lunedì 27 dicembre 2021

Top 10 Album 2021


Dopo un anno di pausa per via della palese carenza di uscite discografiche interessanti, almeno per chi scrive, riecco a grande richiesta (?) la Top 10 degli album che più ho apprezzato in questo 2021.
In coda all'articolo, per i più curiosi, troverete una playlist con un brano estratto da ognuno degli album in lista.

10 - Roger Taylor - Outsider



Ho sempre avuto un debole per la carriera solista di Roger Taylor che, seppur alquanto altalenante, ci ha perlomeno regalato un indiscutibile capolavoro in Happiness?, nell'ormai lontano 1994. Dopo Fun On Earth, che non mi ha mai detto molto, Outsider sembra essere un bel passo avanti, un ritorno all'ispirazione degli anni '90, seppure tra reprise, riarrangiamenti ed un, seppur ottimo, brano già noto in chiusura (Journey's End), ci sia effettivamente poco materiale veramente inedito. Tides, Absolutely Anything e la versione acustica del classico Foreign Sand, però, da sole valgono il prezzo dell'album.


9 - The Darkness - Motorheart


Ne ho parlato qui. Nonostante personalmente lo ritenga un piccolo passo indietro rispetto ai precedenti album, Motorheart sa divertire come ogni album dei Darkness, grazie al loro ormai noto senso dell'umorismo unito al consueto, sano e solido hard rock vecchio stile. La title track, Welcome Tae Glasgae, Jussy's Girl e Sticky Situations sono solo alcuni dei brani che spiccano.




8 - Deep Purple - Turning To Crime


Ad appena un anno di distanza dal loro ultimo, ottimo album, i Deep Purple, complice il forzato stop ai tour, pubblicano il loro primo disco interamente composto da cover. Nulla di miracoloso, ovviamente, ma l'entusiasmo contagioso con cui la band affronta alcuni di questi brani rende l'album un ascolto assolutamente consigliato. 7 And 7 Is, Oh Well, Jenny Take a Ride!, White Room ed il medley finale Caught In The Act sono i vertici indiscussi. 



7 - Brian Wilson - At My Piano/Long Promised Road



Un caso particolare questo, in cui ho voluto includere due album in una singola posizione, sia perchè entrambi opera di Brian Wilson, sia perchè usciti ad una settimana di distanza l'uno dall'altro. Long Promised Road è la colonna sonora dell'omonimo documentario, e contiene un paio di nuovi brani, qualche prova in studio dal vivo ed una manciata di tracce risalenti alle leggendarie session con Andy Paley nel 1994/95. Un album un po' caotico ma con qualche perla come la nuova Right Where I Belong e It's Not Easy Being Me, risalente gli anni '90.
At My Piano è invece un album di riarrangiamenti per solo pianoforte di una selezione di classici della carriera di Brian Wilson e dei Beach Boys, suonati da lui stesso con varie sovraincisioni per riprodurre i complessi arrangiamenti. Si tratta di un lavoro di fondamentale importanza, un raro caso in cui uno dei più importanti compositori del secolo scorso sveste i suoi brani e li rende più "comprensibili" a chi vuole studiarli o anche solo goderseli sotto una nuova luce. Solamente i Piano Rolls di Gershwin possono essere paragonati a questo album in quanto ad importanza storica.




6 - Robert Plant & Alison Krauss - Raise The Roof


Seguito del pluricelebrato Raising Sand dell'ormai lontano 2007, il duo Plant/Krauss torna con il difficile compito di bissare il successo dell'esordio. Tenendo conto del tiepido entusiasmo con cui ho accolto Raising Sand ai tempi, posso tranquillamente affermare che Raise The Roof, nonostante sicuramente non avrà gli stessi riconoscimenti del predecessore, ne esce a testa alta. Gli ingredienti sono gli stessi, ma la produzione (o meglio, il mastering) rende l'ascolto più piacevole, e le interpretazioni vocali del duo, specie di Plant, paiono più convinte, più azzeccate. Un piacevole e confortevole album consigliato a chiunque apprezzi certa musica di stampo americano, tra country, blues e folk. 


5 - Joseph Williams - Denizen Tenant


Ne ho parlato qui. Uscito lo stesso giorno di I Found The Sun Again di Steve Lukather, suo compagno di band nei Toto, Denizen Tenant è probabilmente il miglior album della discontinua discografia di Joseph Williams. Tolte un paio di ridondanti cover, le canzoni sono meravigliosamente composte ed arrangiate, con quel tocco di modernità non invasiva e la ritrovata voce di Williams a stagliarsi su di esse. Probabilmente selezionando un manciata di canzoni di questo album ed un'altra manciata da quello di Lukather (che non è presente in lista per poco) si sarebbe avuto un ottimo album dei Toto, ma non si può avere tutto. Liberty Man, Black Dahlia, The Dream, No Lessons e World Broken hanno poco o nulla da invidiare ai migliori brani di Toto XIV. 


4 - ABBA - Voyage


Il tanto atteso ritorno degli ABBA è una delle sorprese più inaspettate dell'anno. Già solo il nome ABBA in copertina avrebbe reso l'album degno di interesse per i fan, se a questo però ci aggiungiamo il fatto che l'album è effettivamente ottimo, cosa tutt'altro che scontata dopo 40 anni di pausa, non si può che applaudire. Tra vecchi brani ultimati ora e nuove composizioni, Voyage scorre che è un piacere, non facendo notare troppo distacco stilistico dai vecchi album, specialmente quelli della seconda metà degli anni '70 (prima della svolta più disco-elettronica di fine '70, inizio '80). Un perfetto esempio di come ancora oggi si possa fare dell'ottima musica pop.


3 - The Pillbugs - Marigold Something


Probabilmente la band meno nota in questa classifica, ma una delle più interessanti tra quelle nate dal revival psichedelico anni '90. Dopo lo scioglimento di ormai quasi 15 anni fa per via della morte del loro bassista, quest'anno ecco uscire un lungo album doppio, il terzo in questo formato nella loro discografia. Il loro consueto stile tra Beatles, Klaatu e Jellyfish è rimasto in ottimi brani come Holding Back and Up, Dangerman, This Is A Wrap, la lunga Trip into Darkness, Water Safe to Drink, mentre Miracles Come (Once In a While) sembra prendere anche dai primissimi Queen. Forse non un album imprescindibile del genere (le vette della cosiddetta neo-psichedelia ritengo che arrivino praticamente tutte dal collettivo Elephant 6), ma una gran bella sorpresa di questi tempi. 


2 - The Beach Boys - Feel Flows: The Sunflower & Surf's Up Sessions 1969–1971


Ne ho parlato qui. Un gran bel cofanetto di cinque dischi che copre il periodo tra il 1969 ed il 1971 dei Beach Boys, inclusi gli album Sunflower e Surf's Up rimasterizzati, ma il fulcro è nell'enorme quantità di brani "di contorno": tra outtake alternative, canzoni scartate, idee abbozzate, tracce vocali e strumentali isolate, la quantità e qualità della musica qui inclusa è incredibile. La rivelazione sono senza dubbio i brani di Dennis Wilson, che proprio in quel periodo, nonostante il poco spazio concessogli nei dischi della band, si stava formando come compositore. Un cofanetto secondo solo alle leggendarie Smile Sessions in quanto a qualità ed importanza. 


1 - Micky Dolenz - Dolenz Sings Nesmith


Ne ho parlato qui. Al primo posto con anche un discreto distacco c'è di diritto l'album in cui Micky Dolenz reinterpreta una selezione di brani composti da Michael Nesmith, sia nel periodo dei Monkees che successivamente. I recenti tristi eventi hanno involontariamente trasformato questo album in un tributo a Nesmith e alla sua arte, ma anche senza la recente componente emozionale è difficile rimanere indifferenti di fronte ad un album del genere. Le canzoni sono ottime, Dolenz canta ancora come un ragazzino e gli arrangiamenti e la produzione di Christian Nesmith, figlio di Michael, sono come un faro di speranza in mezzo alla freddezza e piattezza del 99% delle uscite moderne, evitando anche di usare l'autotune. Basterebbero da sole la versione raga di Circle Sky o la complessa versione di Tapioca Tundra a reggere l'intero album, ma in realtà c'è tanto, tanto altro. Un album magnifico. 

giovedì 16 dicembre 2021

The Beatles - Get Back (2021) Recensione


Dopo un anno di ritardi per motivi che ben sappiamo, ed un cambiamento di forma da semplice film a mini-serie di tre puntate, eccoci finalmente a parlare di Get Back. Fin dall'uscita di Let It Be nel 1970, film che documentava le session in studio dei Beatles di Gennaio 1969 fino al leggendario concerto sul tetto, questo periodo della loro carriera fu sempre visto come l'inizio della fine, dove le tensioni interne iniziarono a logorare i rapporti tra i quattro in modo irreversibile; e se da un lato ciò è innegabile, dall'altro Get Back mostra anche molti bei momenti, alcuni addirittura leggendari, che rendono questa mini-serie un imprescindibile documento storico.

Ma andiamo con ordine. Le It Be, il film originale, è ormai da tempo fuori catalogo, pressoché impossibile da trovare, ma essenziale per capire l'importanza di questo nuovo Get Back, quindi non posso non consigliarvi di armarvi di pazienza, esplorare vie non proprio legali e procurarvelo. Detto ciò, Let It Be condensa tre settimane di prove ed il concerto sul tetto in un'ora e venti di film, senza alcun riferimento temporale per quanto riguarda gli avvenimenti su schermo (spesso, infatti, non propriamente in ordine cronologico), con un audio ed un video tutt'altro che eccelsi e, nonostante ometta alcuni "problemi" come l'abbandono temporaneo di George Harrison e i problemi e dubbi sull'organizzazione del concerto sul tetto, il risultato è comunque piuttosto piatto e deprimente. 

