martedì 22 dicembre 2020

Paul McCartney - McCartney III (2020) Recensione


Inaspettatamente, dopo soli due anni dal precedente, ecco che Paul McCartney torna a regalarci nuova musica. Comprensibilmente il lockdown (o meglio, la mancanza di altri impegni come i tour) ha "aiutato", ed infatti ciò che ne è uscito è un lavoro sostanzialmente casalingo, realizzato in grandissima parte in solitudine. Con i due precedenti volumi della "serie" McCartney condivide l'anima DIY, la maggiore libertà rispetto agli altri suoi album canonici, e probabilmente l'esser nato in una situazione particolarmente traumatica (il primo dopo lo scioglimento dei Beatles, il secondo dopo quello dei Wings, ed il terzo durante una pandemia), ma anche delle sostanziali differenze. Se nei due precedenti la totale libertà ha portato ad una serie di brani a volte azzardati, con il loro fascino ma forse non così memorabili, in McCartney III sembra che il tutto sia meglio sviluppato, più solido ed in grado di combinare in modo equilibrato libertà, sperimentazione e puro e semplice piacere d'ascolto. Certo, la sua voce non è più quella di una volta, e vorrei ben vedere, ma il puro e semplice senso di divertimento che sta alle spalle della creazione di questi brani è qualcosa che tanto mancava nei suoi ultimi lavori, comunque ottimi ma sempre filtrati attraverso il lavoro di questo o quel produttore "in" del momento. Qui è lui stesso a produrre, ed infatti per fortuna non ci sono bizzarri tentativi di brani da classifica (tipo l'orrida Fuh You del precedente, altrimenti ottimo, Egypt Station). 

Già iniziare l'album con una estesa jam quasi totalmente strumentale è forse una delle scelte più audaci mai fatte da Paul in un suo album e, nonostante la sua ripetitività, Long Tailed Winter Bird cattura in modo totalmente inaspettato. Ovviamente ci sono i brani più "convenzionali", come il singolo Find My Way o l'ottima Seize The Day, quest'ultimo in particolare uno dei suoi brani puramente pop migliori degli ultimi anni (lassù con New e Queenie Eye), intervallati da bei brani acustici (la discreta Pretty Boy e l'ottima The Kiss Of Venus, oltre alla conclusiva When Winter Comes, che in realtà risale al 1992). L'anima più sperimentale dell'album è perfettamente rappresentata da Deep Deep Feeling, inaspettato mantra da oltre 8 minuti che se dapprima lascia perplessi, pian piano con il suo mirabile svolgimento non può lasciare indifferenti. Qui torna il Paul più audace, quello di Electric Arguments del progetto Fireman, e lo fa con una classe inarrivabile. Ci sono poi parentesi più vivaci come l'acida Lavatory Lil o la distorta Slidin', quest'ultima l'unica ad avere altri musicisti aggiunti (Rusty Anderson alla chitarra e Abe Laboriel Jr. alla batteria). Deep Down scarta un'ultima carta più sperimentale, e forse non raggiunge i livelli di Deep Deep Feeling, ma si lascia apprezzare, mentre la particolare Women And Wives ha un fascino tutto suo.


Ma dunque è meglio o peggio dei suoi ultimi album? E dei primi due capitoli della trilogia "McCartney"? Beh, meglio dei primi due McCartney in generale direi senza dubbio di sì, che se da un lato mancano pezzi forti come Maybe I'm Amazed o Coming Up, dall'altro c'è una generale solidità e coerenza che nei primi due manca totalmente. Se invece lo rapportiamo a Egypt Station o a New il discorso si fa più complesso. Si tratta di un lavoro diverso nella natura e nei risultati; è un album che non cerca di essere nulla se non il risultato del puro divertimento nel proprio studio casalingo, laddove nei precedenti album convivevano anime diverse, dalla legittima autocitazione alla ricerca della hit radiofonica. Egypt Station mi ha colpito all'uscita, ma a posteriori si è "sgonfiato" molto (complice la discutibile produzione), a differenza di New che, pur mantenendo gli stessi punti deboli che ho notato all'uscita, sembra reggere generalmente meglio. Questo McCartney III rappresenta forse la direzione su cui vorrei si mantenesse in eventuali futuri lavori, in quanto in questa fase "matura" della sua carriera sembra funzionare particolarmente bene. Non necessariamente senza un produttore, ma comunque con più libertà, più DIY, e non per nulla credo che, in generale, possa essere il suo album che preferisco da Chaos And Creation In The Backyard, forse il suo ultimo vero capolavoro (che infatti fu suonato in gran parte da Paul stesso). 

In definitiva l'ennesima conferma di come certi personaggi non ne vogliano proprio sapere di fermarsi, anche se ormai non hanno più nulla da dover dimostrare (vedasi i Deep Purple o gli Sparks). Ed è proprio questa voglia di fare, questo continuo sgorgare di idee, indipendentemente dal fatto che siano o meno altrettanto buone di quelle avute cinquant'anni fa, che ci dovrebbe render felici a prescindere di assistere alla pubblicazione di questo genere di album. Che poi sia anche ottimo è solamente un valore aggiunto.   




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