domenica 16 dicembre 2018

Led Zeppelin - Physical Graffiti (1975) Recensione

L'obbligatorio doppio album che prima o poi 9 band su 10 decidono di sfornare. Spesso si tratta di concept album, altre volte semplicemente frutto di session particolarmente produttive, oppure può essere un semplice calderone con brani di varia provenienza. Ecco, questo Physical Graffiti appartiene all'ultima categoria, in quanto circa metà di esso è composto da brani allora effettivamente nuovi, e l'altra da scarti di album precedenti. Ovviamente la divisione non è netta, il tutto è mischiato più o meno bene nei due dischi, ma rimane piuttosto ovvio quali siano i brani nuovi e quali quelli vecchi. Vuoi per la differenza in termini di audio, mix e produzione, vuoi per la voce di Robert Plant che mostra i primi evidentissimi segni di cedimento... Sì, perchè dopo l'ottimo Houses Of The Holy (anche prima a dire il vero), la voce di Plant si trasformò da una sirena assordante ad un ranocchio effeminato, causando quindi concerti spesso imprevedibili nei vari tour dal 1973 in poi (nonostante una notevole ripresa nel 1977). Una volta ultimato il tour americano si dice che Plant subì un'operazione alle corde vocali per la rimozione di noduli, causati dall'ovvio eccessivo sforzo e mancanza di tecnica canora. La prima regola in questi casi, con o senza operazione, è riposare. E quindi giustamente i Led Zeppelin si buttarono subito in studio a registrare i nuovi brani, che proprio per questo motivo vantano delle parti vocali decisamente meno potenti, rauche, sottili, fragili, tipiche di una voce tutt'altro che in salute. Facile quindi notare la differenza nei momenti in cui affiora il brano vecchio di turno, con un Plant decisamente più in forma. Questo non aiuta a creare un senso di unità all'album, che risulta piuttosto dispersivo senza paradossalmente raggiungere la varietà del precedente Houses Of The Holy. C'è però da dire che se ci si sofferma sull'ascolto e si tralasciano tutti questi particolari, è chiaro che Physical Graffiti è potenzialmente uno dei migliori lavori di casa Zeppelin. Indubbiamente soffre della classica "sindrome da album doppio", lasciando il forte sospetto che se si fosse trattato di un album singolo avrebbe forse potuto essere ancora migliore. E la cosa curiosa è che se davvero mi dovessi dedicare ad una selezione atta a creare un singolo album, un buon 90%, se non la totalità dei brani, sarebbero quelli delle session del 1974. Non che quelli più vecchi siano brutti, ma in molti dei brani "nuovi" si nota una notevole maturità, specialmente a livello compositivo e di arrangiamenti.

Anche un blues come In My Time Of Dying, che da una parte guarda indietro alle loro origini, riesce a guadagnarsi il trono di loro miglior ri-arrangiamento blues a mio parere. 11 minuti con un indiavolato Page alla slide, stacchi possenti e cavalcate infinite, con un Plant che vocalmente trasuda sofferenza pura. E che dire di Trampled Underfoot? Non distante da D'yer Mak'er o The Crunge nella sua natura di esperimento in territori un po' più distanti dal loro solito, in questo caso un ibrido tra funk e disco ante-litteram, riesce ad elevarsi al di sopra di essi e a confermarsi come un ottimo brano anche in sede live. Poco da dire poi su Kashmir, ormai conosciuta anche dalle pietre grazie agli orribili campionamenti in anni recenti, che con il suo inarrestabile e pesante ritmo ed i suoi toni orientali è uno degli apici assoluti della carriera dei Led Zeppelin, che portano qui a compimento idee che già affioravano in LZ III con Friends. In The Light invece è un brano che avrebbe meritato ben più fortuna; in quanto la sua natura complessa, l'introduzione di nuovo orientale con un bordone di synth e chitarra suonata con l'archetto, i bei riff delle strofe ed il finale particolarmente positivo e solare sono una perfetta rappresentazione della maturità compositiva raggiunta, che purtroppo avrà ben pochi seguiti negli anni successivi. Maturità che raggiunge un altro apice non indifferente in Ten Years Gone, brano più malinconico e sommesso ma carico di fascino. Ovviamente tra i brani "nuovi" ci sono anche esempi più semplici e canonici del loro tipico sound: come Custard Pie, Sick Again e la "nuova Immigrant Song" che è The Wanton Song, ma diciamo che ben funzionano per alleggerire un po' i toni. Tra i ripescaggi invece si può notare una qualità un po' più altalenante: tra gran bei brani come The Rover, la più pop Down By The Seaside ed il fascinoso quadretto acustico Bron-Yr-Aur, ci sono brani più "innocui" come il rock leggero di Houses Of The Holy (la parte migliore è il riff) e le parentesi comunque divertenti e scanzonate di Boogie With Stu e Black Country Woman. Curiosa tra l'altro la presenza del brano Houses Of The Holy qui e non nell'album omonimo. La sua esclusione credo che sia stata giustificata dalla somiglianza con Dancing Days, oltre che dall'usanza di non avere mai brani con lo stesso titolo dell'album di cui fanno parte immagino.

Insomma, era proprio necessario ripescare dei pezzi vecchi quando grandissima parte dei migliori sono senza dubbio quelli nuovi? Bella domanda. Ma è anche vero che in quegli anni l'album doppio era quasi d'obbligo per tutti, anche quando non era necessario. Negli anni si è un po' persa questa tendenza, anche se più che altro la si è mascherata riempiendo i CD invece che usare due vinili, e realizzando quindi di nuovo album fin troppo lunghi "perchè si può", specialmente negli anni '90. Ma tornando a Physical Graffiti, c'è chi ha tracciato un parallelo con il White Album dei Beatles, indicando come punti in comune il formato, la maturità della band, la varietà dei generi affrontati... Graffiti però manca di quella coesione e quell'atmosfera indescrivibile che rende il White Album un capolavoro nonostante i suoi difetti, che non sono poi così diversi da quelli di Graffiti.
Certamente non si tratta del miglior album de Led Zeppelin, ma senza dubbio è l'ultimo "quasi capolavoro" della loro carriera. Ironico pensare che fu il loro primo album con l'etichetta Swan Song.
Come voto si merita un 8.

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