lunedì 27 dicembre 2021
Top 10 Album 2021
giovedì 16 dicembre 2021
The Beatles - Get Back (2021) Recensione
Dopo un anno di ritardi per motivi che ben sappiamo, ed un cambiamento di forma da semplice film a mini-serie di tre puntate, eccoci finalmente a parlare di Get Back. Fin dall'uscita di Let It Be nel 1970, film che documentava le session in studio dei Beatles di Gennaio 1969 fino al leggendario concerto sul tetto, questo periodo della loro carriera fu sempre visto come l'inizio della fine, dove le tensioni interne iniziarono a logorare i rapporti tra i quattro in modo irreversibile; e se da un lato ciò è innegabile, dall'altro Get Back mostra anche molti bei momenti, alcuni addirittura leggendari, che rendono questa mini-serie un imprescindibile documento storico.
Ma andiamo con ordine. Le It Be, il film originale, è ormai da tempo fuori catalogo, pressoché impossibile da trovare, ma essenziale per capire l'importanza di questo nuovo Get Back, quindi non posso non consigliarvi di armarvi di pazienza, esplorare vie non proprio legali e procurarvelo. Detto ciò, Let It Be condensa tre settimane di prove ed il concerto sul tetto in un'ora e venti di film, senza alcun riferimento temporale per quanto riguarda gli avvenimenti su schermo (spesso, infatti, non propriamente in ordine cronologico), con un audio ed un video tutt'altro che eccelsi e, nonostante ometta alcuni "problemi" come l'abbandono temporaneo di George Harrison e i problemi e dubbi sull'organizzazione del concerto sul tetto, il risultato è comunque piuttosto piatto e deprimente.
I tre episodi, sommati, ammontano a circa otto ore di durata, e c'è ovviamente chi si è lamentato dicendo che sono troppe, per chi scrive invece sono appena abbastanza. Certo, bisogna essere fan sfegatati dei Beatles, e non guasta anche quel pizzico di interesse per tutto ciò che riguarda le dinamiche tipiche delle band, il processo di creazione e registrazione di canzoni, magari anche per la Londra di fine anni '60, la cui atmosfera permea ogni momento del film. Si può osservare come, senza alcun dubbio, in quel momento Paul McCartney fosse la forza creativa ed organizzativa trainante, e che probabilmente è solo grazie a lui che in quel momento i Beatles esistevano ancora. La quantità di idee che Paul tira fuori in queste session è impressionante, e si passa da momenti storici come il preciso momento in cui nasce l'idea per il brano Get Back (che passerà poi attraverso diverse versioni e revisioni, tra cui una anti-razzista che da il la alla divertente jam Commonwealth), o le prime volte in cui strimpella The Long And Winding Road e Let It Be al piano, o quando presenta agli altri abbozzi di Golden Slumbers, Carry That Weight, Oh Darling, anche la tanto discussa Maxwell's Silver Hammer... John è sempre la principale fonte di comicità, ma musicalmente parlando è probabilmente il più disinteressato, mentre George avrebbe anche una montagna di idee musicali, ma ben poche vengono considerate. I Me Mine viene derisa da John, All Things Must Pass viene provata ben poco, e ciò unito ai continui ordini su come e cosa suonare da parte di Paul nei suoi confronti, porta al suo abbandono della band alla fine del primo episodio. Dopo un periodo di confusione, il suo ritorno è concordato a condizione di spostarsi dai freddi studi di Twickenham al nuovo studio alla Apple di Savile Row, che dopo qualche problema viene finalmente allestito. In tutto ciò non mi sono dimenticato di Ringo, che per tutto il film è semplicemente Ringo: poche parole, tanto ascolto e performance solide come una roccia alla batteria, tanto che quasi mai nessuno gli dice cosa fare. A quel punto ancora non si sa come far finire questo film, che doveva essere uno special tv ma non lo è più; forse un concerto, non si sa bene dove, si vedrà.
Siamo di fronte ad un documento storico, poi si può discutere quanto si vuole sulle scelte effettuate nel montaggio, sulla presenza o meno di questa o quella parte, ma ricordiamoci che per mezzo secolo si è avuto solo il film Let It Be, l'album e i bootleg per farci un'idea di quel periodo (certo, anche Let It Be Naked, che probabilmente ad oggi rimane la migliore versione dell'album, pur essendo un remix posticcio), e l'idea che ci si era fatti era di un periodo buio, triste, difficile. Beh, da quel periodo buio, triste e difficile sono state realizzate otto ore di filmati intensi, divertenti, interessanti, storici, e non penso che si possa chiedere di più.
lunedì 29 novembre 2021
The Darkness - Motorheart (2021) Recensione
Puntuali come un orologio svizzero, due anni dopo EASTER IS CANCELLED, i Darkness ritornano con un nuovo album, il loro settimo. Preceduto da ben quattro singoli (troppi a mio parere, ma ormai questa è la tendenza per chiunque), MOTORHEART si propone, stando alle parole del cantante Justin Hawkins, come un album che nulla ha a che fare con l'attuale situazione mondiale, ma bensì come una divertente raccolta di canzoni perfette per distogliere l'attenzione dalla deprimente realtà. Con questa premessa, non possono non aver guadagnato la mia attenzione!
