lunedì 13 agosto 2018

The Alan Parsons Project - I Robot (1977) Recensione

Dopo un primo lavoro interamente dedicato alle opere di Edgar Allan Poe, ci fu l'idea di basare il secondo su I, Robot di Isaac Asimov. Purtroppo, a causa di alcuni problemi a livello legale, l'idea dovette essere ridimensionata: il titolo perse la virgola e le tematiche diventarono più generalmente basate sul rapporto uomo - robot perfettamente riassunto all'interno della copertina.
"I Robot ... La storia dell'ascesa della macchina e il declino dell'uomo, che paradossalmente è coinciso con la scoperta della ruota ... e avvertimento che la sua breve posizione dominante di questo pianeta probabilmente finirà, perché l'uomo ha cercato di creare il robot a sua immagine."
Musicalmente l'album segna un ulteriore spostamento verso territori più pop, differenziandosi in particolar modo dal precedente Tales Of Mystery And Imagination per l'assenza di una lunga parentesi strumentale nella seconda metà. Elemento comunque presente, ma in un certo senso meglio amalgamato nel tutto. Ovviamente il tutto inizia con la consueta introduzione strumentale, e subito è caratterizzata dal tipico stile tastieristico di Eric Woolfston, che da questo album in poi finirà per essere una delle colonne portanti del suono di questa band, oltre alle sue composizioni. La title track quindi introduce l'album in uno stile che ritornerà puntualmente in brani come Mammagamma, Sirius e The Golden Bug, tutti brani dove il tema principale viene ripetuto in modo ossessivo, ampliato, rigirato in vari modi, e si collega direttamente alla prima vera e propria canzone dell'album, oltre che il brano più famoso contenuto in esso. I Wouldn't Want To Be Like You non è tra i miei pezzi preferiti dell'APP, ma è importante in quanto esordio di Lenny Zakatek alla voce, presenza ricorrente nei lavori della band. Il brano deve molto alle sonorità disco/funk molto in voga a fine anni '70, e nonostante non mi abbia mai fatto impazzire, ammetto che contestualizzato nell'album ha un suo perchè. Discorso decisamente diverso per Some Other Time, una ballata tipica dello stile dell'APP veramente sublime, uno dei brani che più mi sono rimasti insieme alla simile (nel senso che anch'essa è una ballata, ma le similitudini si fermano qui) Don't Let It Show. Entrambi sono brani che, nella loro semplicità, elevano l'album portandolo in territori pop splendidamente arrangiati, dove strumenti orchestrali, chitarre e sintetizzatori convivono armoniosamente, legati da performance vocali sempre di altissimo livello. Nel mezzo c'è Breakdown a spezzare il ritmo, che se di per sé può sembrare un brano piuttosto semplice e canonico, ma una volta arrivati al finale non si può non rimanere a bocca aperta davanti all'entrata in scena di un imponente coro che volteggia, si intreccia, ed impone la sua presenza anche in un contesto a lui estraneo per natura. Da applausi.
The Voice è invece un brano che può colpire un po' di meno, sembrando semplicemente "un altro di quei pezzi poppettari alla APP", ma poi arriva la sezione centrale strumentale con battimani e intrecci di archi che tanto deve al classico Papa Was A Rolling Stone a farci ricredere. Un altro esempio di contrasti sonori e stilistici fatti meglio che mai. L'atmosferica e quasi spaziale Nucleus fa quasi da intermezzo ed introduce Day After Day (The Show Must Go On), ultimo brano cantato del disco. Un pezzo lento e malinconico che sembra quasi essere l'ultimo saluto dell'umanità prima del sopravvento dei robot. Sopravvento che sembra realizzarsi nella sinistra Total Eclipse, unico brano firmato da Andrew Powell dove coro ed orchestra si inseguono creando dissonanze oscure ed inquietanti. Senza alcuna pausa si collega Genesis CH 1 V. 32, magnifico ed epico brano conclusivo, di nuovo strumentale. Interessante notare come il versetto 32 nella Genesi non esista, e che quindi stia a significare una sorta di nuovo inizio, una continuazione del libro della Genesi, senza però spiegare se ad opera dei robot che hanno preso il sopravvento o degli umani sopravvissuti.

Indubbiamente uno dei migliori album dell'Alan Parsons Project, oltre che quello da me più sottovalutato per tanto tempo, fino a ricredermi in tempi recenti. Certo, fino almeno ad Eye In The Sky non sbagliarono (quasi) un colpo, ma l'equilibrio e la profondità raggiunta in I Robot è rara da trovare in altri loro lavori. Un 8,5 per me.

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