sabato 30 marzo 2019

Deep Purple - Live In Long Beach 1971 (2015) Recensione

Sono tante le pubblicazioni live di archivio dei Deep Purple; ovviamente non sono in grado di poter rivaleggiare con quelle dei King Crimson, ma negli anni si è riusciti ad andare a coprire praticamente ogni fase della loro carriera con uscite, perlomeno, rappresentative.
Uno degli anni meno rappresentati tra quelli che si possono vedere come il loro apice a livello creativo (che indicativamente lo si può identificare tra il 1969 ed il 1975) è il 1971. Questo fu un anno strano, di transizione in un certo senso. Il 1970 ha visto i Deep Purple affermarsi con la nuova formazione composta da Ritchie Blackmore, Jon Lord, Ian Paice, Ian Gillan e Roger Glover, la mark 2, grazie a concerti in cui lunghe improvvisazioni occupavano gran parte della scaletta, oltre all'aggiunta di una manciata di brani da In Rock che poi bene o male continueranno ad essere suonati per molto tempo, come Speed King e Child In Time. Facendo invece un salto al 1972, l'anno di Made In Japan, si nota una band più "organizzata", in un certo senso più disciplinata, con improvvisazioni relegate principalmente alla lunga coda di Space Truckin' (la fu coda di Mandrake Root) e l'aggiunta di diversi brani da Machine Head. In mezzo però uscì Fireball, che era un album più "di studio", composto da brani che non erano nati dal vivo, come invece in molti altri casi, e che quindi essendo più difficili da suonare non trovarono posto in scaletta. Nei concerti del 1971 quindi si ha questa sorta di transizione tra le lunghe jam del 1970 e le scalette più organizzate del 1972, con però la sola aggiunta del singolo Strange Kind Of Woman in scaletta, ed in generale una band più affiatata (sporadicamente vedremo anche Fireball come bis, specialmente nel 1972, e sempre dal '72 troverà posto anche The Mule). Per qualche motivo però non esistono molte registrazioni dei concerti di quest'anno, e per fortuna questa uscita del 2015 va a riempire un importante vuoto. Purtroppo non si tratta di una pubblicazione che può vantare una elevata qualità audio, trattandosi di una registrazione soundboard che per anni è circolata come bootleg, e che quindi non può essere remixata per aggiustare i volumi dei singoli strumenti. Per fortuna il tutto è comunque piuttosto ascoltabile, se si sorvola su una generale predominanza di Ian Gillan nel mix a discapito degli strumenti, cosa come detto inevitabile, ed un generale mastering fin troppo spinto, questo invece evitabilissimo.
La scaletta comprende solamente quattro brani, che però vanno dai 10 ai quasi 30 minuti, portando la durata totale a circa 70 minuti. L'apertura è affidata a Speed King, ovviamente estesa da improvvisazioni centrali che la rendono una delle migliori versioni in assoluto, dove dei riusciti dinamismi la rendono molto scorrevole e non soltanto uno schiacciasassi continuo. La novità Strange Kind Of Woman ha già acquisito una forma non dissimile da quella di Made In Japan, con tanto di duetto chitarra-voce nella seconda metà. Qui però, forse essendo appunto ancora una novità, si ha la sensazione che il tutto sia molto più istintivo e meno organizzato, più libero e divertente. Insomma un'altra grande performance, in cui Blackmore pare davvero molto ispirato.
Segue Child In Time, qui ancora in una versione estesa nella parte centrale da un assolo di Jon Lord, arrangiamento proposto fino al 1972 ma abbandonato già all'epoca del Made In Japan. Il mix qui dà davvero troppo spazio a Gillan, che sovrasta letteralmente chiunque specialmente nella classica sezione urlata. C'è da dire che per fortuna, a differenza di altri concerti usciti ufficialmente, qui Gillan è davvero in gran forma, con una voce che sembra non mostrare segni di stanchezza da tour. Anche questa una delle migliori versioni di questo brano, purtroppo penalizzata solamente dal già citato mix. Si conclude con la lunga jam di Mandrake Root, qui suonata ancora con la sua introduzione originale e non ancora sostituita da Space Truckin', anche se la struttura della infinita sezione improvvisata è già piuttosto simile. Quest'ultimo brano è effettivamente abbastanza estenuante all'ascolto, ma contiene comunque delle sezioni decisamente interessanti ed ispirate, che ne giustificano l'ascolto.
Se siete fan dei Deep Purple e di questa formazione in particolare questo live è imperdibile, in quanto ci regala una band al massimo della forma, al costo però di un audio non perfetto. Insieme a Stockholm 1970 ed il Made In Japan ci permette di avere il meglio della classica mark 2 dal vivo negli anni '70.

mercoledì 27 marzo 2019

The Beatles - Live At The BBC / On Air - Live At The BBC Vol. 2 (2013) Recensione

