domenica 25 marzo 2018

Dennis Wilson - Pacific Ocean Blue (recensione)

Mentre recensivo Sunshine Tomorrow dei Beach Boys ieri mi è tornato in mente questo album del più "misterioso" dei fratelli Wilson (forse anche a causa dei suoi trascorsi con quella simpatica personcina che era Charles Manson), quindi ho deciso di provare a parlarne qui.
Più volte Dennis Wilson è stato visto, specialmente nei primi anni dei Beach Boys, come "quello bello", oltre che l'unico che effettivamente sapeva fare surf (e che ha suggerito alla band quel "filone" allora di gran moda). Il suo contributo nei primi album è pressoché assente, se si esclude l'ovvia presenza nelle armonie vocali, la sporadica ma significativa presenza come voce solista (Do You Wanna Dance e la struggente In The Back Of My Mind ad esempio), e il suo ruolo di batterista, peraltro spodestato nel tempo a causa della presenza della Wrecking Crew in molte cose dal '64 al '66. Nel 1968 però ecco che, per la prima volta, propone un paio di brani scritti da lui per l'album Friends, e subito rivela la sua personalità nel cantato, spesso sofferente e carico di pathos; di certo non paragonabile alle voci decisamente più versatili e "morbide" dei suoi fratelli Carl e Brian. Una voce fumosa la sua, unita a canzoni spesso in bilico tra rock-blues e ballate che strappano il cuore, insomma un bel contrasto con gli altri!
Ed è interessante notare come il suo imporsi come compositore ed interprete coincida con l'allontanamento di Brian Wilson artisticamente (quando non anche fisicamente) dalla band a fine anni '60. Questo periodo ci ha regalato perle come Forever e Make It Good, brani forse poco rappresentativi dei Beach Boys così come li conosce la grande massa, ma certamente capolavori non trascurabili, insieme ad altri suoi brani. Questa sua tendenza artistica si trovò poi in totale contrasto con la direzione dei Beach Boys della seconda metà degli anni '70, che per la prima volta ci mostravano un gruppo segnato sia dal ritorno di Brian Wilson, ma anche da una tendenza auto-celebrativa che si trascina fino ad oggi nella formazione, piuttosto triste, guidata da Mike Love e Bruce Johnston. Si potrebbe facilmente pensare che questo Pacific Ocean Blue sia nato a causa di questo contrasto, e probabilmente in parte fu così, ma pare che i primissimi tentativi risalgano addirittura al 1970. Di fatto, però, bisognerà aspettare fino al 1976 per vedere i primi seri risultati che porteranno alla realizzazione di un album carico di fascino e, per natura, fortemente divisivo, ma ci tornerò dopo su questo. Il brano in apertura, River Song, pur essendo uno dei più movimentati, rende perfettamente l'idea di ciò che caratterizza quest'album: composizioni semplici sulla carta condite però da arrangiamenti ottimi e spesso audaci, con sopra la tipica interpretazione sofferta di Dennis. In questo caso un inizio alla Tiny Dancer di Elton John ci trasporta poi in un brano dalle tinte gospel, con intrecci vocali incredibilmente potenti e riusciti, seppur ben distanti dall'approccio tipico dei Beach Boys. Brano da pelle d'oca, il primo di tanti. What's Wrong è il primo brano "minore", che per forza di cose sfigura dopo la magnificenza che l'ha preceduto. Discorso diverso per Moonshine, primo esempio di lenta ballata come ne ritroveremo più avanti. Un brano che letteralmente adoro, e che ancora una volta mostra una produzione e un arrangiamento che è una goduria e che appartiene, tristemente, al passato. Friday Night è uno dei picchi assoluti dell'album, con una introduzione strumentale che tra archi, piano, synth e chitarra slide crea un'atmosfera sospesa che poco dopo va a spezzarsi in tonalità più rock, pur mantenendo sonorità molto interessanti.
