domenica 29 agosto 2021

Circulatory System - Circulatory System (2001) Recensione speciale per il ventesimo anniversario

Esattamente vent'anni fa usciva un album leggendario, difficile da descrivere a parole, e degno di essere ascoltato da chiunque. Ma andiamo con ordine.

Gli Olivia Tremor Control, dopo l'uscita di BLACK FOLIAGE: ANIMATION MUSIC, VOLUME ONE ed il relativo tour di supporto nel 1999, non esistevano più, e le due anime principali della band, Will Hart e Bill Doss, si erano separate. Gli OTC, insieme ai Neutral Milk Hotel, furono probabilmente il gruppo bandiera del collettivo di musicisti di Athens, l'Elephant 6 Recording Company, quello da cui tutto partì, da cui nacque una famiglia via via sempre più larga, poi diventata uno dei maggiori simboli del cosiddetto indie degli anni '90. I loro due album sono dei perfetti esempi di come il pop di fine anni '60, già di per sé molto eclettico, potesse essere mescolato sapientemente con molto altro, dando spazio a momenti al limite dell'avanguardia, a rappresentazioni sceniche ispirate al dadaismo, e ad ispirazioni anche prese da periodi successivi (come il krautrock). Hart e Doss si bilanciavano perfettamente, e seppur in superficie potesse sembrare che il primo fosse colui più avvezzo alle sperimentazioni ed il secondo il più incline al pop beatlesiano, in realtà le due cose spesso si mescolavano e si sovrapponevano. 

Dunque, con Doss impegnato nei suoi Sunshine Fix, Hart, spinto anche da molti suoi amici musicisti, decise di formare una “nuova” band, e così nacquero i Circulatory System. La formazione ruota, ovviamente, intorno alla figura di Will Hart, ma ad ad accompagnarlo trovano posto ex membri degli OTC come John Fernandez al basso, clarinetto e violino e Pete Erchick alle tastiere, basso ed ukulele (all'epoca impegnato anche con la sua band Pipes You See, Pipes You Don't, il cui omonimo album d'esordio è un altro ascolto caldamente consigliato), insieme ad amici e fissi collaboratori della "famiglia" dell'Elephant 6, come Jeff Mangum e Julian Koster, Scott Spillane, Heather McIntosh: la lista è decisamente lunga e variegata (anche per via dell'enorme varietà di strumenti utilizzati).

Con un nome che sembra riferirsi alla visione del tempo come ciclico (tema che troverà anche spazio nell'album d'esordio), nel 2001 pubblicano il loro primo album sotto la loro nuova etichetta, la Cloud Records, con una copertina che sovrappone quelle dei due album degli OTC (entrambe realizzate da Hart, così come il logo dell'Elephant 6). Se in questi ultimi le due “tendenze”, quella pop e quella più strettamente sperimentale, sembravano alternarsi rimanendo il più delle volte separate (seppur già in BLACK FOLIAGE gli estremi iniziarono a fondersi), in questo album il tutto viene combinato e sovrapposto in modo magistrale, creando un'amalgama sonora di stampo onirico, ma in realtà difficilmente definibile. Gli elementi alla base sono prevalentemente gli stessi dietro agli album degli OTC, ma è impossibile non notare una evidente evoluzione ed affinamento del talento compositivo di Hart. Si va da elementi prettamente lo-fi, frutto di registrazioni casalinghe, ad inaspettate entrate di strumenti registrati in migliore qualità, spesso in gran quantità (stando ad Hart, un brano come The Peek ha necessitato di 55 tracce) e con abbinamenti audaci (specie nell'uso di fiati come il clarinetto e nell'importante presenza del violoncello). Ci sono una enorme quantità di melodie memorabili e trovate geniali che si riveleranno in tutto il loro splendore solo dopo ascolti ripetuti, tale è la densità della musica qui contenuta, spesso frutto di una istintività irripetibile su cui si sono costruite ambiziose strutture sonore. Il tutto scorre senza pausa in una ideale suddivisione in due lati, con la voce sussurrata di Hart (ed i cori degli innumerevoli ospiti) ad accompagnare l'ascoltatore attraverso brani dal notevole spessore filosofico, ma sempre con un risvolto positivo. Proprio per questa sua natura è difficile isolare singoli brani, seppure ci siano sezioni come Joy, o l'iniziale Yesterday's World, o anche l'apparentemente più complessa Inside Blasts, che non è difficile ritrovarsi a canticchiare dopo pochi ascolti. I temi affrontati sono piuttosto complessi: il già citato tempo ciclico, la coscienza collettiva, l'universo dentro di noi, il tutto però è esposto in un modo semplice, con una visione quasi infantile. La conclusione di Forever (il mantra “We will live forever and you know it's true”), così come il messaggio di Joy (“If you still believe in joy, even if the world is full of hate, we can blast away inside”) fanno intuire come il fine ultimo sia invitare ad una visione positiva del mondo, in quanto solamente così potremo vivere per sempre. 