Premetto che ho datato entrambi i volumi al 2013 pur essendo il primo dei due del 1994, in quanto sono in possesso della sua riedizione proprio del 2013, la quale presenta differenze sia nel packaging che nella qualità sonora di alcune canzoni.
Detto questo, trovatomi poco tempo fa davanti ad una relativamente conveniente versione bundle comprendente entrambi i volumi, non potevo esimermi dall'acquisto, essendo un vorace fan degli scarafaggi da una decina di anni almeno.
Ovviamente non si tratta di prodotti fondamentali, e non posso consigliarli più di tanto ad uno che magari neanche ha esplorato la loro discografia "base", ma questo non significa che non possano trattarsi di ottimi prodotti perlomeno interessanti e piacevoli.
Si tratta in sostanza di registrazioni "live in studio" effettuate tra il 1963 ed il 1965, in alcuni casi con qualche sovraincisione posticcia, ma in sostanza è comunque materiale in grandissima parte live. Andando a coprire i primi anni di vita della band, comprensibilmente la maggior parte dei brani presenti sono cover, di cui molte non presenti negli album veri e propri, e quindi di fatto irreperibili altrove. Ovviamente non mancano brani chiave dei primi anni, da Can't Buy Me Love a I Saw Her Standing There a Love Me Do fino a Ticket To Ride, ma si tratta di una minima parte di questi due enormi set. Dico enormi perchè in media ci sono una trentina di tracce per CD, e ogni volume ne contiene due, portando a 4 CD il totale per oltre 4 ore abbondanti di ascolto. Il tutto è strutturato presumibilmente a voler creare un'esperienza di ascolto piacevole, ignorando quindi un qualsivoglia ordine cronologico, ed intervallando le tracce con brevi intermezzi parlati con il deejay di turno e gli stessi Beatles, quasi a voler dare l'impressione di star ascoltando una vera e propria trasmissione radiofonica. La qualità audio per forza di cose non può essere altissima, ma tolti alcuni casi in cui cala vertiginosamente (come in Keep Your Hands Off My Baby nel CD 1 del primo volume), si attesta in un più che ascoltabile mono. Cosa ho molto appressato è la selezione dei brani, che presentano sì delle ripetizioni, ma mai nello stesso CD, ed addirittura mai nello stesso volume. Si possono infatti incontrare due versioni di Lucille, o di Honey Don't, ma una sarà nel primo volume e l'altra nel secondo, permettendoci quindi di goderci un intero volume alla volta senza incontrare la stessa canzone due volte (lusso che non si può avere ad esempio con analoghe uscite dei Led Zeppelin o dei Queen, dove le Communication Breakdown e le Keep Yourself Alive abbondano).
Il primo volume contiene la maggior parte dei brani inediti, con un numero impressionante di cover ed anche una composizione originale a firma Lennon-McCartney irreperibile altrove (I'll Be On My Way); e se da un lato gran parte delle cover sono standard rock and roll molto simili fra loro, dall'altro non si possono ignorare ottime prove come To Know Her Is To Love Her, Soldier Of Love o l'incendiaria Lucille, che non avrebbero affatto sfigurato al fianco di analoghe cover nei primissimi album. Il secondo volume, essendo uscito quasi vent'anni dopo il primo, si accontenta dei "rimasugli", e non può certo far leva su altri brani inediti vista l'ovvia volontà di stiparli tutti nel primo volume ai tempi, finendo quindi per contenere comunque una gran quantità di musica, ma focalizzandosi di più sul materiale degli album, comprendendo anche altre performance di brani presenti nel primo volume e soffermandosi anche sul bistrattato periodo "di mezzo" con brani come I'm A Loser e Words Of Love.
Nel complesso è palese che il primo volume sia il più interessante tra i due, ma anche il secondo si difende bene, andando di fatto ad ampliare e "completare" il primo. Completare fra virgolette in quanto non sono presenti tutte le canzoni suonate dai Beatles alla BBC: tenendo conto sia di nastri smarriti che di ulteriori ripetizioni (a volte un dato brano fu suonato anche 4 o 5 volte), avremmo bisogno di un altro paio di volumi, che finirebbero per essere ridondanti per chiunque non sia un fan più che maniacale.
Ovviamente il tutto non è all'altezza della produzione in studio di quegli anni, né tanto meno di ciò che faranno dal 1965 in poi, ma ci dà la possibilità di avere un punto di vista diverso sul periodo iniziale della band, fatto di "fame", voglia di crescere e nel pieno della beatlemania. Di conseguenza è proprio ai fan di questo periodo che posso consigliare questi due volumi, in quanto chi si aspetta qualche perla nascosta al livello della produzione successiva rimarrebbe piuttosto deluso.
C'è da dire che la sensazione di ascoltare i Beatles alla radio per ore e ore è una cosa che vale quasi da sola il prezzo dell'acquisto...

