martedì 25 luglio 2023

Ween - Discografia Live

Ho già parlato dei Ween precedentemente, focalizzandomi sulla discografia in studio, e cercando di evidenziare il più possibile la loro particolarissima e unica natura musicale, in realtà ben poco definibile. Per chi se lo fosse perso, vi rimando qui. Senza quindi dilungarmi troppo di nuovo su chi e cosa siano i Ween, è tuttavia importante ribadire l'importanza della loro estrema versatilità, che li porta, nell'arco della loro discografia che parte prettamente lo-fi e, via via, vanta produzioni più professionali, a coprire praticamente ogni genere immaginabile, con una spiccata personalità, un uso sapiente di effetti sonori e manipolazioni varie, ma sempre un'elevata qualità. 
Ovviamente i Ween non sono una band strettamente "da studio", tant'è che da ormai sedici anni non pubblicano un album in studio, e, temporanea pausa scioglimento a parte, tutt'oggi "tirano avanti" a suon di concerti, ed è proprio qui che nasce l'ennesimo aspetto estremamente interessante e unico di questa band. Se infatti i primissimi anni di attività li ha visti cimentarsi con il loro repertorio solamente in due sul palco, chitarra e voce, con l'aiuto di basi registrate (spesso scheletriche basi di drum machine), si sono poi susseguite varie fasi, dapprima, nel '94-'95, con Claude Coleman alla batteria e Andrew Weiss al basso, portando il sound verso un rock più tradizionale ed introducendo le improvvisazioni, poi nel '96 si ha il breve tour country con ulteriori musicisti aggiunti (ci arriveremo più avanti), e poi, dal '97 fino ad oggi, con una formazione con Coleman alla batteria, Dave Dreiwitz al basso e Glenn Mclelland alle tastiere. Negli anni, complice anche il vasto repertorio che non include solamente gli album in studio ma anche innumerevoli brani registrati e diffusi solamente sotto forma di bootleg, i concerti si sono estesi sempre più, superando spesso le tre ore di durata e arrivando, in anni più recenti a vere e proprie serie di tre date consecutive con tre scalette completamente diverse, sfiorando i 100 brani in un weekend! 

Tutto ciò per far capire quanto l'aspetto live sia fondamentale per i Ween, che oltretutto si ritrovano a dover fare a meno delle "manipolazioni da studio", offrendo quindi sempre versioni alternative, diverse, dei brani in scaletta, aggiungendo un ulteriore valore ai loro concerti. Questo dà a Gene Ween l'occasione di dimostrare veramente quello che sa fare con la sua voce, tra le più versatili e duttili di sempre, alle prese con l'arduo compito di sopperire alla mancanza delle suddette manipolazioni ed effetti applicati alla voce in studio, e a Dean Ween la chance di sbizzarrirsi e mostrare al pubblico le sue enormi capacità alla chitarra, specialmente nelle improvvisazioni e negli assoli estesi. Ciò ha ovviamente alimentato il mondo dei bootleg, le registrazioni dei concerti da parte dei fan, sia audio che video, che non vengono in questo caso vietate ma, anzi, sono le benvenute, e vengono spesso realizzate con apparecchiature di alto livello (evidentemente, in quanto i Ween sono musicisti di altissimo livello, ciò non li distrae affatto, a differenza di altre band che non nominerò).
Ma bootleg a parte, sono ovviamente usciti vari album live nel corso degli anni, e di questo parlerò in questo articolo, non mettendoli però in ordine per preferenza, ma semplicemente in ordine cronologico, in quanto sono tutte uscite di altissimo livello per diversi motivi. 

1999: Paintin' The Town Brown: Ween Live 1990-1998

La prima uscita live avrebbe dovuto anche essere la prima pubblicazione della nuova etichetta dei Ween, la Chocodog, prima che se ne appropriasse la Elektra, inasprendo i già difficili rapporti tra l'etichetta e la band. Si tratta di un disco doppio di circa due ore di durata che si propone di presentare una panoramica live della band dagli inizi fino a quel punto, includendo quindi al suo interno brani in formazione a duo, a quartetto, con musicisti country aggiunti nel tour del 1996, e nella formazione finale a cinque. Il risultato è un po' caotico e discontinuo all'ascolto, non aiutato oltretutto dalla qualità sonora, trattandosi di registrazioni prese direttamente da mixer senza alcuna modifica successiva, né di mix né sovraincisioni, ma il tutto è estremamente interessante. Si passa dalla disperata inquietudine dei primi anni con Mushroom Festival In Hell e Bumblebee, dal 1990, alla professionalità di brani come Voodoo Lady e l'estesa I Can't Put My Finger On It, dal 1997, mentre sempre da quell'anno si nota come un brano caotico come Awesome Sound, da THE POD, si sia evoluto in sei anni, diventando una vetrina perfetta per Dean Ween. Ciò che però attira di più l'attenzione è il secondo disco, con soli tre brani al suo interno, e se si esclude la breve Puffy Cloud finale, si può ascoltare una estremamente cacofonica versione da 25 minuti di Poopship Destroyer, ed una epica Vallejo da mezz'ora, in cui tutti i membri della band hanno spazio per assoli di varia natura, compreso Gene Ween alla voce che si lancia in una lunga sezione di vocalizzi impressionanti. 

Forse non il miglior punto di partenza per approcciare i Ween dal vivo, ma sicuramente una della parentesi più marroni della loro discografia (per la definizione di "marrone" vi rimando all'articolo sugli album in studio linkato all'inizio). 