Get Back invece suddivide il tutto in giorni, come una sorta di diario, in modo da poter seguire passo passo le session per tutta la durata di quelle tre settimane, dai primi incerti giorni ai Twickenham studios fino ai più fruttuosi alla Apple. E fin da subito si nota come la qualità video sia spettacolare, e l'audio segue a ruota. Doveroso poi dire che certi risultati per quanto riguarda l'audio siano stati ottenuti grazie a tecnologie all'avanguardia, che sono state in grado di estrarre ed isolare singoli strumenti e voci dai nastri originali, permettendo così di avere delle tracce audio separate come in una registrazione multitraccia, e di procedere così alla realizzazione di un nuovo mix audio. C'è chi critica l'uso di queste tecnologie, in quanto sostiene che, trattandosi di un documentario, la maggiore qualità video ed audio ottenuta con tecnologie moderne non sia coerente con l'idea di rappresentare la realtà di quei giorni, e che invece avrebbero dovuto mantenere i propri limiti e difetti. Ovviamente, secondo questo ragionamento, non dovremmo ristrutturare le opere d'arte perché, per quanto si tenti di rimanere fedeli all'originale, è comunque un'operazione posticcia fatta con mezzi moderni da chi all'epoca non c'era? Inutile dire che non mi trovo affatto d'accordo con questo ragionamento. 

I tre episodi, sommati, ammontano a circa otto ore di durata, e c'è ovviamente chi si è lamentato dicendo che sono troppe, per chi scrive invece sono appena abbastanza. Certo, bisogna essere fan sfegatati dei Beatles, e non guasta anche quel pizzico di interesse per tutto ciò che riguarda le dinamiche tipiche delle band, il processo di creazione e registrazione di canzoni, magari anche per la Londra di fine anni '60, la cui atmosfera permea ogni momento del film. Si può osservare come, senza alcun dubbio, in quel momento Paul McCartney fosse la forza creativa ed organizzativa trainante, e che probabilmente è solo grazie a lui che in quel momento i Beatles esistevano ancora. La quantità di idee che Paul tira fuori in queste session è impressionante, e si passa da momenti storici come il preciso momento in cui nasce l'idea per il brano Get Back (che passerà poi attraverso diverse versioni e revisioni, tra cui una anti-razzista che da il la alla divertente jam Commonwealth), o le prime volte in cui strimpella The Long And Winding Road e Let It Be al piano, o quando presenta agli altri abbozzi di Golden Slumbers, Carry That Weight, Oh Darling, anche la tanto discussa Maxwell's Silver Hammer... John è sempre la principale fonte di comicità, ma musicalmente parlando è probabilmente il più disinteressato, mentre George avrebbe anche una montagna di idee musicali, ma ben poche vengono considerate. I Me Mine viene derisa da John, All Things Must Pass viene provata ben poco, e ciò unito ai continui ordini su come e cosa suonare da parte di Paul nei suoi confronti, porta al suo abbandono della band alla fine del primo episodio. Dopo un periodo di confusione, il suo ritorno è concordato a condizione di spostarsi dai freddi studi di Twickenham al nuovo studio alla Apple di Savile Row, che dopo qualche problema viene finalmente allestito. In tutto ciò non mi sono dimenticato di Ringo, che per tutto il film è semplicemente Ringo: poche parole, tanto ascolto e performance solide come una roccia alla batteria, tanto che quasi mai nessuno gli dice cosa fare. A quel punto ancora non si sa come far finire questo film, che doveva essere uno special tv ma non lo è più; forse un concerto, non si sa bene dove, si vedrà. 

Le prove continuano, tra tante jam e il provvidenziale arrivo di Billy Preston alle tastiere a dare supporto al sound live privo di sovraincisioni che i Beatles volevano ottenere. Con il suo arrivo cambia anche l'atmosfera, e la resa dei brani migliora in modo evidente fin da subito. Qui vediamo la nascita di brani come Something di Harrison, Octopus's Garden di Ringo, una prima jam che diventerà poi I Want You (She's So Heavy), oltre al continuo affinamento dei brani che poi finiranno nell'album Let It Be, in particolare Get Back, I've Got A Feeling, Dig a Pony e Don't Let Me Down. Proprio qui si può osservare come, dopo settimane di dubbi, finalmente spunta fuori l'idea di effettuare un concerto sul tetto dell'edificio della Apple, con tanto di video del sopralluogo. Certo, i dubbi permangono fino all'ultimo, ma alla fine il leggendario concerto avviene, e tra take multiple dei brani sopra citati, l'intervento della polizia, le reazioni della gente per strada, finalmente in Get Back possiamo assistere al (quasi) intero concerto, per quasi quaranta minuti di durata. Un assoluto picco del film che dimostra quanto i Beatles, nonostante l'assenza dai palchi da ormai tre anni, sapessero ancora essere una band di tutto rispetto su di un palco, forse anche meglio che mai. Il giorno successivo, l'ultimo filmato, è quello in cui vengono realizzati i video dei brani che non sono stati suonati sul tetto, Let It Be, The Long And Winding Road e Two Of Us, di cui purtroppo non sono presenti le performance intere in Get Back (a differenza del film originale), ma solo qualche estratto sul finale. 

Che dire in definitiva? Beh, per quanto mi riguarda, da tanto tempo non assistevo a qualcosa di così interessante e coinvolgente. La sensazione è quella di essere in studio con i Beatles per otto ore, una cosa che anche solo qualche anno fa non si sarebbe neanche potuta immaginare. C'è veramente tanto da vedere, e se da un lato posso anche capire chi si lamenta dell'eccessiva lunghezza, specialmente se si pensa ai lunghi dialoghi in cui la band, il regista ed il produttore discutono sul da farsi (seppure queste sezioni siano estremamente importanti a livello storico), dall'altro la quantità di momenti memorabili è veramente tanta. Dalla richiesta di Paul a Mal Evans di procurargli un martello ed un incudine, che poi lo stesso Mal con un contagioso entusiasmo suonerà in Maxwell's Silver Hammer, fino alla reazione dei quattro quando vedono arrivare i poliziotti sul tetto mentre suonano, passando per gli spassosi momenti in cui Heather, figlia di Linda, è presente nelle session ed imita Yoko Ono, oltre che ai già citati ed infiniti momenti di creatività, di scambi di idee, di musica che cambia forma e pian piano si incastra e si trasforma nella versione che si è poi conosciuta per cinquant'anni. 

Siamo di fronte ad un documento storico, poi si può discutere quanto si vuole sulle scelte effettuate nel montaggio, sulla presenza o meno di questa o quella parte, ma ricordiamoci che per mezzo secolo si è avuto solo il film Let It Be, l'album e i bootleg per farci un'idea di quel periodo (certo, anche Let It Be Naked, che probabilmente ad oggi rimane la migliore versione dell'album, pur essendo un remix posticcio), e l'idea che ci si era fatti era di un periodo buio, triste, difficile. Beh, da quel periodo buio, triste e difficile sono state realizzate otto ore di filmati intensi, divertenti, interessanti, storici, e non penso che si possa chiedere di più. 





lunedì 29 novembre 2021

The Darkness - Motorheart (2021) Recensione


Puntuali come un orologio svizzero, due anni dopo EASTER IS CANCELLED, i Darkness ritornano con un nuovo album, il loro settimo. Preceduto da ben quattro singoli (troppi a mio parere, ma ormai questa è la tendenza per chiunque), MOTORHEART si propone, stando alle parole del cantante Justin Hawkins, come un album che nulla ha a che fare con l'attuale situazione mondiale, ma bensì come una divertente raccolta di canzoni perfette per distogliere l'attenzione dalla deprimente realtà. Con questa premessa, non possono non aver guadagnato la mia attenzione! 
E di fatto il divertimento non manca nell'album, che si rivela essere perfettamente in linea con il loro ormai consolidato stile hard rock, tra brani piuttosto canonici, saltuarie cavalcate al limite del metal (ma, per fortuna, mai del tutto appartenenti a quel genere), qualche episodio puramente goliardico, tanti bei riff vecchio stile ed il solito, amato/odiato, falsetto di Justin sparso un po' ovunque. 
C'è che non riesce a prenderli seriamente, chi li definisce "comedy band", ed io, pur sforzandomi, non riesco proprio a capire come il non prender seriamente qualcosa sia considerabile negativo.

Detto questo, l'album inizia con la spassosa Welcome Tae Glasgae, che con il pretesto della presa in giro dell'accento scozzese (sarebbe Welcome to Glasgow, ovviamente), introduce in modo devastante il tutto quasi come lo fece anni fa Barbarian, senza però, purtroppo essere altrettanto memorabile. La frenetica It's Love e la multiforme Motorheart, due tra i singoli pubblicati prima dell'uscita dell'album, sono buoni brani, il secondo in particolare è ottimo, ma paiono peccare un po' di prevedibilità, sensazione che ha iniziato a farsi largo dall'album precedente, e che, ahimè, continua ad esser presente qui. Intendiamoci, non ci si può aspettare sempre di esser stupiti da un nuovo brano hard rock, anzi il genere "sopravvive" proprio grazie alla sua indole conservatrice, ma dai Darkness ci si può aspettare quel qualcosa in più, come hanno dimostrato in un capolavoro come fu PINEWOOD SMILE. Motorheart è comunque un ottimo brano carico di spettacolari riff e cambi imprevedibili, forse giusto tirato un po' giù dal ritornello. The Power And The Glory Of Love pare in bilico tra AC/DC e Who, mentre in Jussy's Girl tornano i migliori Darkness pop-rock dai ritornelli memorabili e coinvolgenti. Non manca poi la power ballad con Sticky Situations, che da una parte fa l'occhiolino ai Queen e dall'altro al loro classico Love Is Only A Feeling, prima della frenetica e spassosa Nobody Can See Me Cry, che sembra quasi uscire dal loro primo album. Il tutto poi si conclude in modo un po' strano a mio parere, con la pur divertente ma un po' sottotono Eastbound e con Speed Of The Nite Time, che invece si appoggia più su sonorità al limite della new wave, e si candida senza dubbio tra le cose migliori dell'album. Stupisce la scelta di chiudere l'album con un brano che si distingue dagli altri in modo così evidente, ma d'altronde se da una parte mi lamentavo della prevedibilità, dovrei esser stato accontentato, no? Ovviamente esiste anche la versione Deluxe con una manciata di brani aggiunti, ma c'è ben poco da segnalare a riguardo. 