                                             

Ci sono droni, canti dal sapore tribale, nastri manipolati, messaggi nascosti e chissà quant'altro, ma il risultato finale è difficile definirlo in altro modo se non pop. Un pop certamente particolare, a tratti sinfonico, notturno, con un ché di rituale, ma colorato, mai pesante. Ed è infatti qui che l'album eccelle, nel suo dimostrare concretamente l'ampiezza e la profondità che il genere pop e l'auto-produzione possono ottenere, allora come, forse ancor di più, oggi. E se in molti quando si parla di questo genere di album ispirati agli anni '60 tirano fuori SGT. PEPPER come riferimento, in realtà l'album che ha avuto un forte impatto su questa musica, nella sua non-esistenza (uscirà ufficialmente in varie forme solo più recentemente, fino ad allora esisteva solamente in bootleg di cui i fan creavano mix personali), è SMILE dei Beach Boys, la cui frammentarietà e mistero hanno lasciato un segno profondo in questi musicisti e nei relativi lavori. Scendendo più in profondità poi non si fa troppa fatica a percepire influenze provenienti dal sunshine pop, genere oggi alquanto bistrattato ma carico di idee interessanti ed uniche, la cui complessità, a volte anche di ispirazione jazz, è tutt'altro che apparente, proprio come nell'album in questione. Album la cui positività ed il suo già citato approccio quasi "da rituale" sono in grado di colpire l'ascoltatore in modo forte ed inaspettato, e ciò è qualcosa di cui, in questi tempi prevalentemente negativi anche in campo artistico, si ha disperatamente bisogno. 

CIRCULATORY SYSTEM è un album celebrato da alcuni (Pitchfork, ad esempio, non si trattenne nell'uso di termini entusiastici alla sua uscita), ma generalmente poco considerato al di fuori del suo “circolo”, spesso messo in ombra dall'ingombrante eredità degli OTC (a loro volta comunque troppo poco considerati, e spesso per i motivi sbagliati). Uscì all'epoca solamente in CD, mentre nel 2020 ha visto la sua prima pubblicazione su doppio vinile. Seguirà nel 2005 una temporanea reunion degli OTC, dopo il cui nuovo scioglimento arriverà, nel 2009, il secondo album dei Circulatory System, SIGNAL MORNING, un lavoro frutto di un lungo e difficile processo di realizzazione, altrettanto interessante ma a suo modo diverso, di cui ho già parlato qui.

Questa recensione è stata originariamente pubblicata su Open Magazine ed è reperibile a questo link. Qui è stata ampliata.

sabato 21 agosto 2021

Il Progressive Rock fu davvero innovativo quanto si dice?

