anticipare lo stile di Love You del 1977, con il suo insistente synth basso. Brano che si ama o si odia, a parere di chi scrive è degno di nota perlomeno per l'arrangiamento particolare molto avanti per i tempi e gli interventi vocali a turno da parte di Carl, Jardine, Chaplin, Love e Fataar: una chiusura un po' più leggera di un album terribilmente solido ed intenso. Una conferma di ogni buona intuizione vista nell'album precedente, che purtroppo non avrà seguito visto l'abbandono di Chaplin e Fataar, il tanto celebrato "ritorno" di Brian e l'altalenante risultato di ciò nell'album 15 Big Ones del 1976, che, escludendo il successivo Love You (che poi è più un album solista di Brian che altro), segna l'inizio della fase revival della band ed il suo definitivo declino artistico. Meglio del precedente? Forse, in quanto permane la sensazione di esser di fronte ad anime diverse della stessa band, ma il tutto è più amalgamato, ci sono vari incroci non presenti prima (tipo Carl che canta i brani di Dennis, o Blondie in Sail On Sailor), ed in generale sembra evidente l'impegno da parte dei Beach Boys nel trovare una nuova identità. Questo rende ancora più difficile accettare i passi indietro che faranno di lì a poco. 

Dicevo all'inizio che la creatività di Brian Wilson confluì non tanto in Holland quanto in un altro progetto, ed ovviamente mi riferisco a Mount Vernon and Fairway (A Fairy Tale). Se si acquistava Holland all'epoca, si poteva aver la fortuna di trovare insieme anche un EP molto particolare, con al suo interno una serie di brevi tracce composte dal solo Brian, suonate interamente da lui con vari sintetizzatori a fare da sfondo ad una strana storia scritta da lui ma narrata da Jack Rieley. Ci sono alcuni interventi vocali sia di Carl che di Brian, ma si tratta di parentesi marginali. La musica è decisamente astratta, ed in parte richiama certe cose di Smile, ma in realtà è palese frutto di una mente confusa che ha ancora voglia di sperimentare ma non ha più le capacità di direzionare le intuizioni verso qualcosa di anche solo vagamente concreto (in questo senso, la radio a transistor magica perduta dal protagonista della storia sembra quasi essere una metafora dell'ispirazione di Brian). Da molti odiato, da altri apprezzato perlomeno come curiosità, Mount Vernon è forse la migliore rappresentazione di Brian in quel momento, con tutte le sue contraddizioni e fragilità, e seppur stilisticamente non c'entri praticamente nulla con Holland, si tratta di un ascolto irrinunciabile. 

                                          

domenica 17 gennaio 2021

The Beach Boys - Carl and The Passions "So Tough" (1972) Recensione


I Beach Boys del "dopo-Smile" sono una band alla costante ricerca di sé stessi, con il loro leader de facto, Brian Wilson, che spara le sue ultime cartucce in album capolavori (sottovalutati ovviamente) come Friends e Sunflower, e dando un ultimo colpo di coda nello strano ed oscuro Surf's Up, non tanto con la ripescata title track (indiscusso capolavoro, ma risalente all'abortito Smile), quanto nella spettacolare 'Till I Die. Il suo stato psico-fisico non era comunque dei migliori, ed il costante mancato appoggio della band nei suoi confronti (soprattutto da parte di Mike Love, il quale si era opposto anche a 'Till I Die) lo porta verso altri lidi, come le American Spring, band di sua moglie che lui finisce a produrre e ad arrangiare, passando poi il resto del tempo a fare sostanzialmente nulla e lasciando ben poche idee ai compagni di band. 