Dunque, che dire in conclusione su questo MOTORHEART? Beh, come già fu per EASTER IS CANCELLED, la sensazione è che l'inarrestabile parabola ascendente iniziata dalla reunion del 2012 ha raggiunto il suo culmine con PINEWOOD SMILE, dove il sound della band già (ri)formato in LAST OF OUR KIND ha piano piano (ri)guadagnato l'ispirazione che aveva caratterizzato i primi due album nel decennio precedente, prima dello scioglimento. Da lì i Darkness hanno continuato, con questi ultimi due album, a sfornare ottimo rock divertente come solo loro oggi sanno fare, mostrandosi però giusto un po' meno ispirati rispetto al passato. In PINEWOOD c'erano brani come The Buccaneers Of Hispaniola, Southern Trains, Japanese Prisoner Of Love, tutti brani spassosi che musicalmente sono da antologia dell'hard rock, mentre già in EASTER questo si notava meno, mostrando infatti un bella differenza tra l'apertura di Rock and Roll Deserves To Die e brani, seppur ottimi, come Heart Explodes e In Another Life. In MOTORHEART non ci sono brani minori, ma forse neanche granché di "maggiore", seppur la title track e Speed Of The Nite Time ci provino e le altre si lascino ascoltare con gran piacere. Insomma, è difficile dare una valutazione, in quanto l'album è buono se non ottimo, ma non ha (ancora) fatto innamorare il sottoscritto come gran parte dei loro lavori precedenti.

Poi, detto fra noi, i Darkness sono sempre i Darkness, se vi piacevano prima vi piaceranno anche ora, mentre se li odiavate, a parte che vi consiglierei di farvi controllare il battito cardiaco, non cambierete idea ora. 


mercoledì 17 novembre 2021

Michael Nesmith & The First National Band - Loose Salute (1970) Recensione


Pubblicato appena cinque mesi dopo MAGNETIC SOUTH, LOOSE SALUTE ripropone, in un certo senso, la formula già vista nel precedente album. Nesmith e la sua band continuano ad esplorare le sonorità country rock, ed in generale il sound si fa via via più "formato" e convinto, proprio come una vera e propria band affiatata. 

Da un lato LOOSE SALUTE sembra non vantare l'unità e la scorrevolezza del precedente, e neanche ha un singolo di successo paragonabile a Joanne (anche se Silver Moon si avvicina), dall'altro però, come vedremo, è l'ultimo vero e proprio album della First National Band (NEVADA FIGHTER è suonato solo parzialmente da questa formazione, nonostante il nome della band rimanga in copertina), e di conseguenza è una sorta di "culmine" a suo modo.
La produzione è migliorata, ed i brani sono estremamente solidi, con ben pochi cali d'ispirazione. Ci sono ancora dei ripescaggi dai tempi dei Monkees: una curiosa versione del classico Listen To The Band, ovviamente riarrangiato ma stranamente sfumato sia in entrata che in uscita, e Carlisle Wheeling, brano scartato del 1969 qui reintitolato Conversations. La già citata Silver Moon apre l'album ed è uno dei migliori brani composti da Nesmith, mentre altrove si fanno spazio composizioni più particolari, con cambi inaspettati, come Thanx For The Ride e la magnifica Lady Of The Valley

I Fall To Pieces è una gran bella cover del brano reso famoso da Patsy Cline nel 1961, ed in Tengo Amore Nesmith si diletta addirittura con lo spagnolo in un brano dal sapore sudamericano. 
Il resto acquista toni più ritmati, come in Bye Bye Bye (brano che tra l'altro richiese ben undici sessioni di registrazione, ritardando l'uscita dell'album), Dedicated Friend e la conclusiva Hello Lady.
Se si acquista la versione rimasterizzata in CD si può poi trovare come bonus la in gran parte strumentale First National Dance, registrata nelle stesse session dell'album ed inizialmente inclusa nella tracklist, poi sostituita da Silver Moon

Indubbiamente è un album che continua in modo più o meno lineare ciò che era stato introdotto da MAGNETIC SOUTH, ma lo fa in modo un pelo più eterogeneo, a volte imprevedibile. La band offre performance sempre di altissimo livello, ed il lavoro alla pedal steel di Red Rhodes è, se possibile, ancora più incredibile e carico di inventiva che nel precedente; ma un plauso va, ovviamente, a Nesmith stesso, sia come compositore che come cantante (ascoltare le sue tracce vocali sovrapposte in Lady Of The Valley per capire cosa intendo). I testi sono meno filosofici e profondi, più legati a temi "terreni", ed i brani più ritmati mostrano un indurimento del sound che aggiunge varietà al mix, mentre la produzione di Nesmith migliora, inaspettatamente, di non poco la resa generale, rendendo l'album meno "vecchio" all'ascolto, pur mantenendo un sound tutt'altro che moderno.

Uno degli album più densi e di alta qualità del catalogo solista di Nesmith e certamente una degna conferma del talento della First National Band, che però avrà, purtroppo, vita breve. 



giovedì 11 novembre 2021

Michael Nesmith & The First National Band - Magnetic South (1970) Recensione

Principalmente ricordato per la sua permanenza nei Monkees, Michael Nesmith ha sempre dimostrato di essere quello più portato alla composizione nella band. Già anni prima la sua Different Drum fu resa famosa da Linda Ronstadt, e dal primo album dei Monkees in poi non mancarono mai sue composizioni negli album, da Papa Gene's Blues fino a capolavori come What Am I Doing Hangin' Round, Tapioca Tundra, Circle Sky e Listen To The Band. Non per nulla già nel 1968 uscì un album a nome suo, THE WICHITA TRAIN WHISTLE SING, che però, in linea con la sua lucida follia, era composto da riarrangiamenti in stile big band di suoi brani. 

Nel 1970 Nesmith abbandonò i Monkees e formò la First National Band, composta da lui stesso alla voce e chitarra, John London al basso, John Ware alla batteria e O.J. "Red" Rhodes alla chitarra pedal steel. Il primo album con questa band, MAGNETIC SOUTH, uscì quell'anno e fu, secondo molti, uno dei primi e fondamentali esempi di album totalmente country rock, genere che combinava il vecchio stile country con le più moderne sonorità pop-rock. Esempi di questo stile ce ne furono già negli anni '60, fin da certe cose di Dylan, dei Beatles o dei Byrds, ma solo negli anni '70 si affermò definitivamente come genere. 

MAGNETIC SOUTH, a fronte di una produzione piuttosto opaca (che ha anche il suo fascino, molto "old style", ma è quantomeno discutibile), vanta una tracklist estremamente solida, composta sia da brani nuovi che da alcune composizione già provate ai tempi dei Monkees. Fin dall'apertura samba di Calico Girlfriend, o dal classico Nine Times Blue, in medley con la vivace Little Red Rider: brani che, seppur provati intorno al 1969 con i Monkees (poi scartati e presenti nelle nuove versioni ampliate degli album del periodo), acquistano un nuovo arrangiamento e sono totalmente coerenti con ciò che le circonda. Senza dubbio il brano più famoso è Joanne, piccolo capolavoro che mette oltretutto bene in mostra non solo le doti compositive di Nesmith, ma anche la sua ottima tecnica vocale, e finì per diventare il suo più grande successo da solista. Non mancano altri magnifici brani come The Crippled Lion, Hollywood (anche questa già provata ai tempi dei Monkees) tutte condite da testi spesso di natura filosofica, e la conclusiva Beyond The Blue Horizon, cover di un brano del 1930.
Ciò che aggiunge colore e dà ulteriore carattere alle composizioni di Nesmith è il magnifico contributo di Red Rhodes alla lap steel, strumento tipico del genere ma raramente suonato in modo così magistrale. Rhodes, già membro della Wreckin' Crew, ha suonato in innumerevoli brani nell'arco della sua vita, dai Byrds ai Beach Boys, dai Millennium fino a Harry Nilsson, e fu senza dubbio uno dei maggiori virtuosi di quel complesso strumento. Il suo contributo è difficile da descrivere a parole, in quanto aggiunge toni complessi ma sfuggevoli ovunque, in un certo senso quasi psichedelici ma non lisergici, caldi, confortevoli ma originali e spesso imprevedibili. L'album scorre meravigliosamente nei suoi 33 minuti, giusto interrotti dal brevissimo divertissement First National Rag, che originariamente chiudeva il primo lato. 