Risposta breve: no. Risposta lunga:

credo sia sotto agli occhi di tutti quanto molti fan del progressive tendano ad elevare il loro genere preferito ben oltre i suoi effettivi "meriti", attribuendogli caratteristiche oggettivamente non esatte ma semplicemente dettate da un soggettivo amore cieco per il genere. Intendiamoci, io stesso amo molti album solitamente incasellati in quel genere, ma un conto sono i gusti, ed un conto è la Storia. E finché è qualche commento su Facebook a trattare superficialmente l'argomento va anche bene, il problema è quando certe inesattezze si leggono sui maggiori giornali e siti musicali nazionali, allora lì qualche problema c'è. Certo a ciò contribuisce molto il fatto che il progressive sia l'unico genere in Italia ad avere un giornale dedicato, e la sovrabbondanza di festival dedicati ad esso nell'estate in corso (quasi vien da chiedersi se uno volesse ascoltare altri generi che non facciano parte dell'attuale mainstream se in questo paese esistano alternative al progressive...) dimostra in modo lampante quanto il genere si sia imposto, e con esso una certa narrazione che, ovviamente, lo eleva al di sopra di ogni altro genere (e il bello è che in molti pure si lamentano di quanto sia di nicchia). Ed ecco il motivo di questo articolo: cercare di prendere i proverbiali "due piccioni con una fava", portando prove oggettive di quanto certi lavori oggi in larga parte dimenticati abbiano anticipato certe idee ed innovazioni attribuite poi a capisaldi del progressive, e riportare un po' alla luce certa musica americana degli anni '60, che possiamo incasellare nella psichedelia, troppo spesso dimenticata dagli "esperti" del settore. 

Partiamo da una classica affermazione che è alla base di questa narrazione distorta: la psichedelia americana partiva dal blues e si evolveva in lunghe jam, mentre quella inglese era più intellettuale, artistica, risentiva di più della cultura classica europea, e ciò ha favorito la sua evoluzione nel progressive (sorvolando su come spesso oggi si consideri, a torto, la psichedelia prettamente come una fase di passaggio che portò al progressive, visione limitativa oltre che irrispettosa).

Allora come si spiega un brano come Walk Away Reneè dei Left Banke, datato 1966, famosissimo in USA ma sostanzialmente ignoto da noi?

Ci si sentono ispirazioni classiche barocche ben prima della celeberrima A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum (spesso indicata come uno dei primi brani che ispireranno il progressive per via dell'incontro tra pop e classica), e per di più in America. In realtà tutto il loro album d'esordio vanta la presenza costante del clavicembalo, e le doti compositive dell'allora diciassettenne Michael Brown erano già di altissimo livello, come evidente nell'altro loro singolo Pretty Ballerina

Alla faccia del blues e delle jam. Oltretutto questo stile compositivo che tanto si basa su note inaspettate e, a volte, dissonanti, tipico di Brown, continuerà ad esser presente, forse ancora di più, nella band Montage. Ne è un perfetto esempio Tinsel And Ivy, che pur rimanendo fermamente nei limiti della canzone pop mostra una complessità ed originalità innegabili:

Vogliamo poi parlare di quel capolavoro che è BEGIN dei Millennium datato 1968? L'album più costoso realizzato fino a quel momento, superando anche BOOKENDS di Simon & Garfunkel, in gran parte farina del sacco dell'ingiustamente dimenticato produttore, musicista, compositore e cantante Curt Boettcher, si apriva con questi due brani: 

Anche qui ispirazioni barocche ancora più evidenti che in molta musica europea dell'epoca. Oppure anche nei Buckinghams, più ricordati per i loro arrangiamenti di fiati (opera anche del loro manager e produttore James William Guercio, non per nulla quel sound troverà seguito nei Chicago sempre grazie a lui) ma che non si facevano mancare parentesi classicheggianti, come in questo brano tratto dal loro terzo album PORTRAITS del 1968: 


Ma potrei continuare all'infinito aprendo lo scrigno senza fondo del Sunshine Pop, carico di ispirazioni tanto tipicamente americane quanto barocche o jazz (oltre ad arrangiamenti corali decisamente complessi). Come in Consciousness Expansion o Epitaph (A World Without Love) dei Love Generation.

