lunedì 10 febbraio 2020

Journey - Infinity (1978) Recensione

Per una band in un certo senso "formata" ed affermata da tempo, con ormai tre ottimi album alle spalle come i Journey nel 1977, la decisione di prendere in formazione un membro aggiuntivo, nella veste di frontman, può esser vista come scelta perlomeno curiosa. Se poi questo frontman si rivela essere Steve Perry, allora ci si trova di fronte ad uno dei più particolari casi di cambio formazione perfettamente riusciti della storia del rock, in cui, anzi, il dopo raccoglie ancor più successo del prima.
Se i primi tre album dei Journey sembravano tendere più verso uno stile tecnico-virtuosistico non lontano dalla fusion, con l'entrata di Perry alla voce il tutto si sposta gradualmente verso quello che si può chiamare AOR, genere che tanto farà la fortuna loro, dei Boston, degli Asia, dei Toto e via dicendo, seppur tutti con uno stile ed un modo diverso, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80. Il picco questa band lo si raggiungerà tra il 1981 ed il 1983, con due album pieni zeppi di singoli di successo, Escape e Frontiers. Qui invece i Journey sono in una fase di transizione, dove l'evidente volontà di cambiamento fa muovere loro i primi passi verso la scrittura di piccoli gioiellini di pop-rock radiofonico. La produzione di Roy Thomas Baker poi è la ciliegina sulla torta in questo caso, in quanto i suoi trascorsi con i Queen non possono che far bene alle magnifiche armonie vocali di questa band. Fin da subito la ballata Lights, classico suonato live ancora oggi, mette in chiaro dove si vuole andare a parare, con melodie aperte, calde, squisitamente americane nella migliore accezione possibile di tale aggettivo, belle armonie ed il nuovo arrivato Steve Perry ad imporsi prepotentemente sin dalle prime note. Di certo la presenza della fu voce solista della band, oltre che tastierista presente ancora per una manciata di album, Gregg Roile, si sente ancora e non poco, tanto da aggiudicarsi anche il ruolo di cantante solista nella non particolarmente memorabile Anytime, oltre al gran bel duetto di Feeling That Way. E quest'ultimo elemento è forse uno dei punti forti della produzione dei Journey da qui ad Escape: il freno alla non ancora totale egemonia di Steve Perry.
Dove Infinity regala il suo meglio è probabilmente nelle ballate, in quanto oltre alla già citata Lights annovera perle come Patiently, Something To Hide, la conclusiva Open The Door e quella che, a parere di chi scrive, è la punta di diamante dell'album: Winds Of March. Questo brano è forse uno dei più particolari dell'album, in quanto tutte le caratteristiche compositive viste fino a questo punto sembrano essere ribaltate per far spazio ad inediti toni malinconici, oscuri, tanto da sembrare qualcosa degli Scorpions di In Trance.
In mezzo troviamo le più innocue ma piacevoli La Do Da e Can Do, che con il loro più semplice rock ritmato spezzano perfettamente il ritmo dell'album, ma soprattutto Wheel In The Sky che insieme a Winds Of March (a cui è effettivamente collegata) e Lights rappresenta il meglio dei Journey di quest'epoca.
I due album successivi, seppur con momenti altalenanti, manterranno un livello piuttosto alto con perle sparse qua e là, specie in Evolution, prima della conferma definitiva che arriverà nel 1981 con Don't Stop Believin' e Open Arms, tra le altre.
In Infinity però c'è un equilibrio che è difficile da trovare in altri album di questo genere, che lo rende un ascolto piacevole e scorrevole, seppur forse un po' troppo breve.

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