domenica 2 giugno 2019

The Zombies - Odessey and Oracle (1968) Recensione

Strano destino quello degli Zombies, che li ha portati allo scioglimento dopo appena due album, o meglio, prima ancora che uscisse il secondo! Insoddisfazioni varie causate da fallimenti di alcuni singoli ed un generale calo di popolarità hanno portato questa band a sciogliersi a registrazioni ultimate, noncuranti della possibilità o meno che il risultato venisse poi apprezzato alla sua uscita. Ed infatti il risultato, chiamato Odessey and Oracle, piacque e non poco, ma a posteriori, quando la band ormai era morta e sepolta da tempo.
Certamente quelli furono anni pieni di capolavori, e per questo è normale vedere piccoli gioielli "perdersi" e venir riscoperti solo successivamente (S.F. Sorrow dei Pretty Things e Forever Changes dei Love ne sono due esempi); per gli Zombies non fu proprio così, in quanto un singolo in particolare, Time Of The Season, già nel 1969 fece breccia nelle classifiche americane, ma era ormai troppo tardi. Eppure l'album sembrava essere perfettamente in linea con tutto ciò che andava di moda in quel periodo, soprattutto tenendo conto che, pur essendo stato pubblicato nel 1968, è un album concepito nel pieno del 1967 (il primo ad essere registrato ad Abbey Road dopo che i Beatles finirono Sgt. Pepper), con una copertina iconica (che curiosamente causò un cambio forzato al titolo dell'album per via dell'errore del disegnatore che scrisse Odessey invece del normale Odyssey).
L'album è in sostanza quanto di meglio si possa volere dal pop di quegli anni, a partire da melodie memorabili per arrivare ad arrangiamenti mai banali e sempre pieni dei più disparati colori.
Si parte con Care Of Cell 44, un saltellante brano dal sapore Beachboysiano il cui testo è una immaginaria lettera alla compagna del protagonista che si trova in carcere e sta per uscire. Bellissimi i cori e spettacolare l'interpretazione vocale di Colin Blunstone, che svetta su molti cantanti a lui contemporanei. L'acustica A Rose For Emily prosegue mantenendosi su ottimi livelli con bellissime armonie vocali, prima della più canonica Maybe After He's Gone. Il trio di canzoni che segue, Beechwood Park, Brief Candles e Hung Up On A Dream, è probabilmente il primo importante picco dell'album, con melodie e arrangiamenti sempre interessanti, oltre che un uso del mellotron in contesti che, saturati come siamo oggi dal prog e dell'uso che se ne fa in quel contesto, suona decisamente fresco e piacevole. Hung Up On A Dream in particolare è senza dubbio una delle migliori composizioni in assoluto degli Zombies, oltre che una prova di ciò che il pop poteva e può tutt'ora essere se solo lo si volesse. Curioso poi che il proprietario di Beechwood Park abbia provato ad impedire l'uso di quel nome nella suddetta canzone (che tra l'altro, strettamente a livello temporale, sembra anticipare certe cose dei Love del già citato Forever Changes).
L'orientaleggiante Changes, tra percussioni e sempre bellissimo suono di flauti dal mellotron, fa da preludio a due canzoni più semplici, I Want Her She Wants Me e This Will Be Our Year, che seppur ottime tendono a ridimensionarsi non poco quando si arriva alla successiva A Butcher's Tale (Western Front 1914). Brano contro la guerra, tema in un certo senso tipico di quei tempi, è in realtà molto interessante ed originale nell'uso della fisarmonica e nell'interpretazione carica di pathos di Chris White, che è anche il compositore del pezzo. Una delle cose più belle che io abbia ascoltato in tempi recenti. Friends Of Mine alleggerisce il tutto e fa quel che può nel seguire cotanta bellezza, soprattutto visto che fa anche da preludio ad uno dei pezzi più celebri degli Zombies. Time Of The Season chiude l'album nel modo migliore possibile, tra strofe ritmicamente tutt'altro che banali, trionfale ritornello e finalmente uno spazio per le doti tastieristiche di Rod Argent nei due assoli di hammond jazzati. Si tratta di uno di quei brani che sanno squisitamente di "fine anni '60", proprio nell'atmosfera, nei suoni, in tutto, anche forse per l'estensivo uso che se ne è fatto in film e documentari che hanno a che fare proprio con quell'epoca.
L'album esiste sia in mono che in stereo, ed è uno dei pochi casi in cui mi sento quasi di consigliare più la versione in mono, in quanto a costo di perdersi i consueti pazzi "panning" di suoni tipici dei mix stereo anni '60, si guadagna un mix più omogeneo senza raggiungere punti caotici. Valore aggiunto in alcune edizioni in CD sono vari singoli e lati b dell'epoca, con perle come Imagine The Swan che non avrebbero affatto sfigurato nell'album.
In definitiva Odessey and Oracle si tratta di un piccolo gioiello piacevole all'ascolto, né ostico né mai totalmente banale, colorato, vario, scorrevole e semplicemente bello. Tutto ciò che il pop dovrebbe essere.

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