Di solito il country è un genere prevedibile, spesso banale, negli anni via via sempre più spudoratamente commerciale, ma qui è diverso. Non nascondo il mio apprezzamento per band come Eagles o America, ma lo stile compositivo di Nesmith ha quel che di imprevedibile, pur con i suoi riconoscibili canoni, che lo piazza in uno spazio tutto suo, in linea con le tendenze dei tempi (forse anche un po' in anticipo), ma con caratteristiche proprie inconfondibili, specialmente per quanto riguarda le sequenze armoniche. Un album a suo modo leggendario, a riprova del fatto che nei Monkees c'era anche tanto talento e non solo superficiale apparenza.
Consigliato soprattutto agli appassionati di musica country, ma non solo. 



lunedì 25 ottobre 2021

Circulatory System - Mosaics Within Mosaics (2014) Recensione

Dopo l'incredibilmente denso SIGNAL MORNING, uscito nel 2009 tra numerose difficoltà (ne ho parlato qui), dovettero passare altri cinque anni per poter ascoltare il terzo, e ad oggi ultimo, album dei Circulatory System, un ritorno al formato doppio, proprio come l'incredibile ed irripetibile esordio datato 2001. 

Tra l'uscita del secondo album e quella del terzo hanno fatto in tempo a riunirsi gli Olivia Tremor Control, ad andare in tour per un paio di anni, pubblicare un singolo e lavorare ad un nuovo album, purtroppo ad oggi ancora inedito. L'inaspettata ed improvvisa morte di Bill Doss ha causato un ovvio cambio di piani, e così Hart tornò ai suoi Circulatory System, dedicando a Doss questo MOSAICS WITHIN MOSAICS.

I musicisti coinvolti sono a grandi linee gli stessi degli album precedenti, così come i numerosi ospiti, tutti parte della grande famiglia che è l'Elephant 6. Di nuovo, l'album è costruito intorno ad una moltitudine di frammenti ad opera di Will Hart, spesso di natura casalinga, sia recenti che risalenti a chissà quanti anni prima, poi in alcuni casi rivisti in un arrangiamento più "di gruppo". L'album, come detto, si può considerare come doppio per via della sua durata di circa un'ora, e la suddivisione delle tracce su quattro ideali "lati" è lì a testimoniarlo. L'impressione ad un primo ascolto, specialmente se confrontato al precedente SIGNAL MORNING, è quella di un lavoro più "disteso", con tutti gli elementi sonori familiari, ma laddove nel precedente il tutto sembrava essere sovrapposto, qui ha più respiro. La quantità di idee musicali è comunque impressionante, ma non si ha più l'impressione di dover "scavare" tra decine e decine di tracce (comunque presenti) per scoprire l'ennesima trovata che all'ascolto precedente era sicuramente sfuggita, tanto era alta la densità. Beninteso, la raffica di frammenti musicali tipici dei Circulatory System è presente anche qui, ma con un fare più "rilassato", con meno urgenza e più atmosfera. 

La produzione è, come sempre, spettacolare, e anzi guadagna qualche punto in chiarezza rispetto al precedente, pur mantenendo quel suo tipico, precario ma quasi magico, equilibrio tra lo-fi e hi-fi. Sparsi per tutto l'album ci sono otto "Mosaics", intermezzi di varia natura (che tra l'altro, se si inserisce il CD in un computer, alcuni programmi mostreranno titoli per ognuno di essi non presenti da altre parti) che vanno dal "semplice" collage sonoro (Mosaic #4) a magnifiche sezioni corali (Mosaic #1). Tra l'altro, parlando di sezioni corali, le armonie vocali sono più presenti che mai in questo album, e aggiungono ulteriore colore al tutto, anche in modi inaspettati a volte. 
I singoli frammenti musicali che compongono l'album non hanno nulla da invidiare ai lavori precedenti, e anzi spesso mostrano un'ancora maggiore sensibilità melodica, come ben testimoniato fin da If You Think About It Now, da Tiny Planes On Canvas o da When You're Small. I ritmi sono spesso lenti, sonnecchianti, seppur spesso con un andamento tipicamente marziale, tipico di certa musica ispirata al pop anni '60. E proprio prendendo ispirazione dalla musica di quell'epoca, specie dal sunshine pop, ecco che fanno capolino anche influenze jazz nella costruzione armonica di brani come Over Dinner The Cardinal Spoke e Aerial View of a Heart (from Above). E seppur sia facile, perlomeno in superficie, percepire una maggiore oscurità rispetto al passato, specie in brani come It's Love e Open Up Your Lives, si tratta, appunto, di una prima impressione, in quanto il tutto inserito nel proprio contesto (e quindi visto come, appunto, un mosaico musicale, dove però il tutto scorre naturalmente e senza scossoni) dà più il senso di una serena meditazione. Indubbiamente alcuni brani spiccano particolarmente, come Stars And Molecules, piccolo capolavoro pop, o Conclusions, mentre il finale è da applausi, con la marziale Bakery Spires, Night Falls e la trionfale e terribilmente breve Elastic Empire Coronation che sfuma lentamente e se ne va come la fine di un sogno in dormiveglia, in cui non sai bene cosa è o è stato realtà e cosa no.

Come ormai di consueto, la quantità di idee musicali "bruciate" in pochi secondi lascia a bocca aperta, tanto che chiunque da una sola di quelle idee ci farebbe chissà quante canzoni (tipo i sopravvalutati Oasis), e se ci si concentra a far caso ad ogni singolo particolare l'effetto è a volte stordente, ma mai difficile, ostile, sempre piacevole all'ascolto, come solo il miglior pop sa essere. Hart e compagni si confermano ulteriormente come una delle realtà musicali più interessanti e sottovalutate degli ultimi vent'anni, infinitamente più sostanziose di grandissima parte delle band definibili "neo-psichedeliche", anche se questa definizione andrebbe abbastanza stretta agli album dei Circulatory System. C'è qualcosa in questi album (e in quelli degli Olivia Tremor Control, seppur con qualche differenza) che non è possibile trovare altrove; non è semplice emulazione di un genere, è un genere a sé, con caratteristiche estetiche del pop psichedelico, ma tanto, tanto altro al suo interno. Fatevi un favore ed esplorate la loro discografia, non ve ne pentirete. Nel frattempo, chissà se prima o poi potremo ascoltare il fantomatico terzo album degli OTC...

sabato 18 settembre 2021

Elton John - Regimental Sgt. Zippo (2021 - Registrato nel 1967-68) Recensione

Storia alquanto particolare quella di REGIMENTAL SGT. ZIPPO, di fatto un album rimasto inedito per 53 anni. Già EMPTY SKY, effettivo esordio discografico di Elton John datato 1969, viene oggi poco considerato in favore del successivo ELTON JOHN del 1970, che con la hit Your Song diede il via alla sua carriera di successo, ma ora veniamo a sapere che esiste un album ancora precedente a quello! Per decenni si sono rincorse ipotesi e teorie a riguardo, ma solo il cofanetto JEWEL BOX nel 2020 ha confermato l'esistenza di alcuni brani datati 1967-'68, che a quanto pare furono anche preparati e messi in sequenza per un possibile album. Nel JEWEL BOX trovarono posto tre brani in versione "da band", ed altri otto in versione demo, mentre per il Record Store Day del 2021 ecco che l'intero album (con tutti gli 11 brani in versione definitiva ed un ulteriore inedito) vede la luce, seppur solo in vinile (perché viviamo in tempi intrisi di nonsense dove la musica è un accessorio e l'oggetto la cosa più importante). 

Le prime session ebbero luogo nel Novembre del 1967, periodo in cui venne registrato il brano Nina, e durarono fino ad Aprile dell'anno dopo, periodo in cui Elton fece i suoi primi concerti con il suo nuovo nome d'arte. I brani registrati furono ad un certo punto lasciati da parte, seppur si arrivò effettivamente alla realizzazione di un acetato (aggiudicato per circa 25000 sterline ad un'asta del 2015), preferendo realizzare da zero un altro album, probabilmente su spinta del manager di Elton e Bernie Taupin, che cercò di convincere Dick James (con cui il duo aveva da poco firmato un contratto di publishing) a dare loro la possibilità di affinare il loro nascente talento. Fu così che Elton e Bernie iniziarono a lavorare ad EMPTY SKY, e SGT. ZIPPO rimase negli archivi per più di mezzo secolo. 

Con un titolo che è un ovvio riferimento/tributo al SGT. PEPPER dei Beatles (oltre al vero nome di Elton, Reginald, ed il ruolo militare di suo padre), i dodici brani che compongono questo disco sono totalmente immersi nel sound psichedelico tipico del periodo, con giusto qualche traccia dello stile personale che caratterizzerà i suoi successivi lavori. Via quindi a grandiosi arrangiamenti di archi e fiati a decorare bei brani pop come When I Was Tealby Abbey, ed un stile che prende tanto dagli ovvi Beatles quanto, forse in modo ancora più evidente, dagli Hollies (specie nell'uso delle voci). Bellissima And The Clock Goes Round, specie il ritornello, mentre Turn To Me aveva del potenziale per essere un bel singolo. La title track è forse il brano più carico di cliché, con il suo andamento marziale, i cori sognanti ed effetti psichedelici vari, mentre You'll Be Sorry To See Me Go è uno strano ibrido tra il tipico rock and roll a la Elton John che incontreremo spesso negli anni '70 e lo stile dei Beatles di qualche anno prima. L'arrangiamento estremamente pesante di Nina stupisce per il suo totale contrasto con la natura sentimentale della canzone, ma è anche vero che quelli erano i tempi di McArthur Park, quindi è comprensibile. Non manca il gusto barocco nell'acustica Tartan Coloured Baby, mentre Watching The Planes Go By è una degna ed epica conclusione dell'album, con il suo arrangiamento orchestrale e l'incedere da inno sul finale. 

