martedì 3 luglio 2018

Robert Wyatt - Rock Bottom (1974) Recensione

Un album considerato da molti come l'opera migliore di Robert Wyatt, un album che svetta su molti contemporanei distinguendosi non poco stilisticamente, un lavoro personale come pochi altri, commovente, intenso, potrei continuare all'infinito.
Molti dicono che Rock Bottom sia il risultato della caduta che costrinse Wyatt in sedia a rotelle, mentre in realtà non è propriamente così. Indubbiamente ciò ha comunque lasciato un segno, riscontrabile banalmente nell'assenza del Wyatt batterista e nella sua concentrazione sul canto, le tastiere e le più semplici percussioni, ma i brani che compongono Rock Bottom sono in realtà stati composti a Venezia nel 1973, prima della caduta. La sua futura moglie Alfreda Benge era infatti lì per lavoro, essendo allora un'attrice, e Wyatt in quel periodo si procurò un organo Riviera ed iniziò ad abbozzare i brani che poi finirono nell'album. Quello stesso organo finirà per caratterizzare l'album quasi quanto la voce di Wyatt. Ovviamente Robert continuò a lavorare ai pezzi anche mentre era all'ospedale, grazie alla presenza di un pianoforte, e l'album uscì il 26 Luglio 1974.
Wyatt chiamò molti amici a collaborare: come Nick Mason alla produzione, Hugh Hopper e Richard Sinclair al basso, Laurie Allan alla batteria, Mongezi Feza alla tromba...
Ciò che ne uscì fu un lavoro con un che di acquatico, sospeso, sognante, ma allo stesso tempo straziante e toccante come poche altre cose. Sea Song ben rappresenta il tutto, essendo non per niente anche il brano più celebre dell'album: una delle più curiose e particolari canzoni d'amore mai scritte, raggiunge il suo apice nella coda, con vocalizzi tipicamente Wyattiani che tanto devono alle parti di fiati tipiche del jazz. Sei minuti di perfezione sonora raggiunta tramite l'imperfezione. E forse sta proprio lì il fascino dell'album: nella fragilità, nel non essere tecnicamente perfetto e pulito, a differenza di altri album contemporanei e non. E questo, insieme al rifiuto dello stesso Wyatt di comporre musica complessa per il solo gusto di farlo (lui ha sempre rispettato il pop), mette i suoi lavori in un territorio tutto sommato esterno e parallelo a ciò che stava diventando il progressive a metà anni '70. A Last Straw è un altro brano che vanta una performance vocale di Wyatt che ha dell'incredibile: sembra veramente di ascoltare un assolo di tromba nella sezione centrale. Un tripudio di ottoni introduce Little Red Riding Hood Hit The Road, che mantiene un ritmo sostenuto e un che di caotico per praticamente tutta la sua durata, introducendo però ad un certo punto una parte cantata su accordi più sinistri, e ad esattamente metà della sua durata il tutto viene ripetuto al contrario. Ed intendo letteralmente: l'intera prima metà suona al contrario avendo invertito il nastro, con l'eccezione del basso di Richard Sinclair, a cui è stato detto di suonare anche sulla parte al contrario, e alcune parti vocali. Una breve sezione parlata di Ivor Cutler fa la sua prima apparizione qui in chiusura, e lo ritroveremo alla fine dell'album.
I due brani che seguono, Alifib e Alife (dedicati entrambi ad Alfreda Benge, detta Alfie), sono a mio parere l'apice dell'album insieme a Sea Song.
La prima ha un inizio sospeso, sereno, con una ritmica caratterizzata dalla ripetizione del titolo sottovoce, fino al suo passaggio in minore, su cui Wyatt canta un testo al limite del nonsense con un fascino indescrivibile. "Alife my larder" viene ripetuto più volte, quasi come un mantra, e l'interpretazione di Wyatt non può non emozionare. Senza alcuna pausa ci ritroviamo in Alife, dove il testo del brano precedente viene ripetuto parlato, o dovrei forse dire recitato, con un sax letteralmente folle che barbotta in risposta. Le percussioni di Wyatt accompagnano il brano, dove ad un certo punto il sax di Gary Windo avanza sotto i riflettori e sfoga tutta la sua follia repressa, fino a che la stessa Alfreda Benge conclude il brano rispondendo alla lunga dedica di Wyatt: "I am not your larder, I am Alife your guarder".
Tredici minuti di indescrivibile fascino che vengono conclusi da Little Red Robin Hood Hit The Road, altro gran bel brano che inizia a mo di marcetta e lascia presto spazio ad un gran bell'assolo di Mike Oldfield alla chitarra. Dopo un ulteriore crescendo dove rientra Wyatt alla voce, il tutto si conclude con il ritorno di Ivor Cutler che, su una base di harmonium e viola, recita il testo in un modo monotono in bilico tra il comico ed il surreale. Una conclusione bizzarra ed inaspettata, come forse si possono descrivere molte altre cose di questo album.
Un album che sfugge ad ogni catalogazione, finendo per essere fuori dal tempo. Le interpretazioni vocali di Wyatt non hanno eguali, il suo non essere un cantante convenzionale qui si rivela in tutto il suo fascino (lo stesso Wyatt ha affermato di non usare tecniche tipiche del canto, e che il suo modo si è sviluppando imitando gli assoli di fiati nei dischi jazz).
La carriera di Wyatt, sia prima che dopo Rock Bottom, è piena di lavori di rilievo, anche in collaborazione con altri artisti, ma qui a mio parere raggiunge un apice a cui pochi possono ambire; e per questo, se proprio dovessi dargli un voto, sarebbe un 9,5.

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