Dunque, che dire in conclusione su questo MOTORHEART? Beh, come già fu per EASTER IS CANCELLED, la sensazione è che l'inarrestabile parabola ascendente iniziata dalla reunion del 2012 ha raggiunto il suo culmine con PINEWOOD SMILE, dove il sound della band già (ri)formato in LAST OF OUR KIND ha piano piano (ri)guadagnato l'ispirazione che aveva caratterizzato i primi due album nel decennio precedente, prima dello scioglimento. Da lì i Darkness hanno continuato, con questi ultimi due album, a sfornare ottimo rock divertente come solo loro oggi sanno fare, mostrandosi però giusto un po' meno ispirati rispetto al passato. In PINEWOOD c'erano brani come The Buccaneers Of Hispaniola, Southern Trains, Japanese Prisoner Of Love, tutti brani spassosi che musicalmente sono da antologia dell'hard rock, mentre già in EASTER questo si notava meno, mostrando infatti un bella differenza tra l'apertura di Rock and Roll Deserves To Die e brani, seppur ottimi, come Heart Explodes e In Another Life. In MOTORHEART non ci sono brani minori, ma forse neanche granché di "maggiore", seppur la title track e Speed Of The Nite Time ci provino e le altre si lascino ascoltare con gran piacere. Insomma, è difficile dare una valutazione, in quanto l'album è buono se non ottimo, ma non ha (ancora) fatto innamorare il sottoscritto come gran parte dei loro lavori precedenti.
Poi, detto fra noi, i Darkness sono sempre i Darkness, se vi piacevano prima vi piaceranno anche ora, mentre se li odiavate, a parte che vi consiglierei di farvi controllare il battito cardiaco, non cambierete idea ora.
mercoledì 17 novembre 2021
Michael Nesmith & The First National Band - Loose Salute (1970) Recensione
Pubblicato appena cinque mesi dopo MAGNETIC SOUTH, LOOSE SALUTE ripropone, in un certo senso, la formula già vista nel precedente album. Nesmith e la sua band continuano ad esplorare le sonorità country rock, ed in generale il sound si fa via via più "formato" e convinto, proprio come una vera e propria band affiatata.
Indubbiamente è un album che continua in modo più o meno lineare ciò che era stato introdotto da MAGNETIC SOUTH, ma lo fa in modo un pelo più eterogeneo, a volte imprevedibile. La band offre performance sempre di altissimo livello, ed il lavoro alla pedal steel di Red Rhodes è, se possibile, ancora più incredibile e carico di inventiva che nel precedente; ma un plauso va, ovviamente, a Nesmith stesso, sia come compositore che come cantante (ascoltare le sue tracce vocali sovrapposte in Lady Of The Valley per capire cosa intendo). I testi sono meno filosofici e profondi, più legati a temi "terreni", ed i brani più ritmati mostrano un indurimento del sound che aggiunge varietà al mix, mentre la produzione di Nesmith migliora, inaspettatamente, di non poco la resa generale, rendendo l'album meno "vecchio" all'ascolto, pur mantenendo un sound tutt'altro che moderno.
Uno degli album più densi e di alta qualità del catalogo solista di Nesmith e certamente una degna conferma del talento della First National Band, che però avrà, purtroppo, vita breve.
giovedì 11 novembre 2021
Michael Nesmith & The First National Band - Magnetic South (1970) Recensione
Principalmente ricordato per la sua permanenza nei Monkees, Michael Nesmith ha sempre dimostrato di essere quello più portato alla composizione nella band. Già anni prima la sua Different Drum fu resa famosa da Linda Ronstadt, e dal primo album dei Monkees in poi non mancarono mai sue composizioni negli album, da Papa Gene's Blues fino a capolavori come What Am I Doing Hangin' Round, Tapioca Tundra, Circle Sky e Listen To The Band. Non per nulla già nel 1968 uscì un album a nome suo, THE WICHITA TRAIN WHISTLE SING, che però, in linea con la sua lucida follia, era composto da riarrangiamenti in stile big band di suoi brani.