Forse non un lavoro che avrebbe cambiato la storia della musica se fosse uscito all'epoca, ed è difficile dire quanto avrebbe influito sulla carriera di Elton nel caso. Si nota qualche aspetto ancora acerbo nelle composizioni, ma il risultato non è così lontano da molti album di quel periodo, specialmente inglesi. Sulla produzione non mi esprimo definitivamente, in quanto attendo una versione su CD o perlomeno digitale, vista l'indubbia inferiorità del vinile in termini di resa sonora (ed infatti i brani ascoltati sul JEWEL BOX suonano mediamente meglio), ma l'impressione è di un sound un po' caotico tipico degli album inglesi del periodo (negli USA, tolte le band di natura garage, le produzioni erano tendenzialmente più pulite e curate ai tempi, ovviamente escludendo l'eccezione dei Beatles). Insomma, REGIMENTAL SGT. ZIPPO è una valida ed essenziale aggiunta alla già sostanziosa discografia di Elton John, che permette di comprendere ancora meglio la sua maturazione come compositore (oltre a quella di Bernie Taupin come paroliere), e di ascoltarlo alle prese con uno stile e delle sonorità che mai più toccherà nella sua carriera. Un ascolto consigliato sia ai fan di Elton che a coloro che amano il pop psichedelico anni '60, pur sapendo che ci si troverà per le mani un buon album e non un capolavoro. 






lunedì 13 settembre 2021

The Olivia Tremor Control - Music from the Unrealized Film Script: Dusk at Cubist Castle (1996) Recensione


Gli Olivia Tremor Control furono uno dei gruppi di punta del collettivo di musicisti Elephant 6, oltre a coloro che, in appena due album, hanno forse più di ogni altro esplorato le possibilità del pop d'ispirazione psichedelica portandolo quasi al suo limite, se ne esiste uno. 

La band nasce nei primi anni '90 dall'incontro di Will Cullen Hart, Bill Doss e Jeff Mangum, tutti con alle spalle una serie di particolarissime registrazioni casalinghe sotto vari nomi. Trasferitisi da Ruston, Louisiana ad Athens, Georgia, iniziarono a suonare con il nome Synthetic Flying Machine, cestinando il precedente Cranberry Lifecycle. Inizialmente con Hart alla chitarra, Doss al basso e Mangum alla batteria, si inserirono nella scena locale differenziandosi dall'imperante grunge grazie al loro sound di ispirazione psichedelica, e ben presto, su suggerimento di Mangum, cambiarono ancora nome in The Olivia Tremor Control. Dopo un primo EP intitolato CALIFORNIA DEMISE pubblicato nel 1994, Jeff Mangum abbandona la band per dedicarsi ai suoi Neutral Milk Hotel (nome suggeritogli da Hart), ed entrano così in formazione John Fernandez, Pete Erchick ed Eric Harris. Hart e Doss lavorarono a molti brani in quel periodo, registrandone vari su cassetta con registratori a 4 tracce, e nel 1995 andarono a Denver, Colorado, ad ultimare le registrazioni del loro primo album, nel Pet Sounds Studio di Robert Schneider (produttore e membro fondatore degli Apples in Stereo, altra figura portante dell'Elephant 6), che poi in sostanza era uno studio casalingo dotato di un registratore ad 8 tracce. 

Il risultato uscì nel 1996 con il titolo MUSIC FROM THE UNREALIZED FILM SCRIPT: DUSK AT CUBIST CASTLE, con una bellissima copertina ad opera dello stesso Hart. Tecnicamente si tratta di un album doppio con i suoi ben 74 minuti di durata, ed al suo interno si può trovare una enorme varietà di sonorità, che vanno dal più classico pop beatlesiano alla pura avanguardia, con tutto ciò che ci passa in mezzo. Molti dei brani realizzati da Hart con metodi casalinghi finiranno nell'album con pochissime modifiche e, tenendo conto dei mezzi utilizzati per le registrazioni, la complessità e particolarità del sound finale è a dir poco incredibile. Il titolo suggerisce quella che fu effettivamente l'idea alla base del progetto: la realizzazione di un film, che purtroppo non vide mai la luce. Le canzoni dell'album avrebbero dovuto introdurre i protagonisti della storia, mentre una sequenza più "sperimentale" avrebbe rappresentato dei sogni dei suddetti personaggi. Quest'ultimo aspetto è rappresentato da EXPLANATION: INSTRUMENTAL THEMES AND DREAM SEQUENCES, un album definibile ambient di circa 70 minuti, allegato alle prime 2000 copie di DUSK AT CUBIST CASTLE (poi uscito anche individualmente nel 1998) e, secondo alcune teorie, alimentate anche da messaggi nell'artwork, da ascoltare in contemporanea a quest'ultimo. Personalmente posso dire di aver provato e, effettivamente, suona troppo bene per essere qualcosa di casuale o posticcio. Curiosamente, alcune tracce che fanno riferimento alla "trama" dell'album furono escluse (The Princess Turns The Key to the Cubist Castle, The Giant Day (Dawn) e The Giant Day (Dusk)), per poi trovare posto nell'EP THE GIANT DAY, sempre del 1996 (poi incluso in PRESENTS: SINGLES & BEYOND del 2000). I brani in questione venivano infatti suonati dal vivo in medley con altri dall'album, andando a formare due mini-suite. In tal senso consiglio l'ascolto dell'EP THOSE SESSIONS datato 2000, contenente una registrazione dal vivo realizzata per il programma di John Peel per la BBC, contenente anche le due suddette suite.

  

Il surrealismo stava alla base di molte idee della band, dal magnifico artwork che non si limita alla copertina, alle particolarissime esibizioni dal vivo dell'epoca intrise di dadaismo, fino ai testi. E proprio sui testi ci sarebbe molto da dire, in quanto se si guarda agli anni '90 si nota molta negatività, sarcasmo, disillusione in gran parte della musica tipica dell'epoca, specialmente nella prima metà, mentre con gli Olivia Tremor si ha l'esatto opposto. La gioia e positività dei testi di questo album in particolare (ma non solo) lo distingue da molta musica del periodo, ma anche oggi sarebbe alquanto fuori posto, seppur ce ne sarebbe necessità. Parlavamo delle esibizioni dal vivo poco sopra, ed in questa fase iniziale della band più che successivamente, l'imprevedibilità faceva da padrone. Andare ad un loro concerto poteva significare tanto assistere ad una relativamente "normale" esibizione, quanto trovarsi la band alle prese con quartetti vocali a cappella, interi set fatti di sperimentazioni sonore con nastri, a volte coinvolgendo anche il pubblico.

Doveroso citare ad esempio l'idea di chiedere ai fan di raccontare dei loro sogni, le cui registrazioni venivano poi utilizzate e manipolate dal vivo. L'idea di utilizzare i sogni dei loro fan si dimostrerà poi essere ricorrente in questa fase, in quanto spunterà poi una richiesta analoga tramite un messaggio nell'artwork di CUBIST CASTLE; su ciò si baserà poi il primo album dei Black Swan Network (progetto di natura ambient degli stessi Olivia Tremor), THE LATE MUSIC VOLUME ONE del 1997, mentre ulteriori piccole tracce di ciò si avranno poi nel secondo album degli Olivia Tremor, BLACK FOLIAGE: ANIMATION MUSIC VOLUME ONE del 1999. Tra l'altro, già nell'EP del 1997 THE OLIVIA TREMOR CONTROL / BLACK SWAN NETWORK (conosciuto anche come THE TOUR EP) c'erano tracce che poi sarebbero finite in THE LATE MUSIC (tra cui le suddette registrazioni dei sogni dei fan), intervallate però da momenti più "musicali", che si concludono con Dusk At Cubist Castle Closing Theme, quasi a voler chiudere definitivamente questo capitolo.

Il furore punk di The Opera House apre l'album con energia, e già mette ben in mostra come gli arrangiamenti, anche di canzoni relativamente semplici come questa, siano densi di suoni di ogni tipo, da effettive parti strumentali, a cori, fino a suoni elettronici, percussioni, a creare un sound orchestrale tendente al caos controllato, tendenza questa che verrà affinata ulteriormente nei loro successivi lavori. Frosted Ambassador deve invece molto a certi brani strumentali dei Beach Boys, con però quell'alone di lo-fi a decorare, quasi come se Let's Go Away For Awhile da PET SOUNDS fosse stata registrata nelle session di SMILEY SMILE. Jumping Fences è il trionfo del pop beatlesiano tanto caro al compianto Bill Doss, un magnifico brano che strizza l'occhio anche a My Sweet Lord di George Harrison. E così, senza neanche accorgersene (i brani sono tutti brevi e densi di idee), eccoci nel pieno di un sound a la REVOLVER con Define A Transparent Dream. La cosa innegabile è che queste ovvie ispirazioni mai finiscono con lo scadere in palesi imitazioni da due soldi (come invece succedeva con i sopravvalutati e contemporanei Oasis), ma anzi sembrano quasi estendere quell'idea iniziale verso nuovi territori, più "storti", onirici, imprevedibili. Già dall'album successivo i riferimenti al passato si faranno decisamente meno evidenti. No Growing (Exegesis) è un perfetto quadretto pop con bellissime armonie vocali con ben poco da invidiare al miglior sunshine pop, mentre la successiva Holiday Surprise è il primo brano suddiviso in parti, in questo caso tre. La prima è un altro spettacolare pezzo pop, la seconda è più atmosferica e sperimentale, mentre il finale è più ritmato ed estremamente coinvolgente, la cui coda strumentale finisce nel totale caos di effetti sonori. 

