giovedì 28 febbraio 2019

Lucifer's Friend - Lucifer's Fiend (1970) Recensione

Il 1970 fu senza dubbio un anno fondamentale nella storia del rock, in particolare per quell'ala più "heavy" che nel corso degli anni '70 si muoverà verso ciò che sarà definito metal.
Deep Purple In Rock, l'omonimo esordio dei Black Sabbath, Very 'eavy...Very 'umble degli Uriah Heep, mentre i Led Zeppelin sembravano guardare oltre con il loro in gran parte acustico III, pur sempre aperto da quello schiacciasassi che è Immigrant Song. Oltre ai soliti noti però c'era anche una meno celebrata band tedesca con cantante inglese, John Lawton, e dal curioso nome Lucifer's Friend. Dico curioso perchè proprio di quell'anno è il già citato esordio di una band che a sua volta implementava un riferimento satanico nel proprio nome, Black Sabbath; ma nel caso di questi Lucifer's Friend pare non ci siano palesi riferimenti a quel tipo di immaginario nella musica, sonorità a tratti oscure a parte. La band infatti si presenta con un suono non così distante dai sopra citati colleghi, con elementi spesso in comune che, vista la loro ben minore fama al confronto, ha portato più e più volte ad accuse di somiglianze varie, che ovviamente lasciano un po' il tempo che trovano se si va a vedere le varie date di uscita degli album. Insomma le influenze sono ovvie, ma non è che si siano messi a ricalcare i lavori degli altri, non ne avrebbero avuto il tempo, non stiamo parlando del prog italiano o americano. Si tratta più di "sentire" che aria tira ed inserirsi in un movimento in atto, senza necessariamente inseguire.
L'unica vera somiglianza sospetta si ha proprio nell'ottimo brano di apertura, Ride The Sky, dove su di un cavalcante e viscerale riff entra un corno francese a suonare pari pari la melodia di apertura di Immigrant Song dei Led Zeppelin. Calcolando che l'album dei Led Zeppelin è uscito appena un mese prima, potrebbe anche trattarsi di un effettivo plagio, ma personalmente lo vedo più come un caso.
Comunque si tratta di uno dei brani di punta dell'album, con un Lawton che sembra quasi anticipare un tipo di interpretazione ed approccio vocale che diventerà successivamente universalmente associato a Ronnie James Dio, il quale però nel 1970 non aveva neanche pubblicato il primo album con gli Elf.
L'album avanza monolitico con brani sempre potenti e trascinanti, spinti dalla canonica e riuscitissima combinazione di chitarra e organo tanto in voga in quegli anni, ma con una importantissima e rara presenza di ottime parti di basso in primo piano. Tutti i brani sono solidissimi, non c'è alcun punto debole, e forse l'unico "difetto" è la poca varietà che può portare a non ricordare i singoli brani per una qualche loro caratteristica peculiare, evidentemente assente e sacrificata sull'altare del più puro hard & heavy. Non si può però rimanere impassibili di fronte al maestoso assalto acido di Keep Goin', che avrebbe benissimo potuto far parte di un album di primissimi Uriah Heep. Considerazione questa non così campata per aria vista l'entrata di Lawton negli Uriah Heep nel 1977, scelta ottima sulla carta ma che portò alla realizzazione di album ben lontani da queste sonorità. In mezzo ci sono poi le esaltanti Free Baby e Baby You're A Liar, con tanto di ottimo assolo di organo alla Jon Lord che non guasta mai, e la conclusiva title track sembra quasi voler coniare un nuovo genere con la sua combinazione di blues, cambi progressive e atmosfere doom; un brano che sembra anche voler anticipare il ben più complesso secondo album, che uscirà da lì ad un paio di anni.
La versione CD offre poi ben 5 bonus track, sicuramente belle ed interessanti, ma purtroppo totalmente decontestualizzate essendo anche di 3 o 4 anni successive, risalenti ad un periodo della band ben diverso stilisticamente, tra un prog leggero e qualche tendenza fusion. Si può escludere da ciò la strumentale Horla, che non avrebbe sfigurato nell'album.
Nel successivo Where The Groupies Killed The Blues i Lucifer's Friend tenteranno una via fatta di musica ben più complessa, ma non totalmente distaccata dalle radici heavy dell'esordio, raggiungendo il loro indiscusso apice artistico. In questo primo album però si può ascoltare una band fresca, fatta di ottimi strumentisti, nel dettaglio Peter Hesslein, Dieter Horns, Jogi Wichmann e Stephan Eggert e, soprattutto, una delle migliori voci del genere, mai giustamente celebrata. I conterranei Scorpions prenderanno molto da questo album nei loro primissimi lavori, ed in generale non si può negare una qualità di fondo che non lo fa sfigurare se messo al fianco delle opere citate ad inizio recensione, seppur forse privo di un qualche brano veramente leggendario e di spicco in grado di trainare il tutto.
Un ascolto imprescindibile per i fan del genere, che si merita un 8.

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