sabato 16 marzo 2019

Deep Purple - Deep Purple (1969) Recensione

Il terzo ed ultimo album della cosiddetta "mark 1" dei Deep Purple, la prima formazione che oltre a Ritchie Blackmore, Jon Lord e Ian Paice vantava la presenza di Rod Evans alla voce e Nick Simper al basso. Questa fase della band è troppo spesso messa in ombra da ciò che seguirà, dalla mark 2 con Ian Gillan e Roger Glover in poi, ed è caratterizzata da una sorta di suono proto-prog dalle tinte hard che tanto deve all'influenza dei Vanilla Fudge. Non mancano infatti cover varie estese, ispirazioni classiche, ed in generale si ha la sensazione che a guidare il tutto in questa fase fosse Lord, con un Blackmore comunque presente ma ancora non così centrale come sarà successivamente. Ovviamente la presenza di un cantante come Rod Evans impediva ai Deep Purple di buttarsi nel mondo dell'Hard Rock per via del suo stile molto figlio degli anni '60, ben lontano dalle enfatiche urla che tanto caratterizzeranno quel genere a partire dai Led Zeppelin. I primi due album, Shades Of Deep Purple e The Book Of Taliesyn, furono più o meno considerati grazie al singolo di traino Hush, ma questo terzo album, titolato senza troppa immaginazione con semplicemente il nome della band, finì per passare sostanzialmente inosservato. Questo principalmente a causa del fallimento dell'etichetta Tetragrammaton, oltre ad un generale ritardo nella pubblicazione, avvenuta il 21 Giugno 1969 in America e addirittura solo a Settembre 1969 in UK. Se consideriamo il fatto che la nuova formazione dei Deep Purple con Gillan e Glover debuttò in concerto già il 10 Giugno '69, si può capire facilmente quanto poco rilevante fosse a quel punto l'album in questione. 
E tutto ciò è un gran peccato, in quanto se comunque si tratta di un album non così distante dai precedenti, contiene comunque non poche tracce di quel suono più duro che caratterizzerà gli album da In Rock in poi, oltre che una della maggiori consacrazioni di Jon Lord come autore prima del Concerto For Group And Orchestra.
Ma andiamo con ordine, ed iniziamo con il brano di apertura Chasing Shadows. Ritmi tribali supportano l'intero brano in uno stile sostanzialmente unico nella loro discografia, decorati con un solidissimo basso e lancinanti stacchi di chitarra ed organo. La successiva Blind è decisamente più classicheggiante, ad opera principalmente di Lord e caratterizzata dall'uso massiccio del clavicembalo; davvero un gran bel brano seppur lontano dal "classico" suono Deep Purple, oltre a contenere l'ennesima gran bella performance vocale di Evans. Ascoltando un brano come questo ci si può render conto di quanto la musica anni '60 fosse carica di colori dati dall'uso di tanti strumenti diversi, spesso inusuali, e quanto ciò si sia man mano "appiattito" con l'arrivare degli anni '70, non solo per i Deep Purple. La successiva Lalena è invece una cover di Donovan, forse non la loro cover più riuscita od originale, ma indubbiamente si tratta di un gran bel brano, con oltretutto un gran bell'assolo di Hammond. La successiva Fault Line si sposta su territori più sperimentali, trattandosi di un brano strumentale di un paio di minuti la cui base è sostanzialmente un nastro mandato al contrario, su cui basso e chitarra improvvisano dando un bellissimo effetto lisergico che introduce la successiva The Painter, quest'ultimo uno dei brani più in equilibrio tra il loro passato e l'imminente futuro, tra una Hush ed una Strange Kind Of Woman. Da qui in poi Blackmore inizia a prendere spazio con assoli finalmente ottimi, cosa non scontata visti i due album precedenti. Il rock pesante continua in Why Didn't Rosemary?, che con il suo semplice shuffle blues fa da perfetta base a virtuosismi vari non lontani da Wring That Neck, ma se possibile ancora più intensi man mano che il brano cresce verso il concitato finale.
The Bird Has Flown è invece un altro brano che sembra guardare a cose come Mandrake Root, e sfodera un bel riff martellante figlio dei tempi, che di nuovo fa percepire la loro voglia di indurire il suono, come accadrà di lì a poco. Ma prima di fare quell'importante passo c'è ancora l'imponente traccia finale, quasi una prova generale per il Concerto For Group and Orchestra titolata April.
Ovviamente ad opera di Lord, questo brano è suddiviso in tre parti: la prima strumentale con bellissime parti di organo e chitarra su ritmo di marcia in crescendo, fino a che interviene il coro e pian piano lascia spazio alla sola orchestra che si avventura in territori barocchi pieni di fascino, ed il tutto si conclude con l'entrata in scena della band al completo in quello che è un intensissimo finale, con di nuovo un'ottima performance vocale di Evans, la sua ultima con la band, culminante nell'inaspettato ed avveniristico assolo di Blackmore con tanto di sweep picking.
Sarebbe bastato anche solo quest'ultimo brano a giustificare l'esistenza di questo album, al di là della sua rilevanza storica in generale e nello specifico per i Deep Purple stessi, ma come abbiamo visto il resto riesce comunque a reggere il passo egregiamente. Bellissima anche la copertina, con un estratto "decolorato" del celebre quadro di Bosch.
Insomma in un certo senso è una bella chiusura di una trilogia di album che non finisce mai di stupire, seppur frutto di una band che ancora non aveva trovato la propria via, o forse è proprio questo a donare fascino a questa loro primissima fase.