Nel 1970 Nesmith abbandonò i Monkees e formò la First National Band, composta da lui stesso alla voce e chitarra, John London al basso, John Ware alla batteria e O.J. "Red" Rhodes alla chitarra pedal steel. Il primo album con questa band, MAGNETIC SOUTH, uscì quell'anno e fu, secondo molti, uno dei primi e fondamentali esempi di album totalmente country rock, genere che combinava il vecchio stile country con le più moderne sonorità pop-rock. Esempi di questo stile ce ne furono già negli anni '60, fin da certe cose di Dylan, dei Beatles o dei Byrds, ma solo negli anni '70 si affermò definitivamente come genere.
Di solito il country è un genere prevedibile, spesso banale, negli anni via via sempre più spudoratamente commerciale, ma qui è diverso. Non nascondo il mio apprezzamento per band come Eagles o America, ma lo stile compositivo di Nesmith ha quel che di imprevedibile, pur con i suoi riconoscibili canoni, che lo piazza in uno spazio tutto suo, in linea con le tendenze dei tempi (forse anche un po' in anticipo), ma con caratteristiche proprie inconfondibili, specialmente per quanto riguarda le sequenze armoniche. Un album a suo modo leggendario, a riprova del fatto che nei Monkees c'era anche tanto talento e non solo superficiale apparenza.
Consigliato soprattutto agli appassionati di musica country, ma non solo.
lunedì 25 ottobre 2021
Circulatory System - Mosaics Within Mosaics (2014) Recensione
Dopo l'incredibilmente denso SIGNAL MORNING, uscito nel 2009 tra numerose difficoltà (ne ho parlato qui), dovettero passare altri cinque anni per poter ascoltare il terzo, e ad oggi ultimo, album dei Circulatory System, un ritorno al formato doppio, proprio come l'incredibile ed irripetibile esordio datato 2001.
Tra l'uscita del secondo album e quella del terzo hanno fatto in tempo a riunirsi gli Olivia Tremor Control, ad andare in tour per un paio di anni, pubblicare un singolo e lavorare ad un nuovo album, purtroppo ad oggi ancora inedito. L'inaspettata ed improvvisa morte di Bill Doss ha causato un ovvio cambio di piani, e così Hart tornò ai suoi Circulatory System, dedicando a Doss questo MOSAICS WITHIN MOSAICS.
I musicisti coinvolti sono a grandi linee gli stessi degli album precedenti, così come i numerosi ospiti, tutti parte della grande famiglia che è l'Elephant 6. Di nuovo, l'album è costruito intorno ad una moltitudine di frammenti ad opera di Will Hart, spesso di natura casalinga, sia recenti che risalenti a chissà quanti anni prima, poi in alcuni casi rivisti in un arrangiamento più "di gruppo". L'album, come detto, si può considerare come doppio per via della sua durata di circa un'ora, e la suddivisione delle tracce su quattro ideali "lati" è lì a testimoniarlo. L'impressione ad un primo ascolto, specialmente se confrontato al precedente SIGNAL MORNING, è quella di un lavoro più "disteso", con tutti gli elementi sonori familiari, ma laddove nel precedente il tutto sembrava essere sovrapposto, qui ha più respiro. La quantità di idee musicali è comunque impressionante, ma non si ha più l'impressione di dover "scavare" tra decine e decine di tracce (comunque presenti) per scoprire l'ennesima trovata che all'ascolto precedente era sicuramente sfuggita, tanto era alta la densità. Beninteso, la raffica di frammenti musicali tipici dei Circulatory System è presente anche qui, ma con un fare più "rilassato", con meno urgenza e più atmosfera.
Come ormai di consueto, la quantità di idee musicali "bruciate" in pochi secondi lascia a bocca aperta, tanto che chiunque da una sola di quelle idee ci farebbe chissà quante canzoni (tipo i sopravvalutati Oasis), e se ci si concentra a far caso ad ogni singolo particolare l'effetto è a volte stordente, ma mai difficile, ostile, sempre piacevole all'ascolto, come solo il miglior pop sa essere. Hart e compagni si confermano ulteriormente come una delle realtà musicali più interessanti e sottovalutate degli ultimi vent'anni, infinitamente più sostanziose di grandissima parte delle band definibili "neo-psichedeliche", anche se questa definizione andrebbe abbastanza stretta agli album dei Circulatory System. C'è qualcosa in questi album (e in quelli degli Olivia Tremor Control, seppur con qualche differenza) che non è possibile trovare altrove; non è semplice emulazione di un genere, è un genere a sé, con caratteristiche estetiche del pop psichedelico, ma tanto, tanto altro al suo interno. Fatevi un favore ed esplorate la loro discografia, non ve ne pentirete. Nel frattempo, chissà se prima o poi potremo ascoltare il fantomatico terzo album degli OTC...