Si torna in pieno in territori sunshine pop con Courtyard, con il suo andamento tra il music hall ed il vaudeville, per poi fare i primi passi verso quella che sarà la sezione più "sperimentale" dell'album con Memories of Jaqueline 1908, che dopo un inizio piuttosto canonico finisce in un mare di kazoo e nastri manipolati, scivolando così in Tropical Bells, trionfo di basso fuzz, percussioni, effetti sonori e chitarre slide degne del miglior Syd Barrett. Tutto ciò porta a Can You Come Down To Us?, brano già presente nelle vecchie cassette dei primi progetti di Will Hart (The Always Red Society), poi notevolmente esteso dal vivo, sede in cui guadagnerà anche un coinvolgente quanto inaspettato beat quasi "disco", qui nell'album appena accennato. Marking Time è un altro bel brano che idealmente chiude la prima parte dell'album in modo sereno e pacato. A questo punto entra la prima delle dieci (!!) parti di Green Typewriters, brano che nella sua totalità supera i 23 minuti ed al suo interno mostra la faccia più avanguardistica degli Olivia Tremor. Attenzione, non siamo di fronte a quasi mezz'ora di suoni e rumori, in quanto le prime parti sono altri frammenti pop di una bellezza assoluta, in particolare la prima parte e la quarta, successivamente il brano inizia gradualmente a discendere verso il puro collage sonoro, il cui picco si ha nei 9 minuti dell'ottava sezione. Con un colpo di genio la nona parte entra senza preavviso con Hart a chiedere "how much longer can I wait?", per poi lasciar spazio ad un bell'assolo di chitarra liberatorio sfociante in altri nastri manipolati ad introdurre il finale acustico. 

Un brano che sicuramente va ascoltato essendo nel giusto "mood", ma la cui costruzione risulta a dir poco magistrale, mettendo anche ben in mostra, forse più di ogni altro brano in questo album, la natura lo-fi di molte delle canzoni qui presenti. Una suite nel vero senso del termine, tra il pop e l'avanguardia, squisitamente psichedelica.

Difficile dar seguito ad un brano del genere, ma l'album è ancora lontano dal concludersi, ed ecco di nuovo Bill Doss con Spring Succeeds, quasi una rassicurazione dopo la follia a cui si è appena assistito, il cui sbarazzino ritmo shuffle sfocia ben presto in una inaspettata sezione più ritmata con fiati ed incroci corali veramente ben realizzati. Dopo l'intermezzo di Theme for A Delicious Grand Piano c'è I Can Smell The Leaves, gran bel pezzo acustico piuttosto breve e sottovalutato che introduce un'ultima sezione di natura, perlomeno parzialmente, sperimentale: Dusk At Cubist Castle. Dopo un'introduzione fatta di suoni, rumori e percussioni, prende spazio una sezione piuttosto ritmata con solamente batteria, basso e voce di Hart, per poi sfociare in un altro collage sonoro non lontano da certe parti di Revolution 9 dei Beatles, forse giusto un pelo meno inquietante. Il trionfo di fiati di The Gravity Car ci riporta sulla terra ed introduce una bellissima sezione cantata con cori che entrano ed escono, mentre l'onore di chiudere l'album spetta a NYC - 25. Uno spettacolare brano pop tra i Beatles ed i migliori ELO, trionfo dello stile tipico di Bill Doss, che con la sua relativa normalità chiude questo lungo album nel migliore dei modi. 

La creatività contenuta in questi 74 minuti di musica e suoni, uniti a tutto ciò che sta intorno e completa l'esperienza di ascolto, è qualcosa di raro se non unico. Il pop nella sua più alta espressione, quella della fine degli anni '60, sia inglese che americano, qui è alla base di una visione allargata, quasi totale della musica, senza però alcun senso di serietà, superiorità, ma anzi con tanta istintività e pura gioia. Gli aspetti più sperimentali verranno senza dubbio meglio implementati nel loro successivo album, ma già qui si incastrano nel contesto sonoro in modo inaspettatamente naturale e non troppo forzato, quasi come se l'anima pop di gran parte dei brani fosse già nativamente pronta ad accogliere certe "derive", a conferma delle possibilità sostanzialmente illimitate di certa musica, mai intrappolata in esibizioni tecniche fine a se stesse e totalmente scevra da ogni forma di ego. Il modo in cui le melodie memorabili dei brani iniziali catturano l'attenzione dell'ascoltatore per poi, molto gradualmente, trasportarlo in sezioni d'avanguardia è magistrale, tanto che l'unico altro esempio che mi viene in mente è il WHITE ALBUM dei Beatles, nel modo in cui si arriva alla già citata Revolution 9, ma anche lì non era così graduale e naturale. Un album che 25 anni dopo la sua uscita è ancora in grado di ispirare ed insegnare molte cose, e che chiunque dovrebbe ascoltare almeno una volta nella vita, perché in fondo tutti avremmo bisogno di positività, di mondi alternativi, di dar peso ai nostri sogni, di prendersi un po' meno sul serio; questo album offre tutto ciò, e anche di più.

Vi lascio il loro sito ufficiale, che vi consiglio caldamente di visitare per capire ancora meglio la filosofia della band. 

What I need is space

And lots of it

Tons and tons of rooms

And lots of them

I'll paint them green and red

And thirty six colors to custom mix

A collection of rugs with tons of tiny tassles

Sharp lines decorative designs

A place to harmonize away from conventional life

A place to radiate

A place to be just me

Return again and again to the giant day inside of my head

Tons and tons of ideas that never take off

It causes the untime

It's all on a different level

And there's so many

The stages are set

Everything is ready

Let the future come

Let the future linger on


Da Green Typewriters

 


lunedì 6 settembre 2021

The Beach Boys - Feel Flows - The Sunflower & Surf's Up Sessions 1969-1971 (2021) Recensione

Dopo un'odissea durata due anni fatta di ritardi, dubbi e chissà quant'altro, finalmente uno dei cofanetti più attesi da molti ha visto la luce. Quando si parla dei Beach Boys di solito si tende a pensare alla loro prima fase surf, magari a PET SOUNDS, al massimo a SMILE, ma il periodo immediatamente successivo tende ad essere ignorato, a torto, dalla stragrande maggioranza della gente. La fase, in un certo senso, DIY formata da SMILEY SMILE, WILD HONEY e FRIENDS dimostra come la band stesse tentando altre vie in modo estremamente personale e, sotto vari aspetti, innovativo. Brian Wilson era tutt'altro che un eremita in quegli anni, ma è anche vero che il crescente contributo dei compagni di band ha fatto sì che il leader indiscusso fino a quel momento diventasse quasi semplicemente "un altro membro dei Beach Boys". Dennis Wilson sbocciò inaspettatamente come compositore, lo stesso, seppur in misura minore, successe per il fratello Carl, che contribuì molto anche come produttore, più spazio venne dato a Bruce Johnston, e anche Al Jardine e Mike Love non rimasero indietro. 20/20 nel 1969 fu un album di gruppo più di ogni altro prima, e questa tendenza proseguì, con risultati ancora migliori, in SUNFLOWER.

Dopo un complicato periodo caratterizzato dal passaggio dalla Capitol alla Warner, da un cambio di manager, da una serie di album rifiutati e da chissà quant'altro, questa fase della band è forse la più sottovalutata in assoluto (consiglio, se interessati, la lettura del mio libro The Beach Boys & Brian Wilson - Le Opere Perdute, in cui scendo più nel dettaglio anche su questo periodo, seppur parte del contenuto risulti ora un po' obsoleto alla luce delle rivelazioni di questo boxset). SUNFLOWER fu un fallimento commerciale, mentre il successivo SURF'S UP suscitò un po' più di interesse, se non altro per l'inclusione dell'omonimo brano proveniente dalle session di SMILE; ma ciò non toglie il fatto che questi due album furono irreperibili per interi decenni, in quanto non considerati degni d'interesse abbastanza da esser tenuti in vendita. 

Questo criminale errore di valutazione, per fortuna, è stato rettificato negli anni, fino ad oggi, con questo FEEL FLOWS che celebra degnamente questa fase della storia dei Beach Boys. 

Premessa: non posseggo il cofanetto fisico, quindi parlerò del contenuto musicale così come appare nei siti di streaming.

Ulteriore premessa: non recensirò gli album SUNFLOWER e SURF'S UP in quanto presumo che chi legge questo articolo già li conosca e, soprattutto, perché meriterebbero eventualmente più spazio individualmente. 

Dunque, il contenuto è suddiviso in cinque dischi, andiamo a vederli ad uno ad uno.

DISCO 1

Subito troviamo una nuova rimasterizzazione di SUNFLOWER, che se da un lato non si può dire che suoni male, dall'altro si ha come l'impressione che pecchi un po' di una sovrabbondanza di frequenze alte, fruscii, insomma è un pelo troppo brillante. "Difetto" questo che si estende un po' a tutto il contenuto del cofanetto, seppur in misura minore, ma è particolarmente evidente qui. Subito dopo la fine dell'album, curiosamente, troviamo una selezione di performance live di brani estratti da esso, seguita da una manciata di tracce bonus. Personalmente avrei invertito le due cose, se non altro per non ascoltare prima una versione dal vivo di un brano poi presente in versione studio successivamente (Susie Cincinnati, ad esempio), ma sono piccolezze. I brani live sono presi da varie epoche, e segnalo in particolare una carichissima versione di This Whole World del 1988, seppure il resto non sia da meno. (It's About Time del 1971 con i fiati è veramente spettacolare). Le altre tracce bonus sono di varia provenienza, tra singoli, lati b e scarti: dalla bellissima Breakaway al piccolo capolavoro di Dennis San Miguel, fino alla divertente Loop De Loop, per anni ascoltata in bootleg in pessima qualità, ora finalmente in una veste degna. 

