domenica 6 gennaio 2019

Syd Barrett - The Madcap Laughs (1970) Recensione

Frutto di svariate session spalmate nell'arco di un anno abbondante, The Madcap Laughs rimane probabilmente una delle più nude e sincere rappresentazioni di Syd Barrett in tutta la sua pura fragilità. Quanto di questa immagine sia vera o creata ad hoc non ci è dato sapere per certo, quel che però traspare dai brani di Madcap è in un certo senso diverso dal più rifinito Barrett o la raccolta postuma Opel. Si tratta di un album piuttosto eterogeneo, non tanto come composizioni, che bene o male si rifanno tutte allo stile scarno tipico Barrettiano, quanto a livello di produzione e arrangiamenti.
Ci furono infatti tre fasi con produttori diversi tra il 1968 ed il 1969: la prima con Peter Jenner, una seconda più sostanziosa con Malcolm Jones, ed una finale più frettolosa con i "vecchi amici" David Gilmour e Roger Waters, impegnati ai tempi con Ummagumma.

Le prime fasi diedero luce ai brani più rifiniti dell'album, quelli in cui l'erraticità di Barrett è meno evidente, anche grazie a musicisti aggiunti, tra cui i Soft Machine. Quando invece subentrarono Gilmour e Waters, sembra quasi che abbiano avuto l'intenzione di alimentare l'immagine di Barrett come "pazzo" o addirittura di penalizzarlo, mettendo su nastro brani scarni, poco rifiniti, take tutt'altro che valide, false partenze e via dicendo.
E questo è sicuramente uno degli aspetti che ha finito per contraddistinguere e caratterizzare più di ogni altra cosa The Madcap Laughs, senza però, a mio parere, essere necessario. I brani meglio rifiniti sono infatti più che buoni quando non ottimi, pur mantenendo la loro natura scarna. Terrapin ad esempio, pur essendo troppo lunga a mio parere, dimostra come una buona take e poche aggiunte possano fare la differenza. Così come i brani "di gruppo" come No Man's Land o No Good Trying, in cui la presenza di un supporto ritmico rende interessante un brano, il secondo in particolare, dalla natura monocorde che avrebbe rischiato di esser quasi noioso altrimenti. Non manca il Barrett più scanzonato in piccoli capolavori come Love You e, specialmente, Octopus, brano il cui testo particolarmente colorato e complesso diede il titolo all'album. E su quest'ultimo in particolare si può notare come l'istintività pura di Barrett lo porti spesso a cambi audaci, specialmente a livello ritmico, che possono sembrare casuali quando non addirittura frutto di errori, ma che ascoltando take alternative si mostrano sempre presenti, e quindi per forza di cose intenzionali. Altro brano particolare è Here I Go, che si distingue da tutti gli altri grazie all'uso di accordi un pelo più complessi del solito, mostrando quindi uno sprazzo di lucidità fuori dal comune. Ho parlato di come la produzione della coppia Gilmour-Waters abbia penalizzato alcuni brani, ed è infatti il caso di She Took A Long Cold Look At Me, Feel e If It's In You, brani palesemente incompiuti che sicuramente mostrano potenziale, annientato però da stecche, rumori di pagine sfogliate, false partenze e conversazioni in studio. Insomma, se tutto l'album fosse stato così avrebbero potuto anche avere senso, ma questo trio di brani messo in coda così dà un po' un senso di fretta che, a mio parere, poco si addice all'album.
Discorso simile per uno dei pezzi forti di Madcap, Dark Globe, la cui scelta della take con Barrett alle prese con una linea vocale troppo alta per lui ha portato sicuramente ad un risultato efficace e struggente, ma ha causato poi vari dubbi a riguardo anni dopo, una volta ascoltata la versione titolata Wouldn't You Miss Me in Opel, cantata più bassa ed in modo molto più preciso. C'è però da dire che la mano dei due Floyd ha comunque contribuito a quelle che a mio parere sono altre due vette importanti dell'album: la fascinosa Golden Hair e la bellissima Long Gone. Late Night, brano strumentale a cui fu aggiunta la voce successivamente, chiude l'album in modo piuttosto efficace.

Un album che rimane comunque il miglior prodotto di Barrett solista, ma che finisce per lasciare un po' di amaro in bocca sia per il discorso della produzione Gilmour-Waters (tra l'altro criticata anche da Malcolm Jones), sia per la scelta di lasciar fuori un brano come Opel, che con un po' di rifiniture avrebbe potuto essere il capolavoro assoluto che solo si intravede nella scarna take acustica uscita nel 1988 nell'album omonimo. 
Madcap è correlato da una delle più iconiche copertine di sempre, ad opera dell'infallibile Mick Rock, con Barrett che decise di pitturare l'intero pavimento del suo appartamento a strisce, dimenticandosi sia di pulirlo prima che di organizzarsi per non rimanere chiuso in un angolo una volta finito di dipingere.
Un album imperfetto, ma che siccome la perfezione, oltre a non esistere in natura, è noiosa, si merita un 8,5.

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