sabato 18 settembre 2021
Elton John - Regimental Sgt. Zippo (2021 - Registrato nel 1967-68) Recensione
Le prime session ebbero luogo nel Novembre del 1967, periodo in cui venne registrato il brano Nina, e durarono fino ad Aprile dell'anno dopo, periodo in cui Elton fece i suoi primi concerti con il suo nuovo nome d'arte. I brani registrati furono ad un certo punto lasciati da parte, seppur si arrivò effettivamente alla realizzazione di un acetato (aggiudicato per circa 25000 sterline ad un'asta del 2015), preferendo realizzare da zero un altro album, probabilmente su spinta del manager di Elton e Bernie Taupin, che cercò di convincere Dick James (con cui il duo aveva da poco firmato un contratto di publishing) a dare loro la possibilità di affinare il loro nascente talento. Fu così che Elton e Bernie iniziarono a lavorare ad EMPTY SKY, e SGT. ZIPPO rimase negli archivi per più di mezzo secolo.
Forse non un lavoro che avrebbe cambiato la storia della musica se fosse uscito all'epoca, ed è difficile dire quanto avrebbe influito sulla carriera di Elton nel caso. Si nota qualche aspetto ancora acerbo nelle composizioni, ma il risultato non è così lontano da molti album di quel periodo, specialmente inglesi. Sulla produzione non mi esprimo definitivamente, in quanto attendo una versione su CD o perlomeno digitale, vista l'indubbia inferiorità del vinile in termini di resa sonora (ed infatti i brani ascoltati sul JEWEL BOX suonano mediamente meglio), ma l'impressione è di un sound un po' caotico tipico degli album inglesi del periodo (negli USA, tolte le band di natura garage, le produzioni erano tendenzialmente più pulite e curate ai tempi, ovviamente escludendo l'eccezione dei Beatles). Insomma, REGIMENTAL SGT. ZIPPO è una valida ed essenziale aggiunta alla già sostanziosa discografia di Elton John, che permette di comprendere ancora meglio la sua maturazione come compositore (oltre a quella di Bernie Taupin come paroliere), e di ascoltarlo alle prese con uno stile e delle sonorità che mai più toccherà nella sua carriera. Un ascolto consigliato sia ai fan di Elton che a coloro che amano il pop psichedelico anni '60, pur sapendo che ci si troverà per le mani un buon album e non un capolavoro.
lunedì 13 settembre 2021
The Olivia Tremor Control - Music from the Unrealized Film Script: Dusk at Cubist Castle (1996) Recensione
La band nasce nei primi anni '90 dall'incontro di Will Cullen Hart, Bill Doss e Jeff Mangum, tutti con alle spalle una serie di particolarissime registrazioni casalinghe sotto vari nomi. Trasferitisi da Ruston, Louisiana ad Athens, Georgia, iniziarono a suonare con il nome Synthetic Flying Machine, cestinando il precedente Cranberry Lifecycle. Inizialmente con Hart alla chitarra, Doss al basso e Mangum alla batteria, si inserirono nella scena locale differenziandosi dall'imperante grunge grazie al loro sound di ispirazione psichedelica, e ben presto, su suggerimento di Mangum, cambiarono ancora nome in The Olivia Tremor Control. Dopo un primo EP intitolato CALIFORNIA DEMISE pubblicato nel 1994, Jeff Mangum abbandona la band per dedicarsi ai suoi Neutral Milk Hotel (nome suggeritogli da Hart), ed entrano così in formazione John Fernandez, Pete Erchick ed Eric Harris. Hart e Doss lavorarono a molti brani in quel periodo, registrandone vari su cassetta con registratori a 4 tracce, e nel 1995 andarono a Denver, Colorado, ad ultimare le registrazioni del loro primo album, nel Pet Sounds Studio di Robert Schneider (produttore e membro fondatore degli Apples in Stereo, altra figura portante dell'Elephant 6), che poi in sostanza era uno studio casalingo dotato di un registratore ad 8 tracce.
Il surrealismo stava alla base di molte idee della band, dal magnifico artwork che non si limita alla copertina, alle particolarissime esibizioni dal vivo dell'epoca intrise di dadaismo, fino ai testi. E proprio sui testi ci sarebbe molto da dire, in quanto se si guarda agli anni '90 si nota molta negatività, sarcasmo, disillusione in gran parte della musica tipica dell'epoca, specialmente nella prima metà, mentre con gli Olivia Tremor si ha l'esatto opposto. La gioia e positività dei testi di questo album in particolare (ma non solo) lo distingue da molta musica del periodo, ma anche oggi sarebbe alquanto fuori posto, seppur ce ne sarebbe necessità. Parlavamo delle esibizioni dal vivo poco sopra, ed in questa fase iniziale della band più che successivamente, l'imprevedibilità faceva da padrone. Andare ad un loro concerto poteva significare tanto assistere ad una relativamente "normale" esibizione, quanto trovarsi la band alle prese con quartetti vocali a cappella, interi set fatti di sperimentazioni sonore con nastri, a volte coinvolgendo anche il pubblico.