venerdì 15 marzo 2019

Camel - Breathless (1978) Recensione

Il sesto album dei Camel ed il secondo partorito dalla magnifica formazione composta da Andy Latimer, Peter Bardens, Andy Ward, Richard Sinclair e Mel Collins è un lavoro che, pur condividendo molti elementi con il precedente Rain Dances, si dimostra comunque piuttosto diverso all'ascolto, oltre che la chiusura di un'ideale fase della band, visto l'abbandono di Bardens di lì a poco.
Se in Rain Dances l'entrata di Richard Sinclair e Mel Collins aveva spostato l'asse sonoro verso sonorità più jazzate e, in un certo senso, più affini alla corrente canterburiana in cui spesso questa band viene a forza inserita (pur non essendo originaria di quella zona), Breathless invece mantiene quel tipo di sonorità mettendo però da parte il jazz (a parte in un caso che vedremo), dando spazio a brani più pop. Tutto ciò non stupisce, in quanto a mio parere uno dei punti di forza dei Camel è sempre stato proprio lo spiccato gusto per la melodia, sia essa strumentale o cantata. Indubbiamente vedere i Camel "scivolare" verso musica più semplice non avrà reso felici certi fan intenti a lustrare il loro nuovo paio di paraocchi mentre si lamentano di simili tendenze, decisamente più evidenti, nel contemporaneo And Then There Were Three dei Genesis; ma se per un attimo sorvoliamo sui generi (che è sempre cosa buona e giusta fare) ci ritroveremo di fronte un album davvero molto interessante e godibile, oltre che maturo.
Già dalla title track si nota la tendenza sopra citata, trattandosi di un semplice brano melodico, sereno, di quelli che scaldano il cuore grazie soprattutto alla vellutata voce di Sinclair e i bellissimi interventi all'oboe di Collins. A rappresentare in un certo senso le loro radici ci pensa però la successiva Echoes, che nel suo formato a mini-suite tra cambi, stacchi, l'ennesima sfilza di melodie che solo i Camel riescono a sfornare condite da ottime parti di chitarra e synth, fanno di questo brano una delle cose migliori non solo di questo periodo, ma della loro intera discografia. Wing And A Prayer ci riporta a sonorità più semplici, rivelandosi stavolta però un brano piuttosto debole, a differenza della successiva Down On The Farm. Quest'ultimo è forse uno dei brani più particolari dei Camel, ad opera di Richard Sinclair, in quanto inizia con un potente riff "alla Who" che ben presto lascia spazio ad un'ode alla vita in fattoria, con tanto di suoni "a tema" e testo cantato al limite dello scioglilingua. Starlight Ride è un altro brano più semplice e pacato, con bellissimi interventi strumentali al limite del barocco, con un Mel Collins particolarmente in forma. A confondere i fan ci pensa poi Summer Lightning, che dopo un'introduzione vocale di Sinclair si sposta ben presto su un ritmica disco che comunemente non si associa con i Camel, finendo però per lasciare a bocca aperta da metà in poi, dove Andy Latimer si lascia andare in uno dei suoi migliori assoli per più di tre minuti. Spettacolare a dir poco. Si torna alla semplicità con You Make Me Smile, che quasi sembra uscire da un album dei Wings, e la cosa a me personalmente non dispiace, e si crea un notevole contrasto con la successiva The Sleeper. Altro indiscutibile capolavoro dell'album dopo Echoes, The Sleeper inizia con una leggera introduzione non lontana da certe cose di Rain Dances, con Rhodes arpeggiato e lunghe note di chitarra sospese, e poi ecco che che si entra improvvisamente nell'unico brano con tendenze jazz di questo disco, perfettamente in bilico tra una Chord Change ed una Lunar Sea, con però l'esperienza acquisita nell'album precedente e le differenze date dai nuovi membri della band, in particolare Mel Collins.
In un certo senso sembra quasi essere il brano d'addio sia di Bardens alla band, che della band stessa a quel tipo di sonorità che tanto aveva caratterizzato i loro lavori fino a quel momento. Di lì in poi infatti sarà il solo Latimer a guidare la band, spostando inevitabilmente lo stile verso le caratteristiche melodie chitarristiche che normalmente si associano al suo nome (mantenendo però un'altissima qualità lungo tutta la discografia). La bellissima e graziosa Rainbow's End chiude l'album dando quel senso di calma dopo la tempesta, e congedando un lavoro che personalmente ho sempre adorato. Inutile dire che Breathless non può essere in grado di reggere il confronto con un Moonmadness o un Mirage, ma è anche vero che Echoes e The Sleeper sono tra le loro cose migliori di sempre, ed in generale personalmente percepisco un senso di solidità assente dal precedente e pur ottimo Rain Dances, che mi ha sempre lasciato perplesso (pur contenendo perle come First Light e Unevensong). Breathless l'ho sempre percepito come un album dai colori autunnali, caldo, confortante, uno di quelli che fa sempre piacere tornare ad ascoltare di tanto in tanto. Come voto si merita un 8.

