domenica 2 dicembre 2018

Dixie Dregs - What If (1978) Recensione

Premetto che, dopo una fase di forte interesse per musica più complessa a livello tecnico, all'incirca nella tarda adolescenza, ho pian piano virato verso territori più pop, psichedelici e via dicendo. Non rinnego la mia passione per certe classiche band di progressive, anzi, ma non sento il bisogno di indagare oltre in quella direzione. A questo c'è da aggiungere la mia repulsione per tutto ciò che "sfora" troppo in territori jazz e/o fusion, con la felice eccezione di Lizard dei King Crimson e poco altro. C'è però un'eccezione, e questa eccezione si chiamano Dixie Dregs. Il nome non mi è nuovo, conoscendo piuttosto bene il chitarrista Steve Morse grazie alla sua permanenza ormai più che ventennale nei Deep Purple, oltre alla sua presenza in due buoni album dei Kansas, ma ammetto di non aver mai approfondito. Questo fino alla scorsa settimana, quando per qualche motivo questo What If ha attirato la mia attenzione in un negozio di musica. Ma perchè questi Dixie Dregs, definiti jazz fusion da Wikipedia, dovrebbero interessarmi, vista la premessa? Bella domanda a cui probabilmente non saprei rispondere del tutto, visto che spesso chi si reputa in grado di giustificare e definire al 100% i propri gusti molto probabilmente ci riesce perchè se li auto-impone, alla luce di un'immagine di sé stesso che vuole proiettare a lui e agli altri (tipo i prog snob). Quello che posso dire è che qui la musica è indubbiamente intricata, complessa, interamente strumentale, ma dannatamente godibile e divertente da ascoltare.
Definirli jazz fusion è veramente troppo riduttivo, pur essendo comunque presente quell'elemento nell'approccio. In realtà i generi presenti in questo album sono molteplici: dai toni più rock di Take It Off The Top, al quasi-prog di Odyssey, al funk di Ice Cakes (notevole per dei cambi di tempo mozzafiato), al country di Gina Lola Breakdown...
Ogni brano qui ha una identità ben chiara e si distingue dagli altri, donando all'album una natura particolarmente varia. Quasi tutti i brani sono opera di Morse, ma ogni musicista qui brilla letteralmente, con largo spazio anche a tastiere e violino (ma farei meglio a dire archi, visto che Allen Sloan si occupa anche di viola, violoncello...) sia con assoli che con parti d'insieme spesso di una complessità notevole ma MAI pesanti all'ascolto. Ecco forse il punto sta proprio qui: i Dixie Dregs si divertono, e si sente. Non c'è la freddezza tipica del jazz e della fusion, non ci sono brani la cui unica funzione è fare da base per un lungo assolo. In vari passaggi sembra quasi sentirsi un gusto melodico non lontano dai Kansas, ovviamente senza alcuna parte vocale, che immagino essere frutto di ispirazioni comuni essendo entrambe le band americane. Un brano come la conclusiva Night Meets Light è degno di essere insegnato ad aspiranti musicisti (ed infatti a quanto pare in America già si fa), in quanto la sua complessità armonica ed il suo andamento caratterizzato da molteplici parti sincopate e "sfasate" fra loro paradossalmente non risulta affatto ostico all'ascolto, ma anzi è di una bellezza pura e limpida. Poi la quasi barocca Little Kids e la title track spezzano i ritmi serrati del resto dell'album, e la coinvolgente Gina Lola Breakdown fa addirittura venir voglia di ballare, cosa inimmaginabile e quasi indicibile in altri album sia prog che fusion. Per i proggettari più incalliti ci sono Odyssey e Travel Tunes, con una quantità incredibile di cambi ed idee condensati in 7 minuti e mezzo della prima e 4 e mezzo della seconda. Insomma un album che, nonostante la sua natura strumentale che lo può rendere ostico, si rivela essere un ascolto molto interessante e godibile al di là dei gusti strettamente legati a questo o a quel genere. Peccato solo per la copertina, che non rappresenta affatto il multiforme contenuto del disco.
Consigliatissimo a chiunque. Come voto si merita un generoso 9.

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