Il furore punk di The Opera House apre l'album con energia, e già mette ben in mostra come gli arrangiamenti, anche di canzoni relativamente semplici come questa, siano densi di suoni di ogni tipo, da effettive parti strumentali, a cori, fino a suoni elettronici, percussioni, a creare un sound orchestrale tendente al caos controllato, tendenza questa che verrà affinata ulteriormente nei loro successivi lavori. Frosted Ambassador deve invece molto a certi brani strumentali dei Beach Boys, con però quell'alone di lo-fi a decorare, quasi come se Let's Go Away For Awhile da PET SOUNDS fosse stata registrata nelle session di SMILEY SMILE. Jumping Fences è il trionfo del pop beatlesiano tanto caro al compianto Bill Doss, un magnifico brano che strizza l'occhio anche a My Sweet Lord di George Harrison. E così, senza neanche accorgersene (i brani sono tutti brevi e densi di idee), eccoci nel pieno di un sound a la REVOLVER con Define A Transparent Dream. La cosa innegabile è che queste ovvie ispirazioni mai finiscono con lo scadere in palesi imitazioni da due soldi (come invece succedeva con i sopravvalutati e contemporanei Oasis), ma anzi sembrano quasi estendere quell'idea iniziale verso nuovi territori, più "storti", onirici, imprevedibili. Già dall'album successivo i riferimenti al passato si faranno decisamente meno evidenti. No Growing (Exegesis) è un perfetto quadretto pop con bellissime armonie vocali con ben poco da invidiare al miglior sunshine pop, mentre la successiva Holiday Surprise è il primo brano suddiviso in parti, in questo caso tre. La prima è un altro spettacolare pezzo pop, la seconda è più atmosferica e sperimentale, mentre il finale è più ritmato ed estremamente coinvolgente, la cui coda strumentale finisce nel totale caos di effetti sonori.
Si torna in pieno in territori sunshine pop con Courtyard, con il suo andamento tra il music hall ed il vaudeville, per poi fare i primi passi verso quella che sarà la sezione più "sperimentale" dell'album con Memories of Jaqueline 1908, che dopo un inizio piuttosto canonico finisce in un mare di kazoo e nastri manipolati, scivolando così in Tropical Bells, trionfo di basso fuzz, percussioni, effetti sonori e chitarre slide degne del miglior Syd Barrett. Tutto ciò porta a Can You Come Down To Us?, brano già presente nelle vecchie cassette dei primi progetti di Will Hart (The Always Red Society), poi notevolmente esteso dal vivo, sede in cui guadagnerà anche un coinvolgente quanto inaspettato beat quasi "disco", qui nell'album appena accennato. Marking Time è un altro bel brano che idealmente chiude la prima parte dell'album in modo sereno e pacato. A questo punto entra la prima delle dieci (!!) parti di Green Typewriters, brano che nella sua totalità supera i 23 minuti ed al suo interno mostra la faccia più avanguardistica degli Olivia Tremor. Attenzione, non siamo di fronte a quasi mezz'ora di suoni e rumori, in quanto le prime parti sono altri frammenti pop di una bellezza assoluta, in particolare la prima parte e la quarta, successivamente il brano inizia gradualmente a discendere verso il puro collage sonoro, il cui picco si ha nei 9 minuti dell'ottava sezione. Con un colpo di genio la nona parte entra senza preavviso con Hart a chiedere "how much longer can I wait?", per poi lasciar spazio ad un bell'assolo di chitarra liberatorio sfociante in altri nastri manipolati ad introdurre il finale acustico.
Un brano che sicuramente va ascoltato essendo nel giusto "mood", ma la cui costruzione risulta a dir poco magistrale, mettendo anche ben in mostra, forse più di ogni altro brano in questo album, la natura lo-fi di molte delle canzoni qui presenti. Una suite nel vero senso del termine, tra il pop e l'avanguardia, squisitamente psichedelica.