DISCO 2

Come nel primo, troviamo innanzitutto la versione rimasterizzata di SURF'S UP, poi qualche traccia live e altre bonus. In questo caso il nuovo master non è brillante come quello di SUNFLOWER, ed il che è un'ottima cosa. Le tracce live sono di nuovo ottime, e spiccano senza dubbio una energica versione di Long Promised Road datata 1972 ed una inaspettatamente fedele Surf's Up datata 1973 (a riprova della spettacolare veste live della band in quegli anni, che speriamo venga adeguatamente celebrata nel prossimo cofanetto). Tra le bonus è benvenuta la prima versione di Big Sur (poi rielaborata in HOLLAND) finalmente in ottima qualità, la particolare Sweet And Bitter, la esilarante ed oscura My Solution, e poi il trittico di composizioni di Dennis Wilson 4th of July, Sound Of Free e Lady (Fallin' In Love), primo esempio del suo sottovalutatissimo (in questa fase) talento. Su questo ultimo punto vorrei far notare che in SUNFLOWER ci sono quattro brani di Dennis, in SURF'S UP nessuno, ma come iniziamo a vedere qui e vedremo anche più avanti, il materiale non mancava affatto.

DISCO 3

In questo CD troviamo una lunga serie di estratti dalle session di SUNFLOWER e relative tracce bonus. Quindi via a versioni alternative, strumentali, a cappella, primordiali, false partenze, e chi più ne ha più ne metta. Impossibile scendere nel dettaglio, ma basti dire che il disco offre un affascinante ed inedito punto di vista sull'album. Le session di Forever, la sezione archi isolata di Our Sweet Love, la versione estesa di This Whole World, tutti gli estratti delle armonie vocali, c'è veramente tanto di cui gioire. 

DISCO 4

Stesso discorso, questa volta per SURF'S UP. Particolarmente interessante rivalutare brani come Don't Go Near The Water e Take A Load Off Your Feet grazie a queste versioni dove si possono apprezzare strumenti e voci separatamente, mentre la versione estesa di 'Till I Die, seppur non raggiunga l'originale, è uno spettacolo, e vanta oltretutto anche un inedito testo alternativo. In questo disco trovano spazio anche una manciata di ulteriori tracce bonus, come il capolavoro (Wouldn't It Be Nice To) Live Again in versione estesa a quasi 7 minuti, brano di Dennis che inizialmente avrebbe dovuto chiudere l'album, poi scartato in favore di Surf's Up, la curiosa e briosa I Just Got My Pay, Walkin' (uno dei primi esempi della fissazione di Brian Wilson per il brano Shortenin' Bread) e la bellissima Awake

DISCO 5

Forse il CD più interessante dell'intero cofanetto, in quanto quasi interamente dedicato a brani inediti. La versione con finale alternativo e take vocale diversa di This Whole World apre degnamente il tutto, mentre si fa notare un nuovo mix di Soulful Old Man Sunshine, brano meritevole di maggior fortuna, la bella Where Is She (quasi la versione di Brian di She's Leaving Home dei Beatles), il demo e poi la versione "di gruppo" di Won't You Tell Me, perla inaspettata con un Brian Wilson in formissima (divertente quanto amaro sentire suo padre Murry dire durante la session che è la cosa migliore che abbiano fatto negli ultimi 5 anni, conoscendo la storia della band). Gran parte del disco è però occupato da brani di Dennis Wilson, a volte quasi completi, a volte appena accennati, ma tutti carichi di quel suo istintivo ed innegabile talento. Il medley All My Love/Ecology è a dir poco spettacolare, seguito a ruota da Old Movie, versione primordiale senza parole di Cuddle Up, poi nel successivo CARL & THE PASSIONS, con commoventi armonie vocali a riempire. Ci sono poi l'intensa Barbara, Behold The Night, il tutto in una sorta di lungo medley dedicato a Dennis, a riprova del suo a lungo ignorato talento, qui finalmente libero di brillare, seppur a distanza di decenni. 

Insomma la carne sul fuoco è tanta, e posso solo immaginare il contenuto del libro allegato al cofanetto fisico, ma si sa, ormai la musica passa dall'essere gratuita all'esser bene di lusso senza  praticamente nulla nel mezzo. Detto ciò, veder finalmente degnamente celebrate fasi da sempre ignorate e terribilmente sottovalutate della carriera dai Beach Boys non può che render felice un fan come il sottoscritto, e se da un lato ho comunque la certezza che ad interessarsi saranno principalmente gli appassionati che già conoscono molte di queste cose, dall'altro una piccola parte di me spera che qualcun altro possa finalmente scoprire quanto questa band aveva da offrire ai tempi. Quindi, non posso che consigliare l'ascolto a chiunque, fan e non; e ora aspettiamo di vedere cosa accadrà con la fase successiva. 

giovedì 2 settembre 2021

Micky Dolenz - Dolenz Sings Nesmith (2021) Recensione


Uno dei due Monkees superstiti alle prese con un album di cover di brani composti dall'unico altro membro dei Monkees superstite? Sì, avete letto bene, e sì, si tratta della migliore uscita discografica Monkees-related da molti anni a questa parte. Ma andiamo con ordine.

Micky Dolenz è da sempre dotato di una voce spettacolare, criminalmente sottovalutata nel panorama musicale pop-rock, incredibilmente versatile e potente ancora oggi; Michael Nesmith invece, nonostante ancora oggi c'è chi vede i Monkees come dei semplici attori che facevano finta di suonare, è da sempre un compositore con i contro-cosiddetti, sia all'interno della suddetta band che nella sua sottovalutata carriera solista più di stampo country. L'idea è quindi stata quella di selezionare una manciata di brani ad opera di Nesmith, riarrangiarli (a volte anche pesantemente, grazie al contributo di Christian Nesmith, produttore e figlio di Michael), e riproporli con la voce di Dolenz. Il tutto con un titolo ed una copertina che rimanda a quel capolavoro di NILSSON SINGS NEWMAN di Harry Nilsson, quest'ultimo grande amico di Dolenz. Se a ciò aggiungiamo una spettacolare produzione che sfodera grande dinamica ed assenza di autotune (sì, guardo proprio te, GOOD TIMES!), ed il che oggi è una rarità in qualunque genere, le premesse per un piccolo capolavoro ci sono tutte!

Certo, non aspettatevi le hit dei Monkees riproposte in diversa veste, qui solo una manciata di brani dell'epoca trovano posto, e sono relativi "deep cuts", il resto proviene dalla carriera solista di Nesmith. Ad aprire tocca a Carlisle Wheeling, brano del 1967 scartato da THE BIRDS, THE BEES & THE MONKEES, che mantiene il suo andamento country, ma viene arricchito da un'introduzione di quartetto d'archi ed intermezzi psichedelici tanto inaspettati quanto benvenuti. Tocca poi a Different Drum, brano storico di Nesmith reso famoso da Linda Ronstadt, rirpoposto abbastanza fedelmente, giusto un po' più ritmato, mentre Don't Wait For Me, dall'album INSTANT REPLAY dei Monkees, è qui riarrangiata solo per chitarra e voce con ritmo più sostenuto. Con Keep On facciamo un salto nel pieno degli anni '70, dall'album AND THE HITS JUST KEEP ON COMING, tipico brano country qui con un arrangiamento ben più potente e grandioso, più rock, con un organo Hammond in evidenza ed il bell'effetto Leslie sulla voce nei ritornelli: una grande versione. Discorso al rovescio per Marie's Theme, dal successivo album PRETTY MUCH YOUR STANDARD RANCH STASH, che qui perde l'Hammond, si colora di strumenti acustici, un ritmo diverso ed una spettacolare lap steel ben in evidenza. La bellissima Nine Times Blue, scarto dei Monkees datato 1968 poi riproposto da Mike nel suo album MAGNETIC SOUTH, qui è stata riarrangiata solo per piano e voce, con una spettacolare performance di Dolenz, e messa in totale contrasto, senza alcuna pausa, con la successiva Little Red Rider, tratta dallo stesso album e qui indurita non poco, trasformata quasi in un brano hard rock con tanto di assolo di Hammond a la Deep Purple. Con questi due brani, senza nulla togliere ai precedenti, l'album inizia a prendere quota verso livelli altissimi. Tomorrow And Me, di nuovo da AND THE HITS..., è una gradita pausa per tirare il fiato, rallentata e con un bellissimi interventi di violino, prima dell'entrata di Circle Sky. Uno dei brani di punta del controverso e folle HEAD dei Monkees, qui è pesantemente stravolto e trasformato in una sorta di raga indiano, scelta tanto coraggiosa quanto incredibilmente riuscita, che oltretutto aggiunge ulteriore varietà e colore sonoro ad un album la cui produzione ed arrangiamenti già fin qui erano stati da applausi. Propinquity (I've Just Begun To Care), altro scarto dei Monkees di stampo country del 1968, poi riproposto da Nesmith nell'album NEVADA FIGHTER  del 1971, qui si guadagna un andamento più pop-rock radiofonico, ed è un'altra gradita pausa prima dell'altro indiscutibile capolavoro dell'album. Tapioca Tundra è sempre stato uno dei più bei brani composti da Nesmith, presente in THE BIRDS, THE BEES & THE MONKEES del 1968, qui viene riproposto in un arrangiamento che definire eclettico sarebbe riduttivo. Dopo un inizio sospeso con tanto di theremin il brano decolla cambiando continuamente tempo tra 3/4 e 4/4, con un Dolenz in formissima, bellissimi cori che entrano ed escono in continuazione, ed un finale epico che sembra quasi uscire da ABBEY ROAD dei Beatles. Difficile dare seguito ad un brano del genere, ma ci prova Only Bound, di nuovo da NEVADA FIGHTER, altro bellissimo brano country qui rallentato e disteso, quasi come la calma dopo la tempesta, seppur a sua volta vanti inaspettati interventi corali (colorati di Leslie), che accompagnano il brano alla chiusura sfumando tra fiumi di phaser, per poi trasformarsi in You Are My One (l'originale, da TANTAMOUNT TO TREASON, VOLUME ONE del 1972, era a sua volta immersa nel phaser), qui solamente citata per poco più di un minuto quasi come una ripresa dopo il falso fade-out di Only Bound. Un'altra inaspettata trovata che chiude un altrettanto inaspettato piccolo capolavoro di album.

