giovedì 2 settembre 2021

Micky Dolenz - Dolenz Sings Nesmith (2021) Recensione


Uno dei due Monkees superstiti alle prese con un album di cover di brani composti dall'unico altro membro dei Monkees superstite? Sì, avete letto bene, e sì, si tratta della migliore uscita discografica Monkees-related da molti anni a questa parte. Ma andiamo con ordine.

Micky Dolenz è da sempre dotato di una voce spettacolare, criminalmente sottovalutata nel panorama musicale pop-rock, incredibilmente versatile e potente ancora oggi; Michael Nesmith invece, nonostante ancora oggi c'è chi vede i Monkees come dei semplici attori che facevano finta di suonare, è da sempre un compositore con i contro-cosiddetti, sia all'interno della suddetta band che nella sua sottovalutata carriera solista più di stampo country. L'idea è quindi stata quella di selezionare una manciata di brani ad opera di Nesmith, riarrangiarli (a volte anche pesantemente, grazie al contributo di Christian Nesmith, produttore e figlio di Michael), e riproporli con la voce di Dolenz. Il tutto con un titolo ed una copertina che rimanda a quel capolavoro di NILSSON SINGS NEWMAN di Harry Nilsson, quest'ultimo grande amico di Dolenz. Se a ciò aggiungiamo una spettacolare produzione che sfodera grande dinamica ed assenza di autotune (sì, guardo proprio te, GOOD TIMES!), ed il che oggi è una rarità in qualunque genere, le premesse per un piccolo capolavoro ci sono tutte!

Certo, non aspettatevi le hit dei Monkees riproposte in diversa veste, qui solo una manciata di brani dell'epoca trovano posto, e sono relativi "deep cuts", il resto proviene dalla carriera solista di Nesmith. Ad aprire tocca a Carlisle Wheeling, brano del 1967 scartato da THE BIRDS, THE BEES & THE MONKEES, che mantiene il suo andamento country, ma viene arricchito da un'introduzione di quartetto d'archi ed intermezzi psichedelici tanto inaspettati quanto benvenuti. Tocca poi a Different Drum, brano storico di Nesmith reso famoso da Linda Ronstadt, rirpoposto abbastanza fedelmente, giusto un po' più ritmato, mentre Don't Wait For Me, dall'album INSTANT REPLAY dei Monkees, è qui riarrangiata solo per chitarra e voce con ritmo più sostenuto. Con Keep On facciamo un salto nel pieno degli anni '70, dall'album AND THE HITS JUST KEEP ON COMING, tipico brano country qui con un arrangiamento ben più potente e grandioso, più rock, con un organo Hammond in evidenza ed il bell'effetto Leslie sulla voce nei ritornelli: una grande versione. Discorso al rovescio per Marie's Theme, dal successivo album PRETTY MUCH YOUR STANDARD RANCH STASH, che qui perde l'Hammond, si colora di strumenti acustici, un ritmo diverso ed una spettacolare lap steel ben in evidenza. La bellissima Nine Times Blue, scarto dei Monkees datato 1968 poi riproposto da Mike nel suo album MAGNETIC SOUTH, qui è stata riarrangiata solo per piano e voce, con una spettacolare performance di Dolenz, e messa in totale contrasto, senza alcuna pausa, con la successiva Little Red Rider, tratta dallo stesso album e qui indurita non poco, trasformata quasi in un brano hard rock con tanto di assolo di Hammond a la Deep Purple. Con questi due brani, senza nulla togliere ai precedenti, l'album inizia a prendere quota verso livelli altissimi. Tomorrow And Me, di nuovo da AND THE HITS..., è una gradita pausa per tirare il fiato, rallentata e con un bellissimi interventi di violino, prima dell'entrata di Circle Sky. Uno dei brani di punta del controverso e folle HEAD dei Monkees, qui è pesantemente stravolto e trasformato in una sorta di raga indiano, scelta tanto coraggiosa quanto incredibilmente riuscita, che oltretutto aggiunge ulteriore varietà e colore sonoro ad un album la cui produzione ed arrangiamenti già fin qui erano stati da applausi. Propinquity (I've Just Begun To Care), altro scarto dei Monkees di stampo country del 1968, poi riproposto da Nesmith nell'album NEVADA FIGHTER  del 1971, qui si guadagna un andamento più pop-rock radiofonico, ed è un'altra gradita pausa prima dell'altro indiscutibile capolavoro dell'album. Tapioca Tundra è sempre stato uno dei più bei brani composti da Nesmith, presente in THE BIRDS, THE BEES & THE MONKEES del 1968, qui viene riproposto in un arrangiamento che definire eclettico sarebbe riduttivo. Dopo un inizio sospeso con tanto di theremin il brano decolla cambiando continuamente tempo tra 3/4 e 4/4, con un Dolenz in formissima, bellissimi cori che entrano ed escono in continuazione, ed un finale epico che sembra quasi uscire da ABBEY ROAD dei Beatles. Difficile dare seguito ad un brano del genere, ma ci prova Only Bound, di nuovo da NEVADA FIGHTER, altro bellissimo brano country qui rallentato e disteso, quasi come la calma dopo la tempesta, seppur a sua volta vanti inaspettati interventi corali (colorati di Leslie), che accompagnano il brano alla chiusura sfumando tra fiumi di phaser, per poi trasformarsi in You Are My One (l'originale, da TANTAMOUNT TO TREASON, VOLUME ONE del 1972, era a sua volta immersa nel phaser), qui solamente citata per poco più di un minuto quasi come una ripresa dopo il falso fade-out di Only Bound. Un'altra inaspettata trovata che chiude un altrettanto inaspettato piccolo capolavoro di album.

Devo ammettere che gli album di cover raramente mi interessano: devo essere fissato con l'interprete che decide di farlo, mi devono perlomeno piacere o interessare le canzoni reinterpretate, devono avere qualcosa in più da offrire nella loro nuova veste, insomma non è un'operazione facile. LONG WAVE di Jeff Lynne, nella sua estrema brevità, rimane uno dei miei preferiti, mentre il recente IN TRANSLATION di Peter Hammill, con tutto il rispetto, personalmente l'ho trovato di una tristezza tanto di moda di sti tempi quanto odiata dal sottoscritto (abbiamo veramente bisogno di altra negatività di sti tempi?). Limiti miei, senza dubbio, ma DOLENZ SINGS NESMITH è una gioia dal primo ascolto, ed una volta ultimato viene immediatamente voglia di rimetterlo da capo. Si dimostra in grado sia di ribadire le doti compositive di Michael Nesmith, sia quelle interpretative di Micky Dolenz, tutt'altro che intaccate dall'età. Un album passato enormemente in sordina anche per via della perdurante (e falsa) fama di "non musicisti" che ancora oggi grava sulla musica ed i membri dei Monkees. Un plauso va poi fatto a Christian Nesmith, la cui produzione e gli arrangiamenti "fanno" l'album tanto quanto la voce di Dolenz, e gli regalano un suono caldo, potente e vario che pochissimi album di nuova uscita possono vantare. 

Probabilmente una delle più inaspettate e gradite sorprese discografiche di quest'anno. Consigliatissimo a chiunque ami la musica in generale. 

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