martedì 25 settembre 2018

Sparks - N. 1 In Heaven (1979) Recensione

Dopo il trittico perfetto di Kimono My House, Propaganda e Indiscreet, gli Sparks pubblicarono una serie di album un po' meno a fuoco dei precedenti. I risultati in termini di successo, che già all'uscita dell'ambizioso Indiscreet iniziarono a calare, ne risentirono non poco. Ciò porto i fratelli Mael a cercare una direzione totalmente diversa, abbandonando di fatto il rock. Ci fu infatti l'idea di una collaborazione con Giorgio Moroder, all'epoca rinomato produttore famoso soprattutto per il lavoro con Donna Summer, proprio per portare gli Sparks ad un suono più elettronico ed affine alla disco music.
Via libera quindi a sintetizzatori di ogni tipo che letteralmente dominano ogni brano di questo disco, uniti ai tipici ritmi ossessivi del genere. Ritmi particolarmente coinvolgenti soprattutto in quanto caratterizzati dalla presenza di una batteria acustica e non di una drum machine.
Il tipico gusto melodico e stralunato unito a testi divertenti dall'umorismo tra il demenziale ed il "tongue in cheek" che tanto hanno caratterizzato gli Sparks precedenti è ovviamente presente, ma le tipiche prestazioni vocali di Russel Mael sono qui in un certo senso meno "taglienti" e più potenti, grazie soprattutto alla scelta di raddoppiare le tracce vocali e di aggiungere un supporto corale.
Difficile scendere nel dettaglio di ogni brano, tanto è compatto e unito il risultato, senza però per questo risultare noioso o ripetitivo. I suoi 33 minuti di durata scorrono via senza che neanche ce ne si accorga, e forse questo è il suo più grande difetto: la brevità. Difetto, o caratteristica, che però condivide con gran parte degli album di disco music contemporanei.
Ogni brano è un ottimo esempio di come la disco possa essere un genere interessante e godibile anche da chi, come il sottoscritto, non è particolarmente amante del genere. Sì, perchè seppur la resa sonora generale sia totalmente vittima di tutti i pregi ed i difetti di quel genere, la composizione si rivela essere decisamente più originale della media. Stiamo parlando degli Sparks dopotutto, seppur con l'importante contributo di Giorgio Moroder. Contributo che, ricordiamo, non si limitò alla produzione ma anche alla composizione e agli arrangiamenti, esempio più unico che raro in una band dove di solito Ron Mael si occupa quasi esclusivamente di questi ultimi aspetti.
Un album leggero, divertente, interessante, che può far venire voglia di ballare e stampare un sorriso in faccia anche al più insensibile pezzo di legno di questo mondo.
Purtroppo la perfezione di questo lavoro non ebbe un seguito, in quanto il successivo Terminal Jive, di nuovo con Moroder, si rivelò essere molto meno brillante. Ciò portò Ron e Russel a riconsiderare le sonorità più affini al rock, stavolta però tinte da una piacevolissima new wave in piccoli gioiellini come Whomp That Sucker e Angst In my Pants, i loro migliori lavori degli anni '80.
Ma tornando a N. 1 In Heaven, fu curiosamente anche uno dei loro pochi lavori, se non l'unico, che riuscì ad arrivare nell'ottusa Italia grazie al singolo Beat The Clock, che spesso è l'unica canzone a cui si associa il nome Sparks qui, e parlo per esperienza (in casi più fortunati si può parlare di This Town Ain't Big Enough For Both Of Us, ma non allarghiamoci troppo). Da un lato mi fa piacere vedere che comunque un minimo siano riusciti ad arrivare anche qui, ma dall'altro è un grande dispiacere notare che in sostanza fu l'unico caso, portando alcuni ad associare il nome Sparks a Beat The Clock, che non è affatto un brano rappresentativo della loro lunga ed eclettica carriera.
Ma a parte questo, è un album consigliatissimo a chiunque, un capolavoro della disco music. Un 8,5 per me.


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