La creatività contenuta in questi 74 minuti di musica e suoni, uniti a tutto ciò che sta intorno e completa l'esperienza di ascolto, è qualcosa di raro se non unico. Il pop nella sua più alta espressione, quella della fine degli anni '60, sia inglese che americano, qui è alla base di una visione allargata, quasi totale della musica, senza però alcun senso di serietà, superiorità, ma anzi con tanta istintività e pura gioia. Gli aspetti più sperimentali verranno senza dubbio meglio implementati nel loro successivo album, ma già qui si incastrano nel contesto sonoro in modo inaspettatamente naturale e non troppo forzato, quasi come se l'anima pop di gran parte dei brani fosse già nativamente pronta ad accogliere certe "derive", a conferma delle possibilità sostanzialmente illimitate di certa musica, mai intrappolata in esibizioni tecniche fine a se stesse e totalmente scevra da ogni forma di ego. Il modo in cui le melodie memorabili dei brani iniziali catturano l'attenzione dell'ascoltatore per poi, molto gradualmente, trasportarlo in sezioni d'avanguardia è magistrale, tanto che l'unico altro esempio che mi viene in mente è il WHITE ALBUM dei Beatles, nel modo in cui si arriva alla già citata Revolution 9, ma anche lì non era così graduale e naturale. Un album che 25 anni dopo la sua uscita è ancora in grado di ispirare ed insegnare molte cose, e che chiunque dovrebbe ascoltare almeno una volta nella vita, perché in fondo tutti avremmo bisogno di positività, di mondi alternativi, di dar peso ai nostri sogni, di prendersi un po' meno sul serio; questo album offre tutto ciò, e anche di più.
Vi lascio il loro sito ufficiale, che vi consiglio caldamente di visitare per capire ancora meglio la filosofia della band.
What I need is space
And lots of it
Tons and tons of rooms
And lots of them
I'll paint them green and red
And thirty six colors to custom mix
A collection of rugs with tons of tiny tassles
Sharp lines decorative designs
A place to harmonize away from conventional life
A place to radiate
A place to be just me
Return again and again to the giant day inside of my head
Tons and tons of ideas that never take off
It causes the untime
It's all on a different level
And there's so many
The stages are set
Everything is ready
Let the future come
Let the future linger on
Da Green Typewriters
lunedì 6 settembre 2021
The Beach Boys - Feel Flows - The Sunflower & Surf's Up Sessions 1969-1971 (2021) Recensione
Dopo un'odissea durata due anni fatta di ritardi, dubbi e chissà quant'altro, finalmente uno dei cofanetti più attesi da molti ha visto la luce. Quando si parla dei Beach Boys di solito si tende a pensare alla loro prima fase surf, magari a PET SOUNDS, al massimo a SMILE, ma il periodo immediatamente successivo tende ad essere ignorato, a torto, dalla stragrande maggioranza della gente. La fase, in un certo senso, DIY formata da SMILEY SMILE, WILD HONEY e FRIENDS dimostra come la band stesse tentando altre vie in modo estremamente personale e, sotto vari aspetti, innovativo. Brian Wilson era tutt'altro che un eremita in quegli anni, ma è anche vero che il crescente contributo dei compagni di band ha fatto sì che il leader indiscusso fino a quel momento diventasse quasi semplicemente "un altro membro dei Beach Boys". Dennis Wilson sbocciò inaspettatamente come compositore, lo stesso, seppur in misura minore, successe per il fratello Carl, che contribuì molto anche come produttore, più spazio venne dato a Bruce Johnston, e anche Al Jardine e Mike Love non rimasero indietro. 20/20 nel 1969 fu un album di gruppo più di ogni altro prima, e questa tendenza proseguì, con risultati ancora migliori, in SUNFLOWER.
Dopo un complicato periodo caratterizzato dal passaggio dalla Capitol alla Warner, da un cambio di manager, da una serie di album rifiutati e da chissà quant'altro, questa fase della band è forse la più sottovalutata in assoluto (consiglio, se interessati, la lettura del mio libro The Beach Boys & Brian Wilson - Le Opere Perdute, in cui scendo più nel dettaglio anche su questo periodo, seppur parte del contenuto risulti ora un po' obsoleto alla luce delle rivelazioni di questo boxset). SUNFLOWER fu un fallimento commerciale, mentre il successivo SURF'S UP suscitò un po' più di interesse, se non altro per l'inclusione dell'omonimo brano proveniente dalle session di SMILE; ma ciò non toglie il fatto che questi due album furono irreperibili per interi decenni, in quanto non considerati degni d'interesse abbastanza da esser tenuti in vendita.
Questo criminale errore di valutazione, per fortuna, è stato rettificato negli anni, fino ad oggi, con questo FEEL FLOWS che celebra degnamente questa fase della storia dei Beach Boys.
Premessa: non posseggo il cofanetto fisico, quindi parlerò del contenuto musicale così come appare nei siti di streaming.
Ulteriore premessa: non recensirò gli album SUNFLOWER e SURF'S UP in quanto presumo che chi legge questo articolo già li conosca e, soprattutto, perché meriterebbero eventualmente più spazio individualmente.
Dunque, il contenuto è suddiviso in cinque dischi, andiamo a vederli ad uno ad uno.
