martedì 25 febbraio 2020

Nirvana - The Story Of Simon Simopath (1967) Recensione

Mi trovo spesso a chiedermi se possa esistere l'album perfetto. Ovviamente la risposta è no, in quanto la perfezione oggettiva non esiste e la presunta tale è sempre pesantemente soggetta ai nostri gusti, e di conseguenza quando parlo di perfezione mi riferisco sempre a quest'ultimo caso.
Ed è il caso di questo brevissimo album del 1967, il primo dei Nirvana (no, non QUEI Nirvana), The Story Of Simon Simopath. Curioso due greco-irlandese che sfornò un paio di gioiellini di pop barocco, prima dello scioglimento che portò la metà irlandese a proseguire con la band verso strade diverse ed un po' meno interessanti, il loro esordio si tratta molto probabilmente di uno dei primi concept album della storia. Questo ha portato negli anni i Nirvana ad essere definiti proto-prog, cosa decisamente non vera e facilmente smentita da un semplice ascolto dei brani in questione, che affondano i piedi fieramente nel miglior pop.
La storia è semplice e parla di Simon Simopath, un ragazzo che fin da piccolo sognava di avere le ali. Da bambino veniva deriso a scuola, e da adulto finisce a lavorare in un ufficio, davanti ad un computer; una vita triste che gli causa un esaurimento nervoso. Non riuscendo a trovare conforto in un istituto di cura, costruisce un razzo e vola nello spazio, incontra un centauro che diventa suo amico, e al Pentecoste Hotel incontra una piccola dea di nome Magdalena. I due si innamorano ed infine si sposano.
Una storia forse giusto un po' sconnessa e frettolosa (e forse anche posticcia, costruita intorno ai brani e non scritta a monte, anche se questo è irrilevante), ma perfettamente in linea con le tendenze colorate ed infantili di fine anni '60. Ad appena 25 minuti di durata l'album non ha alcun punto debole o di stanca, ogni brano arriva e se ne va facendo esattamente il suo dovere, e la noia viene tenuta lontana come in pochi altri album. La varietà di suoni, composizioni ed arrangiamenti è vastissima, seppur rientrante a pieno titolo in un pop di stampo barocco, che va dai toni quasi sinfonici di Wings Of Love alla saltellante allegria di Satellite Jockey. I punti più alti dell'album si hanno nel puro lirismo di I Never Had A Love Like This Before e, indubbiamente, nel capolavoro melodico Pentecost Hotel, ma ogni singolo brano dell'album ha un suo perchè.
Un album che è facile sminuire dall'ascoltatore snob che cerca lavori seri(osi) nell'ambito dei concept album, ma che di fatto anticipa di molto certi lavori sicuramente più celebrati di questo, meritandosi quindi tutta l'attenzione che gli si può dare.
Ed è interessante come non solo all'album in questione, ma anche alla band, venga data ben poca rilevanza oggi, molto meno di quanto meriterebbero. Certo, è facile dare la colpa all'omonimo gruppo grunge che, di fatto, con la sua abnorme fama fagocita ogni tentativo di ricerca online riguardante la band in questione, ma di fatto è criminale quanto poco si parli di coloro che per primi inserirono un violoncello in ambito pop, o usarono il phasing in modo piuttosto pesante (in Rainbow Chaser, dall'album successivo), oltre alla già citata lungimiranza verso il formato concept.
Ma al di là dell'innegabile importanza storica, questo primo album de Nirvana si rivela essere un breve ma intenso viaggio nel pop più puro, con melodie che è impossibile togliersi dalla testa, e di cui c'è un disperato bisogno vista la desolante tendenza generale degli ultimi anni.

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