E proprio sul jazz ci sarebbe un discorso a parte da fare. Se nel progressive il jazz verrà preso principalmente nella sua veste più virtuosistica, in molto pop anni '60, specialmente in USA, le influenze jazz erano a loro volta ben presenti, ma meglio implementate. Niente assoli di dieci minuti con dissonanze sparse quindi, ma una indubbia complessità armonica in sede di composizione. Un perfetto esempio può essere The Shade Of The Sun dei New Wave, datata 1968:

E come non citare l'intero album SONG CYCLE di Van Dyke Parks, i cui generi al suo interno non si contano:

Scavando poi un po' più a fondo possiamo invece trovare gli Smoke americani, da non confondere con gli omonimi inglesi famosi per My Friend Jack. Quelli americani erano farina del sacco di Michael Lloyd (già nella West Coast Pop Art Experimental Band), un progetto prettamente "da studio" con cui fece uscire nel 1968 un solo, omonimo album. Ascoltate questo brano:

A parte il consueto mix di generi tipico della musica di quei tempi (ebbene sì, anche quella americana), ascoltate attentamente i passaggi intorno ai 40 secondi e ad 1 minuto e 51 circa: praticamente ciò su cui baseranno non so quanti brani i King Crimson fino ai loro ultimi album post-2000 (ascoltare Elektrik o FraKctured ad esempio). 

E proprio sui King Crimson mi vorrei soffermare, visto che a loro più che a chiunque altro viene attribuito il merito di aver inaugurato la fase del Progressive Rock con il loro innovativo esordio IN THE COURT OF THE CRIMSON KING, uscito ad Ottobre 1969. Al di là dei gusti (perché si tratta indubbiamente di un ottimo album), le canzoni al suo interno raramente escono dalla "forma canzone" tanto odiata dai fan del progressive, limitandosi ad estenderla il più delle volte, e a portare giusto qualche tono jazz in 21st Century Schizoid Man e nella jam finale di Moonchild (ma non erano gli americani a fare le lunghe jam?). 

Dall'altra parte dell'Oceano, intanto, una band dal recente passato bubblegum, i 1910 Fruitgum Company (quelli di Simon Says, 123 Red Light, Indian Giver, Goody Goody Gumdrops e via discorrendo), pubblicavano il loro ultimo album, un mesetto prima dei King Crimson, intitolato HARD RIDE. Tutto l'album spazia dagli ultimi rimasugli bubblegum di The Train, al lacerante brano blues esteso Eulogy-Saulb, fino alle sperimentazioni elettroniche di In The Beginning-The Thing, il tutto con innumerevoli cambi di tempo e cosparso da una costante presenza di fiati spesso dissonanti di forte ispirazione jazz. In conclusione c'è Togetherly Alone (5 Movements), brano dove pop, classica e jazz si incontrano magnificamente, e che se fosse uscito da una band inglese sarebbe lassù con altri classici con sopra appiccicata la vistosa etichetta "progressive" o "proto-prog". Ma forse, in fondo, è meglio così:

Questo non per dire "è meglio questo" o "è meglio quello", ma se si parla di innovazione, che è qualcosa di oggettivo, bisogna essere altrettanto oggettivi in ciò che poi si cita e celebra. Ma anche quando si usano termini come "progressione", "attitudine" (termine, tra l'altro, senza alcun senso in questo contesto, tradotto dall'inglese "attitude" ma ormai usato da parecchi al posto della sua traduzione più esatta "atteggiamento". Mai sentito parlare dei "false friends"? "Attitudine" è "aptitude" in inglese), bisognerebbe farlo con cognizione di causa.

Oppure un altro gruppo tendenzialmente bubblegum come Tommy James & The Shondells (famosi per I Think We're Alone Now, Mony Mony, Crimson & Clover...), che nel 1969 pubblicano l'album CELLOPHANE SYMPHONY, la cui title track suona come i Pink Floyd dei primi anni '70, epoca OBSCURED BY CLOUDS:


Poi, volendo parlare di arrangiamenti strumentali complessi, basterebbe ascoltare qualunque cosa da un PET SOUNDS o dalle SMILE SESSIONS dei Beach Boys, sempre che per "complessità" non si intenda sempre e solo gli assoli, in tal caso sarebbe meglio attendere l'uscita dall'adolescenza.