E poi Dreamer. Che dire? Un brano che definire geniale sarebbe riduttivo: di base è un blues, guidato però da un'armonica bassa, seguita poi da una banda di ottoni che, in modo totalmente inaspettato, appare e sparisce più volte. Ad ulteriore prova della natura sperimentale di un album che è semplice in superficie, ma terribilmente complesso ed interessante al di sotto, con un fascino che si rivela gradualmente dopo ripetuti ascolti. Thoughts Of You si presenta come un'altra semplice ballata rarefatta "alla Dennis Wilson", però ecco che lentamente entrano gli archi, quasi in modo impercettibile, e ci trasportano ad un parte centrale letteralmente straziante, con un Dennis al massimo delle sue capacità interpretative, fino all'urlo "look what we've done", che strappa letteralmente il cuore. "To forget is something that I've never done". E se dopo un pugno nello stomaco simile non fossimo ancora soddisfatti, ecco Time: che si, è un'altra ballata, e che forse all'inizio colpisce meno della precedente, ma che si rivela ugualmente emozionante nella sua disarmante sincerità. Qui infatti Dennis ci regala una dichiarazione d'amore che è anche una riflessione sulla sua vita, dicendo infatti che nonostante lui sia, come dire, "un donnaiolo", nessuna è in grado di riempirgli il cuore come colei a cui è diretta la canzone. "Hold me close, completely free" e poi bam! Pugno sonoro che trasporta la canzone in un territorio completamente diverso, con intrecci vocali, chitarra e piano ritmico. Bellissima. You And I è un brano più leggero, e devo dire che è il benvenuto dopo i brani precedenti. Un pezzo che ha un che di hawaiano, di certo non efficace come i precedenti, ma che mantiene discretamente alto il livello dell'album. Pacific Ocean Blues ci riporta il Dennis Wilson rocker con quello che è, in sostanza, un blues. La rabbia nel cantato rende bene quello che si rivela essere un testo contro l'uccisione di coloro che l'oceano lo abitano. Farewell My Friend è un ritorno alle ballate intense, e il titolo dice tutto. Una dedica all'amico Otto Hinsche che però ben si adatta ad essere un addio più generale a qualche vecchio amico. "I love you, in a funny way". Rainbow è un altro brano che adoro nella sua positività. Bellissimi gli inserti di mandolino, specialmente nel ritornello che spezza il ritmo in modo perfettamente riuscito. L'album si conclude con End Of The Show, altro brano lento che però chiude l'album in modo appropriato. "It's wonderful to know we're alive, at the end it's over". Altro bell'arrangiamento anche qui.
Dopo la realizzazione di quest'album (pare anche durante), Dennis si dedicò ad un altro progetto dal titolo Bambu, che però non ultimò mai. Molte tracce tratte da quelle session sono fortunatamente state pubblicate in una versione rimasterizzata di Pacific Ocean Blue, permettendoci così di ascoltare altri brani che poco hanno da invidiare a quelli presenti in questo album (da segnalare l'incompleta Holy Man cantata da un vocalmente molto somigliante Taylor Hawkins, che fa un ottimo lavoro, e lo dico da NON fan dei Foo Fighters).
Un album, questo, che è per me uno dei pochissimi esempi di musica spudoratamente americana che riesce a colpirmi, piacermi, emozionarmi. Le composizioni sono semplici, ciò che però rende l'album estremamente interessante sono gli arrangiamenti spesso audaci, ma mai fuori luogo, e l'interpretazione vocale di Dennis quasi sempre sofferta, intensa, che spesso sembra quasi regredire ad un'innocenza infantile nell'uso di poche, semplici parole per andare dritto al punto. Dicevo all'inizio che lo trovo un album divisivo, mi spiego meglio. Lo ascoltai già anni fa, e non mi piacque; quando però ci tornai lo scorso anno mi colpì come pochissimi altri. Perchè mai? Io credo che qui, più che in altri casi, conti l'immedesimazione nei testi e nelle atmosfere. Credo che per amare un album simile sia necessario essere in un "luogo" nella propria vita in cui gli argomenti qui presenti e il modo in cui sono esposti, oltre che il punto di vista, "risuoni" con noi. Non credo sia un album apprezzabile appieno senza immedesimazione insomma, seppur possa piacere anche ad un livello più superficiale. Trovo però, ed ecco che si spiega il termine "divisivo", che sia più facile che lasci indifferenti gli ascoltatori in caso manchi la "connessione" di cui sopra, spesso causando quindi l'idea di un album "sopravvalutato", secondo me ingiusta.
E dispiace parecchio, ascoltando Pacific Ocean Blue e le tracce di Bambu, di aver perso Dennis così presto, proprio quando la sua identità artistica era sbocciata, prima di un declino tra droghe e problemi personali che lo accompagnarono nella sua triste, seppur poetica in un certo senso, fine.
Un album che chiunque dovrebbe ascoltare, e che meriterebbe un 10 se solo mi lasciassi andare a ciò che mi trasmette, ma che più oggettivamente (anche a causa di brani sparsi un po' meno efficaci), si merita almeno un 8,5 - 9.

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