mercoledì 14 febbraio 2018

Robert Wyatt - The End Of An Ear (recensione)

Mmmmmm..... boh? Si può recensire questo album? Esistono parole per definire quello che succede in questi 47 minuti? Oppure siamo di fronte a puro dadaismo che andrebbe affrontato con approccio simile? Nel dubbio, farò 2 "recensioni": la prima in linea con l'album, e la seconda più "normale".

Recensione 1: un po' di tempo di robe. Cacofonie. Lalalalalala tum da tum tsss. Mah. 10/10

Recensione 2:
Allora, il signor Wyatt si ritrovava in una situazione piuttosto limitante all'interno dei Soft Machine, che creativamente parlando aveva praticamente congedato con l'indescrivibile Moon In June nell'album Third. In The End Of An Ear Wyatt vuole estremizzare la sua idea di musica, in totale contrasto con il troppo ordine diffusosi ormai nella sua vecchia band. Quindi, quello che si ha qui è un lungo esperimento sonoro a cavallo tra il free jazz e la pura sperimentazione, con tanto di nastri a varie velocità e sovraincisioni tra il casuale, il folle ed il geniale. Fin dal titolo, con l'evidente doppia interpretazione "ear - era", quindi anche la fine di un'era, e non solo una strana affermazione sull' orecchio - ascolto. Nell'album troviamo Wyatt accreditato a batteria, bocca, piano e organo, Neville Whitehead al basso, Mark Charig e Elton Dean ai fiati, Mark Ellidge al piano, Cyril Ayers a varie percussioni e David Sinclair all'organo. Molti nomi noti tra Canterbury ed il progressive in generale (Charig lo troviamo anche in vari lavori dei King Crimson, come in Islands), così come molte sono le dediche da parte di Wyatt a vecchi amici, tutte nei titoli delle canzoni, da Daevid Allen e Gilly Smith dei Gong ai Caravan...
L'album è, per forza di cose, dominato dalla sua interpretazione (o distruzione) di Las Vegas Tango di Gil Evans. Brano praticamente irriconoscibile qui, e pretesto per l'uso quasi folle della voce tramite nastri a varie velocità. Un ottimo inizio che viene "ripreso" a fine album (tra virgolette perchè, seppur condividendone le radici, si tratta di qualcosa di ancora diverso). Personalmente preferisco la versione in apertura dell'album, un po' più a fuoco della seconda che forse si trascina per un po' troppo tempo. O forse una volta arrivati a fine album si tende ad essere leggermente esausti in ogni caso, chissà... Il resto del primo lato (da To Mark Everywhere a To Nick Everyone per intenderci) è sostanzialmente una lunga jam (seppur suddivisa in parti diverse) guidata dalla batteria di Wyatt, usata spesso anche come strumento solista invece di tenere semplicemente il tempo, decorata da interventi di piano, e dominata da nervosi frasi di fiati improvvisate che dialogano tra loro in un continuo ed infinito botta e risposta che è si casuale, ma forse proprio per questo ha un che di interessante e coinvolgente. Di umano, ecco. Il secondo lato sembra forse un po' più "organizzato" del primo. Troviamo infatti un ritmo ipnotico e stabile a guidare For Caravan And Brother Jim, per poi lasciare all'organo e al piano tutto lo spazio tra accordi jazz e sprazzi free però, appunto, decisamente più "ascoltabili" di ciò che c'è stato finora a mio parere. To The Old World ci riporta alla sperimentazione sonora più pura, mentre To Carla, Marsha And Caroline inizia con una bella parte di piano e pare essere un pezzo con radici comuni a Instant Pussy, brano già suonato da Wyatt con i Soft Machine e poi portato nei Matching Mole. Ovviamente dopo poco l'anarchia ritorna, e ci guida alla ripresa di Las Vegas Tango già citata sopra, dove il ritmo è dettato dalla voce di Wyatt invece che dalla batteria, ed i suoi vocalizzi ci portano di nuovo in territori credo indescrivibili a parole.
Siamo di fronte all'album potenzialmente più ostico di Robert Wyatt, spesso visto come un esperimento giovanile fine a sé stesso, e forse alla fine questo è. Però, e ve lo dice uno che fatica molto ad ascoltare il jazz, figuriamoci le sue derive free, ci ho trovato qualcosa ascoltandolo. Non so bene dire cosa, se l'atmosfera, il concetto stesso di natura quasi dadaista in quanto rifiuto e reazione nei confronti della musica con un qualsivoglia schema. Quello che posso dire è che ne consiglio l'ascolto, anche se potenzialmente traumatico, e che come voto, essendo questa una recensione più "seria" della precedente, gli darei in 7,5.
Meglio iniziare da Rock Bottom insomma... Ma da qui passateci eh!

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