Ma le suite? Un formato musicale che è tra i più rappresentativi del progressive, l'essenza stessa dell'andar oltre la forma canzone occupando anche un intero lato di LP, quello per forza devono esser stati i primi a farlo in ambio rock! E invece no. Già gli Who con A Quick One (While He's Away) avevano, nel 1966, combinato fra loro sezioni diverse in un brano da 9 minuti (su insistenza del produttore Kit Lambert). 9 minuti sono pochi? Beh allora andiamo avanti solo di un altro anno e troviamo Chad & Jeremy, duo folk inglese trasferitosi in America che pubblicò, tra il '67 ed il '68, due capolavori dimenticati in collaborazione con il produttore Gary Usher. Nel primo dei due, OF CABBAGES & KINGS, c'è The Progress Suite: ben 26 minuti di suoni barocchi, orientali, folk, suoni, rumori e tanto altro (purtroppo niente link in questo caso, in quanto non è presente su YouTube. Ma se cercate su Spotify la trovate, seppur suddivisa in parti, nell'album sopra citato). Poi, a voler essere pignoli, grandissima parte delle suite progressive altro non sono che una serie di frammenti musicali (spesso incompiuti) uniti fra loro senza pause, niente più, niente meno: è davvero così tanto diverso e/o meglio che averli separati in "canzoni"? Secondo me no, e anzi mi pare un po' una presa per i fondelli.

Insomma negli USA si stava sperimentando tanto quanto, se non di più, di quanto si stesse facendo in UK, per di più molto spesso stando all'interno della musica "pop", senza per forza lasciarsi andare in virtuosismi che, questo sì, caratterizzano il progressive. Perché poi alla fine di questo si tratta, musica virtuosistica, di questo si può "vantare", perché in quanto ad innovazione basata sulla combinazione di diverse ispirazioni (come si dice di solito: il rock, la classica ed il jazz), in realtà era pratica diffusa da qualche anno, e non solo in UK. 

Quindi quando si associano le parole "progressive rock" ed "innovazione", meglio farlo con cautela.

Se qualcuno volesse leggere di più sul pop psichedelico, vi consiglio il mio libro PICCOLA ENCICLOPEDIA DEL POP PSICHEDELICO 1966-1969, disponibile su Amazon.

lunedì 16 agosto 2021

George Harrison - All Things Must Pass [50th Anniversary Super Deluxe Edition] (2021) Recensione

Ormai da qualche anno è tradizione veder spuntare innumerevoli riedizioni, rimasterizzazioni, remix, boxset e via dicendo dedicate a leggendari album, con esiti variegati. ALL THINGS MUST PASS, primo vero e proprio album solista di George Harrison dopo lo scioglimento dei Beatles, è un lavoro universalmente e giustamente celebrato, con ben due interi dischi di ottime canzoni ed un terzo, più breve, di jam insieme alla nutrita line-up di musicisti coinvolti nelle session. Già nel 2001 uscì una versione rimasterizzata dell'album con qualche bonus, a cui contribuì proprio Harrison poco prima di lasciarci; e di semplice rimasterizzazione si trattò proprio per via delle sue condizioni di salute, a quanto pare, che non gli permisero di lavorare a lungo su quel progetto. Infatti non è mai stato un mistero la sua volontà di rimettere mano ad un mix che tanto risente della mano pesante di Phil Spector e di quella dello stesso giovane Harrison intento ad emulare il suddetto nei suoi periodi di assenza. 

Ora, vent'anni dopo, grazie al figlio Dhani e a Paul Hicks, finalmente possiamo ascoltare una nuova versione di ALL THINGS MUST PASS, interamente remixato e con l'aggiunta di ben tre CD contenenti materiale finora in gran parte inedito, per un totale di una settantina di canzoni. Ora, com'è solito fare in questi casi, l'album è uscito in innumerevoli diverse versioni, che vanno dalla più basilare su 2 CD fino all'esagerata edizione limitata super deluxe in baule di legno con statuette di Harrison con i nani ed altre cose perfette per far lievitare il prezzo. Qui non parlerò delle uscite fisiche ma mi limiterò a vedere il contenuto musicale, che per fortuna è presente anche sui maggiori siti di streaming.