DISCO 1
DISCO 2
Come nel primo, troviamo innanzitutto la versione rimasterizzata di SURF'S UP, poi qualche traccia live e altre bonus. In questo caso il nuovo master non è brillante come quello di SUNFLOWER, ed il che è un'ottima cosa. Le tracce live sono di nuovo ottime, e spiccano senza dubbio una energica versione di Long Promised Road datata 1972 ed una inaspettatamente fedele Surf's Up datata 1973 (a riprova della spettacolare veste live della band in quegli anni, che speriamo venga adeguatamente celebrata nel prossimo cofanetto). Tra le bonus è benvenuta la prima versione di Big Sur (poi rielaborata in HOLLAND) finalmente in ottima qualità, la particolare Sweet And Bitter, la esilarante ed oscura My Solution, e poi il trittico di composizioni di Dennis Wilson 4th of July, Sound Of Free e Lady (Fallin' In Love), primo esempio del suo sottovalutatissimo (in questa fase) talento. Su questo ultimo punto vorrei far notare che in SUNFLOWER ci sono quattro brani di Dennis, in SURF'S UP nessuno, ma come iniziamo a vedere qui e vedremo anche più avanti, il materiale non mancava affatto.
DISCO 3
In questo CD troviamo una lunga serie di estratti dalle session di SUNFLOWER e relative tracce bonus. Quindi via a versioni alternative, strumentali, a cappella, primordiali, false partenze, e chi più ne ha più ne metta. Impossibile scendere nel dettaglio, ma basti dire che il disco offre un affascinante ed inedito punto di vista sull'album. Le session di Forever, la sezione archi isolata di Our Sweet Love, la versione estesa di This Whole World, tutti gli estratti delle armonie vocali, c'è veramente tanto di cui gioire.
DISCO 4
Stesso discorso, questa volta per SURF'S UP. Particolarmente interessante rivalutare brani come Don't Go Near The Water e Take A Load Off Your Feet grazie a queste versioni dove si possono apprezzare strumenti e voci separatamente, mentre la versione estesa di 'Till I Die, seppur non raggiunga l'originale, è uno spettacolo, e vanta oltretutto anche un inedito testo alternativo. In questo disco trovano spazio anche una manciata di ulteriori tracce bonus, come il capolavoro (Wouldn't It Be Nice To) Live Again in versione estesa a quasi 7 minuti, brano di Dennis che inizialmente avrebbe dovuto chiudere l'album, poi scartato in favore di Surf's Up, la curiosa e briosa I Just Got My Pay, Walkin' (uno dei primi esempi della fissazione di Brian Wilson per il brano Shortenin' Bread) e la bellissima Awake.
DISCO 5
Insomma la carne sul fuoco è tanta, e posso solo immaginare il contenuto del libro allegato al cofanetto fisico, ma si sa, ormai la musica passa dall'essere gratuita all'esser bene di lusso senza praticamente nulla nel mezzo. Detto ciò, veder finalmente degnamente celebrate fasi da sempre ignorate e terribilmente sottovalutate della carriera dai Beach Boys non può che render felice un fan come il sottoscritto, e se da un lato ho comunque la certezza che ad interessarsi saranno principalmente gli appassionati che già conoscono molte di queste cose, dall'altro una piccola parte di me spera che qualcun altro possa finalmente scoprire quanto questa band aveva da offrire ai tempi. Quindi, non posso che consigliare l'ascolto a chiunque, fan e non; e ora aspettiamo di vedere cosa accadrà con la fase successiva.
giovedì 2 settembre 2021
Micky Dolenz - Dolenz Sings Nesmith (2021) Recensione
Micky Dolenz è da sempre dotato di una voce spettacolare, criminalmente sottovalutata nel panorama musicale pop-rock, incredibilmente versatile e potente ancora oggi; Michael Nesmith invece, nonostante ancora oggi c'è chi vede i Monkees come dei semplici attori che facevano finta di suonare, è da sempre un compositore con i contro-cosiddetti, sia all'interno della suddetta band che nella sua sottovalutata carriera solista più di stampo country. L'idea è quindi stata quella di selezionare una manciata di brani ad opera di Nesmith, riarrangiarli (a volte anche pesantemente, grazie al contributo di Christian Nesmith, produttore e figlio di Michael), e riproporli con la voce di Dolenz. Il tutto con un titolo ed una copertina che rimanda a quel capolavoro di NILSSON SINGS NEWMAN di Harry Nilsson, quest'ultimo grande amico di Dolenz. Se a ciò aggiungiamo una spettacolare produzione che sfodera grande dinamica ed assenza di autotune (sì, guardo proprio te, GOOD TIMES!), ed il che oggi è una rarità in qualunque genere, le premesse per un piccolo capolavoro ci sono tutte!
