lunedì 16 luglio 2018

The Moody Blues - In Search Of The Lost Chord (1968) Recensione

Dopo il grande successo e, di fatto, la nascita dei nuovi Moody Blues nel 1967 con Days Of Future Passed, la band si ritrova con il difficile compito di proseguire con un lavoro degno del precedente. Un lavoro privo dell'orchestra, più "di gruppo", e perfettamente in linea con i tempi. Certo, qui non c'è una Nights In White Satin, ma d'altro canto l'album non ha neanche bisogno di un brano di quel livello per essere ricordato. Se infatti una delle caratteristiche principali di Days Of Future Passed si rivelò essere anche un potenziale punto debole dell'album (le parti orchestrali o le sia amano o le si odiano, e senza dubbio occupavano una parte sostanziosa del disco), qui non ci sono lunghi intermezzi fra le canzoni, e sotto questo aspetto In Search Of The Lost Chord risulta indubbiamente più solido e compatto. Ricordiamoci poi che siamo nel 1968, quindi l'album attinge a piene mani tra vari cliché che associamo a quel periodo, come il titolo già suggerisce: la ricerca e la scoperta. Ricerca interiore, dell'amore, esplorazione dello spazio, ricerca dell'accordo perduto, che poi si rivela essere "l'Om". Il tutto condito da un suono più "rock" e figlio di quei tempi, con il mellotron a sostituire l'orchestra ed un vasto assortimento di strumenti indiani come sitar, tambura e tabla.

Come consuetudine per gli album dei Moody Blues, il tutto è introdotto da una sorta di overture con il primo di due poemi di Graeme Edge presenti in quest'album: Departure. Ben presto la cavalcata di Ride My See Saw spazza via tutto con un rock corale che solo ai Moody Blues può venire così bene. Tra l'altro questo brano si tratta forse del secondo loro più grande successo dopo Nights In White Satin. Dr. Livingstone, I Presume è invece immersa nel pieno degli anni '60 puramente inglesi, con di nuovo bellissimi cori a decorare il tutto stavolta insieme al mellotron. Uno de miei pezzi preferiti di Ray Thomas. House Of Four Doors si rivela invece essere uno dei pezzi centrali dell'album; divisa in due parti intervallate da Legend Of A Mind, ci riporta i Moody Blues di certe cose come The Sunset dal precedente album, quelli da lente e suntuose ballate. Ma qui ci sono tanti intermezzi strumentali quante sono le porte in questione, dal barocco all'epico, e l'ultima porta si apre a Legend Of A Mind. Cosa può essere più spudoratamente "fine anni '60" di una dedica a Timothy Leary, guru delle droghe psichedeliche? Da notare l'uso molto originale del mellotron, cosa che si è sostanzialmente persa con l'arrivo degli anni '70 ed oltre, relegando troppo spesso questo primordiale campionatore a mero sostituto di tappeti d'archi o cori in parti più o meno epiche di qualche pezzo prog. Il brano cambia più volte e vanta anche un bell'assolo di flauto. A seguire, come per chiudere un cerchio, ecco la reprise di House Of Four Doors, o meglio la seconda parte, più breve ma in sostanza uguale alla prima.
Voices In The Sky è una bella ballata acustica che, per la prima volta in questo album, ci permette di godere della gran bella voce di Justin Hayward che tanto aveva caratterizzato Nights In White Satin. La leggerezza, spensieratezza e positività di questo brano è uno dei motivi per cui sempre più spesso mi ritrovo a tornare agli anni '60 e a non sopportare ciò che mi circonda oggi.
The Best Way To Travel è un altro brano immerso in quel periodo, parlando di viaggi spaziali e vantando dei begli intermezzi psichedelici. Meritevole di menzione l'ultima sequenza che continua mentre il pezzo sfuma: meravigliosa. C'è chi ci scriverebbe intorno un intero brano.
Ecco finalmente le ispirazioni orientali in Visions Of Paradise: un brano sospeso, volteggiante, sereno, quasi pastorale. Avrebbe potuto essere uscito da cose come Magical Mistery Tour dei Beatles. The Actor è invece un brano più "semplice" e pop, pur avendo un bel cambio di tempo ed atmosfera nel ritornello. Uno dei miei preferiti dell'intero album, il ritornello in particolare ha un che di liberatorio.
Il secondo poema di Graeme Edge, stavolta recitato da Mike Pinder, introduce il brano risolutivo, quello che rappresenta l'accordo perduto del titolo dell'album, il punto di arrivo di questa lunga ricerca: Om. Il brano indubbiamente più spirituale dell'album di nuovo con la presenza di strumenti orientali, questa sorta di mantra corale ci accompagna alla fine dell'album e di questo multicolore viaggio.
In alcune edizioni di questo album in CD, tra le varie bonus track, potete trovare anche A Simple Game, un gran bel pezzo uscito come singolo che non avrebbe sfigurato troppo nell'album, seppur distanziandosi un po' dai temi che lo caratterizzano.
Probabilmente uno degli album più solidi dei Moody Blues ed indubbiamente uno tra i miei preferiti; anche se, detto fra noi, a pescare un album qualunque tra Days Of Future Passed e Seventh Sojourn non si può certamente rimanere delusi. Qui però i Moodies sembrano osare un po' di più che in altri casi, prima di semplificare un po' il loro suono e le loro composizioni album dopo album, che spesso si "limitano" ad essere ottime raccolte di canzoni. Non è un concept album ma dà quella sensazione. Consigliatissimo a chiunque ami il progressive rock, il pop inglese anni '60, la psichedelia e tutto ciò che sta nel mezzo. Un 9 per me.

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