IL REMIX

Come dico sempre quando parlo di remix, il mix non è mai una scienza esatta. Ci sono mix ottimi, altri un po' meno, tanto dipende dai gusti di chi ascolta, ma quando ci si trova di fronte ad un album al suo cinquantesimo anniversario (discorso simile a quello fatto con i remix dei Beatles), entra in gioco un altro elemento importante: l'abitudine. Se infatti a livello tecnico si può discutere su cosa sia meglio o peggio, di fatto anche un mix pieno di difetti dopo mezzo secolo di ascolti è così radicato nella mente degli ascoltatori che anche i suoi eventuali difetti e limiti diventano caratteristiche essenziali, a cui i fan faranno fatica a rinunciare. Dhani e Paul Hicks in questo caso, a parere di chi scrive, hanno fatto un lavoro egregio. Il wall of sound di Spector (o dello stesso Harrison) carico di riverbero è appena appena "addomesticato", asciugato, ripulito, senza però far perdere troppo le sue caratteristiche. Le voci sono più presenti, le frequenze basse più corpose e meno attutite, le chitarre sono più brillanti, ma il suono enorme che contraddistingueva l'album allora è ancora in gran parte presente. My Sweet Lord è un piacere da ascoltare, mentre Wah-Wah guadagna una potenza ancora maggiore, laddove invece una Let It Down sembra un pelo meno dinamica (qui forse più per un mastering che tende ad appiattire un pelo le dinamiche alzando il volume delle parti inizialmente più basse, come già visto con Long Long Long dal WHITE ALBUM, e com'è usanza ormai da anni); insomma la perfezione non esiste, ma in generale penso che l'album ora si ascolti con ancor più piacere, scoprendo anche dettagli inediti sparsi qua e là. 

IL MATERIALE AGGIUNTO 

Spesso l'aggiunta di demo e versioni alternative è più una curiosità che altro, in quanto solo in rari casi ci sono abbastanza differenze dal prodotto finale da giustificare un ascolto ripetuto, trattandosi spesso solamente di versioni leggermente diverse da quelle poi finali, magari giusto un pelo più essenziali. Quindi insomma, tre CD zeppi di demo sono tanti, varrà la pena tuffarcisi? Diciamo che dipende dal vostro grado di fanatismo nei confronti di Harrison, ma tendenzialmente la risposta è sì. Intanto c'è da dire che finora ben poco materiale d'archivio di Harrison solista ha visto la luce, quindi a prescindere da tutto è veramente una gran cosa avere questi CD, ma se a questo ci aggiungiamo l'incredibile varietà del contenuto, la conclusione diventa ovvia. Il primo CD raccoglie i demo registrati il 26 Maggio 1970, il secondo quelli del giorno dopo, ed il terzo una selezione di outtake dalle session di registrazione dell'album. Si va dalle classiche versioni acustiche iniziali, spesso totalmente diverse come ritmo e "feel", fino ad arrangiamenti alternativi pure più grandiosi di quelli finiti nell'album (la take 36 di Run Of The Mill è uno spettacolo totalmente inaspettato, così come la Hear Me Lord, seppur più essenziale, estesa a 9 minuti). A questo vanno aggiunte un'altra manciata di jam ed una decina abbondante di brani inediti esclusi dall'album (alcuni verranno poi ripresi successivamente, come Sour Milk Sea o I Don't Want To Do It). Insomma ce n'è veramente tanta di carne al fuoco. 

In definitiva, tra l'album vero e proprio ed il materiale aggiunto siamo circa sulle quattro ore e mezza di musica, ed il che non è poco. Vale la pena darci un ascolto? A parere di chi scrive sì, in quanto è un ottima occasione per riscoprire un ottimo album, di riascoltarlo in una veste parzialmente nuova (seppur non radicalmente, ed in un certo senso è meglio così) e di godersi poi un Harrison totalmente inedito nell'immediato post-Beatles che lavora all'enorme mole di nuova musica accumulata negli anni. Magari lasciamo i cofanettoni ai ricchi fanatici, ma almeno un paio di stream li merita senza alcun dubbio.