lunedì 11 marzo 2019

Jean Michel Jarre - Waiting For Cousteau / En attendant Cousteau (1990) Recensione

Dopo una serie di album caratterizzati indubbiamente da alti e bassi, ma comuqnue frutto di una costante ricerca che era in grado di rendere interessante ogni uscita, la discografia di Jarre arriva a quello che a mio parere è il primo "passo falso" in un certo senso. Certamente questa è un'affermazione pesantemente influenzata dai miei gusti più che dall'effettivo valore dell'album, che magari altri riescono a vedere e sono felice per loro. Intendiamoci, non si tratta di un pessimo album, e anzi inizia anche con una delle sue cose più riuscite: la suite in tre parti Calypso.
Un passo indietro; l'album è in sostanza fin dal titolo un omaggio e dedica al regista, esploratore ed oceanografo Jaques-Yves Cousteau, e pubblicato il giorno del suo ottantesimo compleanno. Di conseguenza tutto l'album fa dell'atmosfera acquatica la sua caratteristica principale. Tornando alla già citata Calypso, essa introduce in modo efficacissimo l'album con la sua prima parte particolarmente colorata e con un che di caraibico. Normalmente questo genere di cose mi procurano forti reazioni allergiche, ma in questo specifico caso, grazie ad una intelligentissima costruzione armonica che spesso prende vie inaspettate e contrastanti, il tutto riesce a farsi apprezzare. Ben otto minuti dopo ci troviamo di fronte la seconda parte, in in certo senso più affine al suono tipico di Jarre, che dopo un'introduzione atmosferica sembra quasi riportarci verso Industrial Revolution dall'album precedente con il suo fare tra il meccanico ed il "liquido", spostandosi poi gradualmente verso territori tipici della musica dance anni '90.
La terza parte conclusiva è invece decisamente più trionfale, lenta, maestosa, e dimostra ancora una volta il gusto per le melodie e le ispirazioni classiche di Jarre. E qui a mio parere si conclude la parte interessante del disco, in quanto il resto dell'album consiste soltanto nella title track (di 22 minuti su vinile, 46 su CD). Un infinito brano ambient in cui per tutti questi lunghi minuti non succede assolutamente niente. Certo so benissimo che questa è una delle caratteristiche principali del genere ambient, nato proprio per fare da sottofondo a qualcosa, "musica da ambiente" appunto, ma si tratta comunque di qualcosa di cui non capirò mai il fascino. Indubbiamente è un brano ben fatto, con bei suoni e perfetto nella sua ispirazione acquatica ed oceanica, in grado di trasmettere una serenità assoluta, ma anche tanta noia. L'avrei apprezzato se avesse avuto un qualche svolgimento, un progresso, una direzione, ma 46 minuti di musica sempre uguale sono troppo per me. Sicuramente si tratta di un mio limite, ma la musica desta il mio interesse nel momento in cui succede "qualcosa": qualcosa che stupisca, che coinvolga, che faccia riflettere, che emozioni, ma pur sempre qualcosa! A causa di questo brano mi ritrovo troppo spesso a desistere dal metter su questo album, pur amando Calypso, ed è un gran peccato. Il successivo Chronologie rimetterà le cose a posto confermandosi come il suo miglior album anni '90 senza alcun dubbio, relegando questo Waiting For Cousteau a mero esperimento amato principalmente dai fan della musica ambient. Come voto si merita un 6,5, media tra l'8,5 di Calypso ed il 5 della title track.