Devo ammettere che gli album di cover raramente mi interessano: devo essere fissato con l'interprete che decide di farlo, mi devono perlomeno piacere o interessare le canzoni reinterpretate, devono avere qualcosa in più da offrire nella loro nuova veste, insomma non è un'operazione facile. LONG WAVE di Jeff Lynne, nella sua estrema brevità, rimane uno dei miei preferiti, mentre il recente IN TRANSLATION di Peter Hammill, con tutto il rispetto, personalmente l'ho trovato di una tristezza tanto di moda di sti tempi quanto odiata dal sottoscritto (abbiamo veramente bisogno di altra negatività di sti tempi?). Limiti miei, senza dubbio, ma DOLENZ SINGS NESMITH è una gioia dal primo ascolto, ed una volta ultimato viene immediatamente voglia di rimetterlo da capo. Si dimostra in grado sia di ribadire le doti compositive di Michael Nesmith, sia quelle interpretative di Micky Dolenz, tutt'altro che intaccate dall'età. Un album passato enormemente in sordina anche per via della perdurante (e falsa) fama di "non musicisti" che ancora oggi grava sulla musica ed i membri dei Monkees. Un plauso va poi fatto a Christian Nesmith, la cui produzione e gli arrangiamenti "fanno" l'album tanto quanto la voce di Dolenz, e gli regalano un suono caldo, potente e vario che pochissimi album di nuova uscita possono vantare.
Probabilmente una delle più inaspettate e gradite sorprese discografiche di quest'anno. Consigliatissimo a chiunque ami la musica in generale.
domenica 29 agosto 2021
Circulatory System - Circulatory System (2001) Recensione speciale per il ventesimo anniversario
Esattamente vent'anni fa usciva un album leggendario, difficile da descrivere a parole, e degno di essere ascoltato da chiunque. Ma andiamo con ordine.
Gli Olivia Tremor Control, dopo l'uscita di BLACK FOLIAGE: ANIMATION MUSIC, VOLUME ONE ed il relativo tour di supporto nel 1999, non esistevano più, e le due anime principali della band, Will Hart e Bill Doss, si erano separate. Gli OTC, insieme ai Neutral Milk Hotel, furono probabilmente il gruppo bandiera del collettivo di musicisti di Athens, l'Elephant 6 Recording Company, quello da cui tutto partì, da cui nacque una famiglia via via sempre più larga, poi diventata uno dei maggiori simboli del cosiddetto indie degli anni '90. I loro due album sono dei perfetti esempi di come il pop di fine anni '60, già di per sé molto eclettico, potesse essere mescolato sapientemente con molto altro, dando spazio a momenti al limite dell'avanguardia, a rappresentazioni sceniche ispirate al dadaismo, e ad ispirazioni anche prese da periodi successivi (come il krautrock). Hart e Doss si bilanciavano perfettamente, e seppur in superficie potesse sembrare che il primo fosse colui più avvezzo alle sperimentazioni ed il secondo il più incline al pop beatlesiano, in realtà le due cose spesso si mescolavano e si sovrapponevano.
Dunque, con Doss impegnato nei suoi Sunshine Fix, Hart, spinto anche da molti suoi amici musicisti, decise di formare una “nuova” band, e così nacquero i Circulatory System. La formazione ruota, ovviamente, intorno alla figura di Will Hart, ma ad ad accompagnarlo trovano posto ex membri degli OTC come John Fernandez al basso, clarinetto e violino e Pete Erchick alle tastiere, basso ed ukulele (all'epoca impegnato anche con la sua band Pipes You See, Pipes You Don't, il cui omonimo album d'esordio è un altro ascolto caldamente consigliato), insieme ad amici e fissi collaboratori della "famiglia" dell'Elephant 6, come Jeff Mangum e Julian Koster, Scott Spillane, Heather McIntosh: la lista è decisamente lunga e variegata (anche per via dell'enorme varietà di strumenti utilizzati).
CIRCULATORY SYSTEM è un album celebrato da alcuni (Pitchfork, ad esempio, non si trattenne nell'uso di termini entusiastici alla sua uscita), ma generalmente poco considerato al di fuori del suo “circolo”, spesso messo in ombra dall'ingombrante eredità degli OTC (a loro volta comunque troppo poco considerati, e spesso per i motivi sbagliati). Uscì all'epoca solamente in CD, mentre nel 2020 ha visto la sua prima pubblicazione su doppio vinile. Seguirà nel 2005 una temporanea reunion degli OTC, dopo il cui nuovo scioglimento arriverà, nel 2009, il secondo album dei Circulatory System, SIGNAL MORNING, un lavoro frutto di un lungo e difficile processo di realizzazione, altrettanto interessante ma a suo modo diverso, di cui ho già parlato qui.
Questa recensione è stata originariamente pubblicata su Open Magazine ed è reperibile a questo link. Qui è stata ampliata.