domenica 24 giugno 2018

Jean Michel Jarre - Revolutions (1988) Recensione

Non ho mai capito la tendenza diffusa di criticare album di natura più eterogenea. Noto infatti che molti, di fronte a lavori che spaziano stilisticamente più del normale, magari alternando generi diversi, tirano spesso fuori la magica carta della "mancanza di direzione". Come se un album debba seguire per forza dei binari, indossare i paraocchi, e guai a guardarsi intorno eh!
Personalmente, gran parte degli album che citerei tra i miei preferiti in assoluto sono proprio caratterizzati da una discreta varietà di generi e stili al loro interno. Dopotutto per i primi dieci anni della mia vita abbinavo il concetto generale di musica ai Queen (che rimangono comunque uno dei principali riferimenti ancora oggi), fate un po' i conti...
Comunque, nel 1988 Jean Michel Jarre pubblica un album piuttosto interessante; un lavoro che forse è facile dimenticare oggi, complice l'ombra ingombrante di album come Oxygene e Equinoxe ed i suoni tipicamente anni '80 (paradossalmente più datati di quelli anni '60 e '70 se ascoltati ora) che lo caratterizzano.
Indubbiamente il picco dell'album si ha subito all'inizio, con i quasi 17 minuti della suite in 4 parti Industrial Revolution (ogni brano esiste anche in versione titolata in francese, non fatemi tradurre che è una cosa ovvia). Il brano in generale è caratterizzato dal contrasto tra arrangiamenti orchestrali, seppur ovviamente creati con sintetizzatori (in questo caso il Roland D-50), e da basi ritmiche atte ad imitare macchinari vari della rivoluzione industriale, appunto. Le varie parti alternano sezioni particolarmente epiche (come la prima parte dopo l'overture e la seconda) a sezioni caratterizzate da ritmi più lenti e meccanici; in generale annovero Industrial Revolution tra le cose migliori mai fatte da Jean Michel Jarre.
Ma, siamo già a quasi metà album, e tutto quel discorso sulla varietà stilistica? Effettivamente Jarre in quest'album crea un contrasto particolarmente evidente tra questo primo, epico, brano e la serie di pezzi più brevi che lo seguono, ed il che è un po' un rischio ovviamente. 
London Kid infatti non sembra neanche essere un pezzo di Jarre, vantando la presenza di Hank Marvin alla chitarra, che suona insieme ai vari sintetizzatori una melodia semplice su una base ritmica squadrata. Non si tratta di un brano particolarmente memorabile, ma devo dire che contestualizzato ha il suo perchè. Risolleva di molto l'atmosfera pesante creata da Industrial Revolution. La title track è forse il brano dove varie influenze si incontrano in modo più inaspettato: un inizio dalle atmosfere tra il mediorientale e l'arabo viene gradualmente sovrastato da sequenze elettroniche, una voce robotica esclama "revolutions" ed il ritmo diventa più sostenuto, pur mantenendo le atmosfere dell'inizio. La voce in questione continua poi per tutto il brano, e questo è ciò che dice:

Revolution!

Human; Not Human
Freedom; No Freedom
Change; No Change
Revolution!

Employment; No Employment
Choice; No Choice
Memory; No Memory
Revolution!

Revolution!

Sex; No Sex
TV; No TV
Furture; No Future
Revolution!

Computer; No, No Computer
Sex; No, No, No Sex
Memory; No, No, No Memory
Revolution!

Choice; No Choice
Freedom; No, No Freedom
TV; No, No, No TV
Change; No, No Change

Un brano che può lasciar perplessi coloro che, come il sottoscritto, non sono grandissimi fan dell'elettronica, ma che dopo ripetuti ascolti ho imparato ad apprezzare non poco.
Tokyo Kid mi ha colpito un po' di meno, seppur si tratti di un altro esempio di contrasto coraggioso che combina di nuovo un ritmo pesantemente elettronico con la tromba di Jun Miyake. Interessante indubbiamente, ma sembra arrivare ad andarsene senza lasciare troppe tracce.
Computer Weekend invece sembra riportarci in territori più sereni e positivi, decisamente in contrasto con la freddezza del brano precedente, con addirittura un che di caraibico, forse nel ritmo. Di nuovo non un capolavoro, ma funziona bene alternata alle altre tracce.  
September è invece un breve brano dedicato all'attivista sudafricano Dulcie September, assassinato a Parigi il 29 Marzo 1988, caratterizzato dalla presenza di un coro femminile di Mali.
L'album si conclude con The Emigrant, un brano che torna su toni sinfonici e chiude l'album nel migliore dei modi, risultando essere un altro emozionante picco a mio parere. 
Quest'ultima traccia e l'intera suite Industrial Revolution consiglio caldamente di andarle ad ascoltare anche nella versione dell'album The Symphonic Jean Michel Jarre, in cui l'arrangiamento orchestrale fa capire ancora meglio di che gran bei brani si tratti. 
Insomma un album con picchi altissimi e brani che indubbiamente finiscono per sfigurare a confronto, ma che proprio grazie alla diversità di stili presenti (dalla classica all'elettronica, dal jazz all'industrial, alla musica Araba...) risulta essere un ascolto perlomeno interessante. Sicuramente non ai livelli dei vari Oxygene et similia, ma non ha neanche molto senso confrontarli, essendo lavori diversi per natura. Un 7,5 per me.

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