mercoledì 3 luglio 2019

The Crazy World Of Arthur Brown - Gypsy Voodoo (2019) Recensione

Nonostante Zim Zam Zim del 2013 sembrasse essere l'ultimo album in assoluto dell'oggi settantasettenne Arthur Brown, a sorpresa e senza alcun annuncio precedente lo scorso 26 Giugno esce questo Gypsy Voodoo, anch'esso, come Zim Zam Zim, con il recentemente rispolverato nome "Crazy World". Certo non si tratta del Crazy World del primo album del 1968, quanto piuttosto un gran bel gruppetto di giovani musicisti che supportano egregiamente Arthur in concerto (ci sono in realtà due formazioni completamente diverse, una europea e una americana, a seconda di dove si svolgono i concerti, e qui sono presenti musicisti di entrambe le formazioni, con anche Pat Mastelotto non si sa precisamente dove).
Zim Zam Zim, che ho recensito qui, mi piacque parecchio, e anzi tutt'ora lo reputo tra le cose migliori mai fatte da Brown, e quindi è alquanto difficile mantenere livelli simili o addirittura alzare l'asticella, specialmente alla sua età. Ed infatti questo Gypsy Voodoo, a parere di chi scrive, sta qualche gradino più in basso per vari motivi, ma riesce comunque ad avere abbastanza punti di interesse da giustificare la sua esistenza. Su CD Baby, dove l'album è in vendita, la descrizione recita più o meno così: "Gypsy Voodoo è il culmine di un arazzo di parole, musica, ritmi, amicizia, risate e esplorazione musicale che si è sviluppato in oltre 30 anni. Arthur Brown e Mike Morgan hanno intrecciato parti narrate, Blues, Americana, Elettronica e Psichedelia".
Invitante, direi. La presenza di Mike Morgan si fa decisamente sentire, ed infatti l'album tende molto verso sonorità chitarristiche, ed in generale il suono è distorto e aggressivo. Brown canta sempre con grande autorità, e la title track in apertura ne è un perfetto esempio. Ritmi elettronici si fondono con molteplici riff chitarristici ed interventi di fiati, mentre Arthur fa impallidire intere generazioni di cantanti con un quarto della sua età.
La successiva Footsteps In The Desert è invece un più semplice brano rock, abbastanza trascurabile, salvato dalla voce di Brown. Decisamente meglio la curiosa The King, che si può quasi definire country-surf-psichedelico, e si conferma tra le cose più genuinamente malate dell'album (quanto sono belli gli interventi di chitarra e i cori stonatissimi?).
Places Of Love ci riporta di nuovo in territori rock con una forte presenza dei fiati, ma rimane un brano piuttosto monocorde nonostante i ritornelli che sicuramente funzioneranno alla grande dal vivo e i mini assoli dissonanti che vanno sempre bene.
The Mirror invece sfodera ritmi elettronici e dei riusciti intrecci di chitarre, in un pezzo che sembra essere uscito da un qualche album tra fine '70 ed inizio '80 di David Bowie.
Radiance continua su toni elettronici, questa volta decisamente più estesi e atmosferici, con Arthur a declamare versi recitati. Il pezzo scorre bene nonostante la sua ripetitività, e anzi ci regala un bellissimo assolo di chitarra sul finale. Una delle cose migliori dell'album finora.
Il livello rimane alto con Love And Peace In China, con versi che strizzano l'occhio al rap ed un magnifico ritornello decisamente oscuro. Nel mezzo affiorano riff più spinti, ed il finale è pura pazzia anarchica psichedelica. Altro grandissimo pezzo.
A questo punto l'album prende una direzione strana, rispolverando il Fire Poem e Fire, dal primissimo album del Crazy World. Si tratta di una decisione discutibile a parere di chi scrive, tuttavia giustificata dal pesante riarrangiamento di entrambe le tracce. Il Fire Poem diventa un pezzo in bilico tra l'elettronico e l'orchestrale, lasciandosi alle spalle tutta la psichedelica pazzia dell'originale, perdendo, a parere di chi scrive, molto del suo impatto. Certamente un ascolto interessante ed in linea con il resto dell'album, ma non saprei dire quanto necessario. Fire invece viene spinta oltre ogni limite immaginabile, diventando un inno hard rock nonostante l'azzeccatissima permanenza dei fiati. Certo, l'interpretazione di Brown cambia, ma la sua forza e veemenza vocale è totalmente intatta, in un altro brano dalla dubbia natura (in questi casi si tornerà sempre all'originale, c'è poco da fare), ma che si fa ascoltare molto piacevolmente.
L'album si conclude con The Kissing Tree, altro brano in gran parte narrato in linea con il resto dell'album, senza troppe sorprese, seppur godibile.
Insomma un album strano questo Gypsy Voodoo, e se da una parte è sempre un piacere sentire la voce di Arthur e, vista la sua età, ogni uscita a suo nome è letteralmente una manna dal cielo di cui dovremmo essere grati, dall'altro devo ammettere che mi ha lasciato un po' perplesso. Ripeto, arrivando da Zim Zam Zim le aspettative erano alte, ma ascoltando quest'ultima uscita si ha quasi la sensazione che il tutto inizi, passi e se ne vada senza lasciare molto dietro. Poi ovvio, uno potrebbe far notare che nella altalenante carriera di Arthur sono molteplici gli esempi di uscite non certo memorabili, anche ben peggiori di quella in questione; ma forse per la non necessaria presenza di Fire ed il Poem che occupano tempo prezioso in un lavoro che già di suo non è lunghissimo (siamo sui 45 minuti), Gypsy Voodoo dà la sensazione di essere un lavoro un pelino troppo affrettato, con punti di interesse e potenzialità (la title track, The King, The Mirror e Radiance su tutte) in mezzo a musica sicuramente godibile ma, purtroppo, spesso trascurabile.
Detto questo, nessuno è più felice del sottoscritto di vedere ancora Arthur Brown attivo come non lo fu neanche in età più giovane, con una voce ed una vitalità che vorrei avere io che ho molto meno della metà dei suoi anni. Quindi, alla luce di questo, Gypsy Voodoo merita qualche ascolto, senza la pretesa di essere un capolavoro.

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