venerdì 8 marzo 2019

Led Zeppelin - Live at the Fillmore West, San Francisco (27/04/1969) Recensione

Ormai si è più che palesata la mia passione per i bootleg, in particolar modo per quelli dei Led Zeppelin, quindi perchè non continuare parlando nel dettaglio di un altro concerto?
Siamo nel 1969, nel pieno del processo di affermazione in terra statunitense di questa rumorosa nuova band. Di quell'anno esistono svariate registrazioni, dalle classiche BBC Sessions, al concerto di Ottobre al Paris Theatre pubblicato nella rimasterizzazione del 2014 di LZ I, fino a numerose date sparse che vanno indietro fino a Gennaio. Sono varie le registrazioni di quell'anno provenienti dal Fillmore West di San Francisco, da quella dell'11 Gennaio alla doppietta micidiale del 24 e 27 Aprile, interrotta da tre concerti consecutivi alla Winterland Arena. Di questi due concerti esistono delle ottime registrazioni, ed è difficile sceglierne una, ma per puro gusto personale mi soffermerò sulla data del 27.
La prima cosa che si può notare è la lunghezza di questo concerto, che in un periodo fatto di festival e serate in supporto ad altri artisti dove di solito si oscillava tra la mezz'ora e l'ora, ben due ore abbondanti sono le benvenute. Se escludiamo la leggenda mai del tutto confermata delle quattro ore al Boston Tea Party, ci vorrà qualche anno per arrivare a certe durate.
La scaletta di conseguenza contiene quasi tutto ciò che suonavano ai tempi, compresi brani che spariranno ben presto dai loro concerti, finendo per non trovar spazio in alcuna pubblicazione ufficiale. Fin da subito ci dà il benvenuto il devastante assalto al gusto di wah di Train Kept a' Rolling, cover di Tiny Bradshaw già suonata dagli Yardbrids e famosa per essere il primo brano provato dagli appena formati New Yardbrids (poi Led Zeppelin).
La registrazione è di buona qualità, e pare essere soundboard, seppur piuttosto sbilanciato nello stereo sacrificando il basso, e così sarà per gran parte del concerto, con parti mancanti ricoperte da una registrazione effettuata dal pubblico.
E dopo un brano mai effettivamente pubblicato dai Led Zeppelin in alcuna forma, si scivola in territori familiari con I Can't Quit You Baby, come sempre un'ottima versione con un Page in formissima, qui ancora con la "Dragon Telecaster". Ma la prima, vera, grossa sorpresa, forse il più grande punto di interesse di questo bootleg, è la cover di As Long As I Have You. In tanti si chiedono perchè, vista la loro tendenza a coverizzare questo o quel pezzo nei primi album, non si sia mai preso in considerazione anche questo brano, che di fatto è disponibile solo in versione live su bootleg. Il tutto qui passa attraverso il classico "trattamento Zeppelin", che appesantisce il brano, aggiunge stacchi, riff e via dicendo, ma soprattutto lo estende a ben 18 minuti di lunghezza. Le improvvisazioni al suo interno sono il linea con molte altre del periodo, e non creative come quelle degli anni successivi a mio parere, ma è incredibile sentire come passino da un tema all'altro con scioltezza a meno di un anno dalla loro prima prova insieme. Bohnam e Jones sono già un treno inarrestabile, Plant, seppure non al massimo delle sue possibilità dei tempi, è letteralmente impressionante, e Page beh, è all'apice. Indubbiamente tra le cose più interessanti dei primi Led Zeppelin. Una canonica versione di You Shook Me, seppur estesa, segue e lascia poi spazio ad altri 20 minuti di How Many More Times. In un certo senso si replica il formato di As Long As I Have You, in un periodo in cui non era ancora loro usanza inserire cover rock and roll all'interno delle improvvisazioni più lunghe. Se possibile, però, qui ci si addentra in territori ancora più riusciti e coinvolgenti, con un brano che sembra più volte voler finire ed invece prende strade via via più inaspettate, nuovi ritmi, nuovi riff. Purtroppo sul finale entra la registrazione del pubblico e la qualità peggiora un po', ma si tratta senza dubbio di una delle migliori versioni live di questo pezzo. 
La qualità sonora diventa altalenante da qui in poi, ma rimane sempre in grandissima parte più che ascoltabile. Si prosegue con la consueta Communication Breakdown, sempre incendiaria, anch'essa estesa dalle improvvisazioni. Un altro pezzo molto interessante è Killing Floor, un brano di Howlin' Wolf di nuovo sottoposto al trattamento Zeppelin, che prenderà poi il nome di The Lemon Song nel loro secondo album. Questo pezzo non fu poi più riproposto dal vivo, e qui si ha una delle poche registrazioni (seppur interrotta da una sezione registrata dal pubblico), di nuovo estesa ma in sostanza molto simile alla futura versione in studio. Babe I'm Gonna Leave You è un altro pezzo tristemente escluso troppo presto dalle scalette, ed è degna di nota specialmente per le improvvisazioni di Plant, che sembra prendere strade sempre diverse se confrontata alla versione in studio. La qualità audio qui non è al massimo, ma riesce comunque a trasmettere la devastante potenza di questa versione.
A questo punto Page si prende i riflettori in solitaria con il medley White Summer/Black Mountain Side, dove sfodera la fida Danelectro con accordatura DADGAD e delizia con quell'aria orientale che tanto sarà importante in futuro per la band. Ci si avvicina quindi alla conclusione con un altro pezzo piuttosto raro, la cover di Sitting And Thinking, ennesimo blues sullo stile di I Can't Quit You Baby che tanto veniva bene agli Zeppelin di questo periodo. Sicuramente interessante ma forse non un ascolto essenziale, che finisce per dare quel senso di riempitivo per arrivare a due ore. Segue Pat's Delight, che in sostanza è l'assolo di Bohnam prima dell'entrata in scena di Moby Dick qualche mese dopo (Pat è il nome di sua moglie tra l'altro), con un riff inedito introduttivo. Per il resto è il solito assolo di batteria che si ama o si odia. Si conclude la scaletta con l'immancabile Dazed And Confused, ancora relativamente contenuta nella sua lunghezza (10 minuti circa contro i 40 e più di 5 anni dopo), in quanto in quel periodo sono altri brani "contenitori" di improvvisazioni, come abbiamo visto.
Insomma a mio parere si tratta della miglior testimonianza dei Led Zeppelin nel loro primo anno di attività, ancora pesantemente radicati nel blues ma con abbastanza concerti alle spalle per aver la confidenza di lasciarsi andare senza freni in lunghe improvvisazioni. La presenza di Train Kept A Rollin, As Long As I Have You, Killing Floor, Babe I'm Gonna Leave You e Sitting And Thinking rende questo bootleg essenziale anche solo come alternativa alle uscite ufficiali, giustificata dalla grande mole di materiale sostanzialmente inedito diversamente.

