giovedì 9 agosto 2018

Led Zeppelin - Houses Of The Holy (1973) Recensione

Forse l'album più vario dei Led Zeppelin, si rivela anche essere il mio preferito. Sì, perchè pur amando gli altri loro lavori, trovo che qui ci sia più carne al fuoco, e anche i brani che normalmente verrebbero visti come "riempitivi" funzionano discretamente. Innanzitutto il blues è un vecchio ricordo, e questo è un primo punto a favore (non amo il blues, diciamo che lo tollero nel caso degli Zeppelin), e ciò lascia spazio sia a brani più maturi e personali, sia a esperimenti con vari gradi di riuscita. Innanzitutto l'inizio è devastante con The Song Remains The Same: un classico dal ritmo cavalcante che mostra per la prima volta molto bene "l'orchestra di chitarre" di Jimmy Page. Insomma, un modo di arrangiare varie sovraincisioni di chitarra incrociate fra loro (in questo caso sia a 6 che a 12 corde) che raggiungerà indubbiamente l'apice in Achilles Last Stand qualche anno dopo. E che dire della sezione ritmica di Bonham e Jones? Inarrivabile. Unico punto "debole", se proprio vogliamo andare a cercare il pelo nell'uovo, è la voce di Plant.
Per qualche motivo infatti in gran parte dell'album la sua voce suona come accelerata, più acuta, più stridula. I più maligni dicono che si trattò di un tentativo di mascherare la sua voce calante velocizzando il nastro, ma la realtà dietro ai motivi di questa scelta non si sa. Anche vero poi che, nello specifico caso di The Song Remains The Same, la voce è stata aggiunta dopo in quanto non prevista nell'idea originale del brano; motivo per cui può risultare forzata in alcuni punti. Discorso decisamente diverso per la successiva The Rain Song, un'anomalia nel catalogo di questa band, caratterizzata da un'atmosfera malinconica e dai riuscitissimi interventi di John Paul Jones al Mellotron. Notevoli le sequenze di accordi di Page, che dimostrano quale fosse il suo vero punto di forza quando confrontato con altri chitarristi contemporanei, e l'entrata ritmica molto intensa. Senza dubbio uno dei più bei brani dell'album e non solo. Questa doppietta di brani trovo che ci guadagni parecchio nella versione live di The Song Remains The Same. A tenere alto il livello ci pensa Over The Hills And Far Away, brano forse un pelo meno conosciuto dei precedenti, ma che grazie alla riuscitissima alternanza acustico-elettrica, riesce a tirare fuori il meglio della personalità della band. Anche qui bellissime parti di chitarra. La sezione centrale dell'album è forse quella meno "impegnativa", caratterizzata da quelli che si potrebbero definire divertissement. The Crunge ne è un primo, perfetto, esempio. Un funk che sembra quasi una parodia di James Brown, suonata in parte su un tempo dispari e con un divertente testo (molto probabilmente in gran parte improvvisato) che si conclude con Plant che continua a chiedere dov'è il bridge, sezione del brano che effettivamente manca. Un Bonham animalesco qui. Dancing Days pare un semplice brano quasi pop ad un primo ascolto, almeno finchè non si fa caso alle parti di chitarra, suonate con un'accordatura aperta e con accordi non certo comuni. Un brano forse un po' dimenticato ma godibile. D'yer Mak'er (che poi, dopo anni, ho scoperto che si legge Jamaica) è invece forse il pezzo più controverso, in quanto goliardico esperimento reggae, in linea con l'esplosione di quel genere di quel periodo. A me personalmente piace, e lo trovo anzi ben piazzato prima di quello che forse è il miglior brano dell'intero album. No Quarter mostra davvero la piena maturità dei Led Zeppelin, con un brano imponente, misterioso e dalle tinte psichedeliche.
Anche qui la voce di Plant è modificata, ma in senso opposto, rallentata. Un brano che raggiungerà vette inarrivabili in sede live, arrivando anche alla mezz'ora abbondante di durata nel tour del 1977, con un assolo centrale particolarmente esteso. Probabilmente però la miglior versione live, la più equilibrata, rimane quella dell'album The Song Remains The Same (attenzione, mi riferisco all'album originale del 1976, che sia nel film che nella versione del 2007 l'assolo centrale è tagliato). L'album si conclude con quello che forse è il pezzo più tipicamente "alla Zeppelin" dell'album, la coinvolgente The Ocean. Riff perfetto, voce acutissima per i motivi sopra citati, bel cambio sul finale; insomma un bel modo di chiudere l'album.
Curioso notare come la title track sia di fatto stata scartata e sia finita, un paio di anni dopo, nel successivo Physical Graffiti. Tra l'altro insieme ad un altro scarto delle sessions, Black Country Woman. Un ultimo scarto, Walter's Walk, finirà in Coda.
Quindi, se i primi due album dovevano molto al blues, il terzo al folk ed il quarto, nonostante vette irraggiungibili, ha brani che trovo dura sopportare (Four Sticks, Misty Mountain Hop), qui secondo me c'è un equilibrio sorprendente. Già nel successivo doppio Physical Graffiti ad esempio, anche se è un album che adoro e metterei al secondo posto, c'è una sovrabbondanza di materiale anche non memorabile, poi con Presence e In Through The Out Door c'è un evidente calo con solamente alcuni ottimi brani sparsi. Houses Of The Holy invece ci mostra una band affiatata, con una personalità ormai ben sviluppata in quattro anni di attività, una voglia di sperimentare più evidente che in altri lavori ed almeno quattro brani su otto che definirei capolavori. Il resto è "semplicemente" godibile e divertente, ed il che non guasta. Come voto si merita un 8,5.
E della copertina non ne parliamo? No, meglio di no va...

Nessun commento:

Posta un commento