Devo ammettere che gli album di cover raramente mi interessano: devo essere fissato con l'interprete che decide di farlo, mi devono perlomeno piacere o interessare le canzoni reinterpretate, devono avere qualcosa in più da offrire nella loro nuova veste, insomma non è un'operazione facile. LONG WAVE di Jeff Lynne, nella sua estrema brevità, rimane uno dei miei preferiti, mentre il recente IN TRANSLATION di Peter Hammill, con tutto il rispetto, personalmente l'ho trovato di una tristezza tanto di moda di sti tempi quanto odiata dal sottoscritto (abbiamo veramente bisogno di altra negatività di sti tempi?). Limiti miei, senza dubbio, ma DOLENZ SINGS NESMITH è una gioia dal primo ascolto, ed una volta ultimato viene immediatamente voglia di rimetterlo da capo. Si dimostra in grado sia di ribadire le doti compositive di Michael Nesmith, sia quelle interpretative di Micky Dolenz, tutt'altro che intaccate dall'età. Un album passato enormemente in sordina anche per via della perdurante (e falsa) fama di "non musicisti" che ancora oggi grava sulla musica ed i membri dei Monkees. Un plauso va poi fatto a Christian Nesmith, la cui produzione e gli arrangiamenti "fanno" l'album tanto quanto la voce di Dolenz, e gli regalano un suono caldo, potente e vario che pochissimi album di nuova uscita possono vantare. 

Probabilmente una delle più inaspettate e gradite sorprese discografiche di quest'anno. Consigliatissimo a chiunque ami la musica in generale. 

domenica 29 agosto 2021

Circulatory System - Circulatory System (2001) Recensione speciale per il ventesimo anniversario

Esattamente vent'anni fa usciva un album leggendario, difficile da descrivere a parole, e degno di essere ascoltato da chiunque. Ma andiamo con ordine.

Gli Olivia Tremor Control, dopo l'uscita di BLACK FOLIAGE: ANIMATION MUSIC, VOLUME ONE ed il relativo tour di supporto nel 1999, non esistevano più, e le due anime principali della band, Will Hart e Bill Doss, si erano separate. Gli OTC, insieme ai Neutral Milk Hotel, furono probabilmente il gruppo bandiera del collettivo di musicisti di Athens, l'Elephant 6 Recording Company, quello da cui tutto partì, da cui nacque una famiglia via via sempre più larga, poi diventata uno dei maggiori simboli del cosiddetto indie degli anni '90. I loro due album sono dei perfetti esempi di come il pop di fine anni '60, già di per sé molto eclettico, potesse essere mescolato sapientemente con molto altro, dando spazio a momenti al limite dell'avanguardia, a rappresentazioni sceniche ispirate al dadaismo, e ad ispirazioni anche prese da periodi successivi (come il krautrock). Hart e Doss si bilanciavano perfettamente, e seppur in superficie potesse sembrare che il primo fosse colui più avvezzo alle sperimentazioni ed il secondo il più incline al pop beatlesiano, in realtà le due cose spesso si mescolavano e si sovrapponevano. 

Dunque, con Doss impegnato nei suoi Sunshine Fix, Hart, spinto anche da molti suoi amici musicisti, decise di formare una “nuova” band, e così nacquero i Circulatory System. La formazione ruota, ovviamente, intorno alla figura di Will Hart, ma ad ad accompagnarlo trovano posto ex membri degli OTC come John Fernandez al basso, clarinetto e violino e Pete Erchick alle tastiere, basso ed ukulele (all'epoca impegnato anche con la sua band Pipes You See, Pipes You Don't, il cui omonimo album d'esordio è un altro ascolto caldamente consigliato), insieme ad amici e fissi collaboratori della "famiglia" dell'Elephant 6, come Jeff Mangum e Julian Koster, Scott Spillane, Heather McIntosh: la lista è decisamente lunga e variegata (anche per via dell'enorme varietà di strumenti utilizzati).

Con un nome che sembra riferirsi alla visione del tempo come ciclico (tema che troverà anche spazio nell'album d'esordio), nel 2001 pubblicano il loro primo album sotto la loro nuova etichetta, la Cloud Records, con una copertina che sovrappone quelle dei due album degli OTC (entrambe realizzate da Hart, così come il logo dell'Elephant 6). Se in questi ultimi le due “tendenze”, quella pop e quella più strettamente sperimentale, sembravano alternarsi rimanendo il più delle volte separate (seppur già in BLACK FOLIAGE gli estremi iniziarono a fondersi), in questo album il tutto viene combinato e sovrapposto in modo magistrale, creando un'amalgama sonora di stampo onirico, ma in realtà difficilmente definibile. Gli elementi alla base sono prevalentemente gli stessi dietro agli album degli OTC, ma è impossibile non notare una evidente evoluzione ed affinamento del talento compositivo di Hart. Si va da elementi prettamente lo-fi, frutto di registrazioni casalinghe, ad inaspettate entrate di strumenti registrati in migliore qualità, spesso in gran quantità (stando ad Hart, un brano come The Peek ha necessitato di 55 tracce) e con abbinamenti audaci (specie nell'uso di fiati come il clarinetto e nell'importante presenza del violoncello). Ci sono una enorme quantità di melodie memorabili e trovate geniali che si riveleranno in tutto il loro splendore solo dopo ascolti ripetuti, tale è la densità della musica qui contenuta, spesso frutto di una istintività irripetibile su cui si sono costruite ambiziose strutture sonore. Il tutto scorre senza pausa in una ideale suddivisione in due lati, con la voce sussurrata di Hart (ed i cori degli innumerevoli ospiti) ad accompagnare l'ascoltatore attraverso brani dal notevole spessore filosofico, ma sempre con un risvolto positivo. Proprio per questa sua natura è difficile isolare singoli brani, seppure ci siano sezioni come Joy, o l'iniziale Yesterday's World, o anche l'apparentemente più complessa Inside Blasts, che non è difficile ritrovarsi a canticchiare dopo pochi ascolti. I temi affrontati sono piuttosto complessi: il già citato tempo ciclico, la coscienza collettiva, l'universo dentro di noi, il tutto però è esposto in un modo semplice, con una visione quasi infantile. La conclusione di Forever (il mantra “We will live forever and you know it's true”), così come il messaggio di Joy (“If you still believe in joy, even if the world is full of hate, we can blast away inside”) fanno intuire come il fine ultimo sia invitare ad una visione positiva del mondo, in quanto solamente così potremo vivere per sempre. 

                                             

Ci sono droni, canti dal sapore tribale, nastri manipolati, messaggi nascosti e chissà quant'altro, ma il risultato finale è difficile definirlo in altro modo se non pop. Un pop certamente particolare, a tratti sinfonico, notturno, con un ché di rituale, ma colorato, mai pesante. Ed è infatti qui che l'album eccelle, nel suo dimostrare concretamente l'ampiezza e la profondità che il genere pop e l'auto-produzione possono ottenere, allora come, forse ancor di più, oggi. E se in molti quando si parla di questo genere di album ispirati agli anni '60 tirano fuori SGT. PEPPER come riferimento, in realtà l'album che ha avuto un forte impatto su questa musica, nella sua non-esistenza (uscirà ufficialmente in varie forme solo più recentemente, fino ad allora esisteva solamente in bootleg di cui i fan creavano mix personali), è SMILE dei Beach Boys, la cui frammentarietà e mistero hanno lasciato un segno profondo in questi musicisti e nei relativi lavori. Scendendo più in profondità poi non si fa troppa fatica a percepire influenze provenienti dal sunshine pop, genere oggi alquanto bistrattato ma carico di idee interessanti ed uniche, la cui complessità, a volte anche di ispirazione jazz, è tutt'altro che apparente, proprio come nell'album in questione. Album la cui positività ed il suo già citato approccio quasi "da rituale" sono in grado di colpire l'ascoltatore in modo forte ed inaspettato, e ciò è qualcosa di cui, in questi tempi prevalentemente negativi anche in campo artistico, si ha disperatamente bisogno. 

CIRCULATORY SYSTEM è un album celebrato da alcuni (Pitchfork, ad esempio, non si trattenne nell'uso di termini entusiastici alla sua uscita), ma generalmente poco considerato al di fuori del suo “circolo”, spesso messo in ombra dall'ingombrante eredità degli OTC (a loro volta comunque troppo poco considerati, e spesso per i motivi sbagliati). Uscì all'epoca solamente in CD, mentre nel 2020 ha visto la sua prima pubblicazione su doppio vinile. Seguirà nel 2005 una temporanea reunion degli OTC, dopo il cui nuovo scioglimento arriverà, nel 2009, il secondo album dei Circulatory System, SIGNAL MORNING, un lavoro frutto di un lungo e difficile processo di realizzazione, altrettanto interessante ma a suo modo diverso, di cui ho già parlato qui.

Questa recensione è stata originariamente pubblicata su Open Magazine ed è reperibile a questo link. Qui è stata ampliata.