lunedì 4 marzo 2019

The Who - View from a Backstage Pass (2007) Recensione

Curiosa raccolta live questa risalente al 2007, in quanto disponibile soltanto per coloro che si iscrivevano al sito ufficiale degli Who all'epoca, pare sborsando circa 50 dollari o una cifra simile, e di conseguenza praticamente irreperibile oggi. Ed è un grande peccato questo, in quanto al di fuori del leggendario live a Leeds del 1970, quello ad Hull del giorno dopo (rappresentato in questa raccolta da una manciata di tracce, in quanto all'epoca ancora inedito), quello all'isola di Wight, quello di recente pubblicazione al Fillmore del 1968 ed il secondo CD dell'edizione deluxe di Who's Next (registrato al teatro Young Vic il 26 Aprile 1971), e tolte le pubblicazioni video, non c'è altro a rappresentare un'epoca fatta di concerti a dir poco incendiari. E se è risaputo che il periodo "pre-Tommy" ha nell'ottimo live al Fillmore del 1968 la sua unica possibile testimonianza, è soprattutto il periodo dal 1971 al 1976 ad essere ben poco rappresentato, in quanto di live tra il 1969 ed il 1970 ce ne sono a bizzeffe ormai.
View from a Backstage Pass in sostanza si tratta di una raccolta su doppio CD con gruppi di canzoni prese da diversi concerti, quindi ahimè non certo concerti completi, tra il 1969 ed il 1976.
L'inizio non è dei più riusciti, vista la curiosa scelta di introdurre il tutto con la cover di Fortune Teller da Detroit del 12 Ottobre 1969. Traccia tipica delle scalette dell'epoca, per qualche motivo è l'unico estratto da questo concerto, stranamente non collegata a Tattoo come invece era usanza. Segue una sostanziosa sezione tratta dal concerto di Hull del 1970, registrato il giorno dopo quello di Leeds e pubblicato poi per intero nel 2012, con le parti di basso dei primi 5 pezzi prese da Leeds, in quanto diversamente assenti per problemi tecnici. Si parte con Happy Jack, sempre divertente oltre che perfetta per la pura follia di Moon, che qui dà il massimo nelle sue consuete rullate. Si prosegue con I'm A Boy senza alcuno stacco (all'epoca suonavano un medley di singoli introdotto da Substitute, qui non presente, che poi proseguiva con le due tracce in questione) e con la sempre ottima A Quick One While He's Away, che seppur più pulita delle devastanti versioni del 1968 (Fillmore e Rolling Stones Rock and Roll Circus) era sempre uno degli apici della scaletta di quei tempi.
A seguire c'è forse una delle parti più interessanti di questa raccolta, oltre che la più misteriosa, e si tratta di una spettacolare versione da ben 13 minuti di Magic Bus. Ovviamente questa versione non può vantare il perfetto ritmo ed intesa tra i membri della band della versione di Leeds, che rimane a mio parere quella definitiva, ma questo assalto che sfiora il quarto d'ora, con un Townshend che sfodera una serie di assoli tra i suoi migliori, non può certo lasciare impassibili. Dicevo misteriosa in quanto questa traccia pare esser tratta dal concerto a Denver il 9 Giugno 1970, ma una veloce ricerca rivela che Magic Bus non fu suonata quella sera, e svariate fonti indicano questo brano come tratto da un non meglio specificato concerto del 1971.
E proprio nel 1971 si prosegue con un sostanzioso estratto del leggendario concerto di San Francisco del 13 Dicembre al Civic Auditorium. Da anni ormai i fan sperano in una pubblicazione di questo concerto nella sua interezza, e per ora questa sezione conclusiva del primo CD, oltre al bootleg di non ottima qualità, è tutto ciò che abbiamo. Le consuete I Can't Explain e Substitute introducono questa sezione, che poi entra nel vivo con una versione schiacciasassi di My Wife, probabilmente la migliore versione live che io abbia mai ascoltato, e Behind Blue Eyes. Sempre stando sulle allora novità, ecco Bargain, che se confrontata con l'acerba versione dello Young Vic dimostra gli enormi passi avanti fatti dalla band, e si conclude con la cover di Baby Don't You Do It, una coinvolgente consuetudine limitata alle scalette del 1971.
