giovedì 27 settembre 2018

Jean Michel Jarre - Zoolook (1983) Recensione

Forse uno dei lavori più sperimentali di Jean Michel Jarre, si rivela essere a mio parere anche uno dei più interessanti e particolari. La sua caratteristica principale, che è poi ciò che lo rende un lavoro in sostanza unico nella sua discografia, è il ruolo di primaria importanza che ha la voce. Non si tratta però di parti cantate, bensì di un uso di diverse parti vocali (sia parlate che cantate) campionate e "suonate" attraverso il Fairlight, uno dei primi campionatori. L'album è infatti letteralmente ricoperto di frammenti vocali usati in sostanza come uno strumento, come un sintetizzatore, risultando quindi spesso in melodie costituite da una sillaba "suonata" a diverse altezze, oppure ritmi che partono da collage vocali... Il tutto usando parti in, pare, ben 25 lingue diverse. A questo viene aggiunta poi, altra cosa rara per Jarre, la presenza di una vera e propria band (Adrian Belew alla chitarra, Marcus Miller al basso e Yogi Horton alla batteria), ed il che dà un suono più organico al tutto, potando certi brani in territori quasi new wave, in totale contrasto con la freddezza e la resa quasi robotica delle voci. Altro particolare importante è l'influenza dell'altro progetto di Jarre, in sostanza contemporaneo: Music For Supermarkets (ne parlo qui). Senza scendere troppo nei particolari, basta ascoltare i due lavori per notare vari punti in comune, idee che da Supermarkets sono poi state riarrangiate ed inserite in questo Zoolook (ad esempio Blah Blah Cafè e l'ultima sezione di Diva).
Il risultato è un album con alti e bassi, di cui il punto più alto è senza dubbio la traccia di apertura Ethnicolor. L'inizio è caratterizzato da una lunga sezione atmosferica piuttosto sinistra, che comunica quasi un senso di desolazione, oscurità. Già qui ci sono suoni e voci (si fa subito notare Belew con i suoi elefanti chitarristici) che rendono il tutto davvero indescrivibilmente inquietante. Dopo un po' entra una sorta di loop ritmico formato da voci che è, di nuovo, qualcosa di particolarmente sinistro. Fa strano infatti sentire voci umane avere il ruolo di, sostanzialmente, macchine. Una cosa che continuerà certamente per tutto l'album, ma senza raggiungere vette di questo livello a mio parere. A questo punto si unisce il resto della band e fa subito notare quanto una presenza effettivamente umana possa aiutare non poco la resa di album di questo tipo, seppur strettamente elettronici per natura. La successiva Diva vede invece la presenza, questa volta davvero alla voce vera e propria, di Laurie Anderson, che offre un'interpretazione piuttosto particolare e sperimentale ad un altro brano che inizia sinistro per poi diventare più ritmico. Non uno dei miei preferiti, ma sicuramente interessante.
La title track è il classico pezzo da classifica di Jarre, molto melodico, ritmato, ma la cui melodia è creata con una voce "suonata". Il risultato è strano all'ascolto, e a mio parere con l'uso di un più normale sintetizzatore il risultato ne avrebbe giovato, ma in linea con l'identità dell'album direi che è quantomeno godibile. Wooloomooloo è in sostanza un brano atmosferico di transizione che ci porta a Zoolookologie, altro brano leggero e ritmato come che si fa apprezzare. Blah Blah Cafè è invece interessante: un brano un po' più lento e "pesante" nel ritmo, molto meccanico nella resa, ma con un suono di sintetizzatore che ho trovato identico a quello usato da Tony Banks nel finale di The Light Dies Down On Broadway in The Lamb Lies Down On Broadway. Una chicca per i proggettari.
L'album finisce poi per sfumare con Ethnicolor II, altro brano atmosferico che porta l'album a concludersi con toni simili all'apertura, anche se forse meno oscuri.
Insomma un album davvero molto interessante e "diverso" se confrontato con gli altri lavori di Jean Michel Jarre. Inizia alla grande e forse perde un po' man mano che va avanti, ma in quanto lavoro sperimentale va preso per quello che è. Non è di facile ascolto come i precedenti e gran parte dei successivi, ma non si tratta neanche del Trout Mask Replica della musica elettronica. Semplicemente può far strano l'uso delle voci ed un tono forse più che mai freddo e meccanico. L'uso dei sample prenderà poi via via un uso sempre meno interessante a livello puramente artistico nella musica, in bilico tra l'imitare la realtà (vedasi molti ottimi plugin), che forse è la cosa più utile e sensata, ed il citare opere d'altri totalmente decontestualizzate, cosa che ho sempre odiato. Qui siamo agli albori di questa tecnologia, che quindi viene usata un po' come un giocattolo, ma che a tratti permette a Jarre di raggiungere ottimi risultati, come in Ethnicolor.
Non il mio lavoro preferito di Jarre, ma un album che fa sempre piacere tornarci. Un 7,5 come voto.

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