Band che proprio dall'anno prima aveva cambiato management, rivolgendosi a Jack Rieley (che cantò A Day In The Life of a Tree in Surf's Up), la cui missione era rendere i Beach Boys di nuovo rilevanti, rispettabili musicalmente ed al passo con i tempi. Un po' grazie a lui, ed un po' grazie a Carl Wilson, nel 1972 arrivò la decisione di inserire due nuovi membri nella band, il cantante e chitarrista Blondie Chaplin ed il polistrumentista Rikki Fataar, entrambi dalla band sudafricana Flame. Un altro importante cambio di formazione fu la defezione di Bruce Johnston, comunque presente nelle session ma non molto convinto del cambio di direzione (alcuni dicono che ebbe alcuni problemi con il manager Riley). Caso volle che proprio in quel periodo Dennis Wilson subì un incidente che gli impedì di suonare la batteria per un bel po' di tempo, e così Fataar diventò il batterista ufficiale dei Beach Boys. In questa nuova vesta la band pubblica nel 1972 Carl and the Passions - "So Tough", titolo curioso che si riferisce ad una delle primissime band dei fratelli Wilson e Mike Love, un album che sembra raccogliere il lavoro di quattro band diverse. I contributi di Brian sono pochi, e le due canzoni in gran parte opera sua sono comunque filtrate attraverso la produzione del fratello Carl. Si tratta dell'apertura rock di You Need A Mess Of Help To Stand Alone e di Marcella, quest'ultimo forse uno dei più riusciti brani di quest'epoca, con i suoi begli intrecci vocali ed il ritmo coinvolgente. Altrove troviamo il duo Mike Love - Al Jardine che, folgorato dalla meditazione, ci regala il gospel di He Come Down e quello che forse è il più sottovalutato capolavoro dei Beach Boys anni '70, All This Is That, con bellissime armonie  che donano calore e serenità, oltre che un'interpretazione molto intensa da parte di Carl Wilson: il punto d'arrivo più alto ed irripetibile dei Beach Boys ispirati dalla meditazione trascendentale. I due nuovi arrivati si occupano invece di Here She Comes, spinto brano in cui sembra di sentire certe cose degli Eagles prima degli Eagles, e soprattutto la commovente Hold On Dear Brother, altro brano di altissimo livello, oltre che prima vera conferma delle doti canore di Blondie Chaplin. In conclusione, dopo esser stato escluso da Surf's Up, ecco Dennis Wilson che, come conseguenza dell'essersi visto cancellare il programmato primo album solista, piazza due intensissimi brani nel secondo lato del disco, che poco o nulla hanno a che fare con il resto dell'album. All'epoca infatti Dennis era nel pieno della sua "fase orchestrale", ed infatti i due brani in questione, Make It Good e Cuddle Up, vantano una ingombrante presenza dell'orchestra arrangiata da Daryl Dragon, che li rende drammatici e grandiosi, ben lontani dal rock-folk che il resto dell'album sembrava inseguire. Se Make It Good raggiunge un peso quasi insostenibile nel suo melodrammatico ed inarrestabile crescendo, Cuddle Up è forse più riuscita, grazie anche ai contributi dei compagni di band nei cori, ed è una perfetta e commovente chiusura di uno strano album.

Un album che mostra una band frammentata, alla ricerca di uno stile non ancora chiaro forse, ma certamente diverso dai Beach Boys di Pet Sounds (tra l'altro, curiosamente, all'epoca Carl and The Passions era venduto in formato doppio disco proprio insieme a quest'ultimo album), lontana dalle idee di Brian Wilson, certamente ispirata da esse, ma radicata nell'essenzialità degli anni '70. Come vedremo, nel successivo Holland i pezzi del puzzle si incastreranno in modo un po' più omogeneo, ma Carl and the Passions non merita di essere snobbato, ed anzi mostra una band che tenta per l'ultima volta di rinnovarsi, riuscendoci anche in parte, prima del definitivo passo indietro stilistico dell'operazione "Brian is back" dal 1976 in poi (nonostante Love You del '77 meriti un discorso a parte). Se vi piacciono i Beach Boys ascoltatelo assolutamente, e se non vi piacciono fatelo lo stesso, in quanto questi non sono di certo i Beach Boys che conoscete.