Si passa al secondo CD con un salto fino al 1973, caratterizzato dal difficile tour di supporto a Quadrophenia, martoriato da svariati problemi tecnici causati dall'uso di nastri e dai primi problemi fisici di Keith Moon. Nonostante i brani qui presenti siano accreditati al concerto al Capital Center di Largo, Landover, del 6 Dicembre, sono in realtà tratti dal concerto di due giorni prima a Philadelphia (confusione comprensibile e reiterata in quanto sono date vicine, simili, ed entrambe trasmesse in radio e bootlegate per decenni, il tutto accentuato dalla curiosa decisione di usare la presentazione di 5:15 proprio dal concerto di Largo). Sono solamente due i brani da Quadrophenia inclusi qui: The Punk And The Godfather e 5:15, indubbiamente ottime versioni che non possono che essere le benvenute, anche se a mio modesto parere non avrebbero sfigurato anche The Real Me e Sea And Sand, sempre da Philadelphia, entrambe devastanti. Questa parte dedicata al 1973 si chiude con Won't Get Fooled Again, sempre da Philadelphia, in quella che forse è una delle migliori versioni live esistenti, specialmente limitandoci a quelle registrate con ancora Moon in formazione.
Si passa quindi al 1974, al famoso concerto al Charlton Athletic Football Club del 18 Maggio, di cui esiste anche un'ora circa in video. A questo punto i brani di Quadrophenia sono quasi spariti (rimangono Drowned, Bell Boy, 5:15 e Doctor Jimmy in scaletta, ovviamente non presenti qui), ed in generale il concerto di Charlton non è tra i migliori della band, e viene ricordato principalmente in quanto l'unico di cui si ha una testimonianza di qualità del 1974. Curiosa la scelta di iniziare questa parentesi con Young Man Blues, che seppur sempre coinvolgente all'ascolto impallidisce se confrontata con una qualunque versione del 1969/'70, mostrando una band ben poco lucida e coordinata. Decisamente meglio la successiva Tattoo, curioso ripescaggio tra l'altro, arricchita da inedite armonie vocali, la sempre divertente Boris The Spider e, soprattutto, la lunga improvvisazione di Naked Eye comprendente versioni rallentate e "blueseggianti" di Let's See Action e My Generation: indubbiamente l'highlight di questo concerto e non solo con i suoi quasi 15 minuti.
Salto al 1976 per il famoso concerto a Swansea del 12 Giugno, altro concerto largamente bootlegato negli anni, introdotto da due brani allora nuovi: Squeeze Box e Dreaming From The Waist. Comprensibile la decisione di includere questi due brani, anche se personalmente avrei usato questo spazio per qualcosa di effettivamente inedito, vista la presenza di queste due tracce nella versione rimasterizzata negli anni '90 di The Who By Numbers. Decisamente più interessante la, seppur parziale, sequenza dedicata a Tommy, che qui purtroppo inizia da Fiddle About. Per qualche motivo infatti si è deciso di lasciar fuori Amazing Journey, Sparks e The Acid Queen, che seppur non trattandosi delle migliori versioni in assoluto, non avrebbero sfigurato. Fiddle About è qui interpretata da Moon, rifacendosi al film uscito appena l'anno prima, e prosegue con buone versioni di Pinball Wizard, I'm Free, la divertentissima Tommy's Holiday Camp con di nuovo Moon, ed una magnifica versione di We're Not Gonna Take It con il sempre maestoso finale di See Me Feel Me - Listening To You.
Insomma un doppio album pieno di ottimo materiale live, tutto in qualità audio più che buona e che in generale rappresenta una delle migliori introduzioni possibili al mondo live degli Who al loro apice. Certo, ci sono delle pecche e delle mancanze, non avrebbero sfigurato un paio di brani in più da Quadrophenia, o una qualunque versione di Baba O' Riley, ma queste sono piccolezze. La più grande pecca è proprio l'impossibilità di reperirlo oggi, se non in una qualche copia usata (ipotizzo, in quanto non ne ho viste ed immagino che chi ne è in possesso se la tenga stretta) o per "vie alternative" che Internet ha reso comuni. La speranza è che si consideri la pubblicazioni di alcuni concerti qui presenti per intero, specialmente San Francisco 1971 e Philadelphia 1973, magari in un bel cofanetto con Largo. Nel frattempo, se riuscite a recuperarlo da qualche parte, è un ascolto consigliatissimo a tutti i fan degli Who, e si merita un 9.