Disc 1

  1. "Mushroom Festival in Hell" Holland 1/91
  2. "Japanese Cowboy" Santa Monica Civic Auditorium, Santa Monica, CA (October 11, 1996)
  3. "Mountain Dew" Cicero's, St. Louis, MO (March 14, 1992)
  4. "Bumblebee" Switzerland 12/90
  5. "Voodoo Lady" Amsterdam 12/97
  6. "Ode to Rene" San Francisco, CA 2/93
  7. "Mister Richard Smoker" Santa Monica Civic Auditorium, Santa Monica, CA (October 11, 1996)
  8. "Doctor Rock" Melbourne, Australia 5/95
  9. "I Can't Put My Finger on It" Oslo, Norway 12/97
  10. "Cover It with Gas and Set It on Fire" Trenton, NJ '93
  11. "Awesome Sound" Amsterdam, Holland 12/97
  12. "Tender Situation" Leeuwarden, Holland 12/90
  13. "Mister, Would You Please Help My Pony?" Oslo, Norway 12/97
  14. "I Saw Gener Cryin' in His Sleep" Santa Monica Civic Auditorium, Santa Monica, CA (October 11, 1996)
  15. "Marble Tulip Juicy Tree" Warfield Theatre, San Francisco, CA (April 30, 1996)
  16. "She Fucks Me" 9:30 Club, Washington, D.C. (October 28, 1996)
Disc 2
  1. "Poop Ship Destroyer" The Blue Note, Columbia, MO (January 31, 1995)
  2. "Vallejo" Huntridge Theater, Las Vegas, NV (November 14, 1994)
  3. "Puffy Cloud" Los Angeles, CA 10/94 (unverified)


2001: Live in Toronto Canada 

Come avrete notato, ho precedentemente parlato del tour del 1996 citando "musicisti country aggiunti", ed infatti, a supporto dell'album 12 GOLDEN COUNTRY GREATS, i Ween decidono di affrontare un breve tour inserendo in formazione alcuni session men provenienti dal mondo country, che quindi da un lato aiutano enormemente nelle performance dei brani nuovi, e dall'altro contribuiscono, spesso in modo sostanzioso, anche a nuovi arrangiamenti di altri brani del loro repertorio. E se già in PAINTIN' THE TOWN BROWN si è avuto un assaggio con un paio di brani, qui si può finalmente ascoltare un concerto (quasi) intero. La qualità sonora è ottima, i brani country splendono in versione live (compresa Japanese Cowboy con la coda di Chariots Of Fire di Vangelis, vista la somiglianza melodica), mostrandoci soprattutto quanto sia cresciuta la divertente Fluffy, che da breve e curioso brano conclusivo dell'album country si trasforma qui in un lungo ed epico brano dalla coda strumentale in crescendo. Non mancano poi brani come Doctor Rock, What Deaner Was Talking About, Pumpin' For The Man, tutti arricchiti da nuovi arrangiamenti più "pieni" e colorati. Trova spazio anche Poopship Destroyer
Un ottimo, seppur breve, album live ed una perfetta rappresentazione di una fase particolare per i Ween. 

  1. Pretty Girl
  2. What Deaner Was Talking About
  3. Japanese Cowboy
  4. Pumpin' For The Man
  5. Mister Richard Smoker
  6. Spinal Meningitis Got Me Down
  7. Help Me Scrape The Mucus Off My Brain
  8. Wavin' My Dick In The Wind
  9. Push Th' Little Daisies
  10. Buenas Tardes Amigo
  11. Poopship Destroyer
  12. I'm Holding You
  13. Doctor Rock
  14. The H.I.V. Song
  15. Piano Man
  16. Fluffy

2002: Live at Stubb's, 7/2000

Forse spinti dalla non positiva esperienza con la Elektra ai tempi di PAINTIN' THE TOWN BROWN, i Ween decidono nel 2000 di registrare due serate ad Austin, Texas, e di selezionare alcuni brani per la pubblicazione di quello che di fatto è ciò di più vicino ad un loro intero concerto (della fase in formazione a cinque, ovviamente) uscito ufficialmente su disco. Suddiviso in tre dischi e con una qualità sonora eccellente, qui i Ween sono indubbiamente ad un picco in quanto a resa live, con un repertorio molto variegato che copre praticamente ogni loro uscita fino a quel punto, non disdegnando cover (Hot For Teacer dei Van Halen), un paio di brani ufficialmente inediti e una giusta dose di improvvisazione, specialmente nella conclusiva L.M.L.Y.P., che dai 9 minuti della versione in studio qui raggiunge i 36. Non è affatto facile isolare singoli episodi degni di nota, tanta è la solidità delle performance e la selezione dei brani, dall'epica apertura di Buckingham Green all'estesa Fat Lenny, fino a curiosità come Squelch The Weasel e Little Birdy, che sotto certi aspetti superano le rispettive versioni in studio, o una delle migliori versioni in assoluto di A Tear For Eddie, con un Dean Ween stratosferico. 2 ore e 40 minuti di puro godimento, in quello che probabilmente è IL disco live dei Ween, perfetto sotto ogni aspetto ed esaustivo abbastanza da rappresentare anche un'ottima introduzione per nuovi fan, con solamente un'altra uscita, che vedremo tra poco, in grado di rivaleggiare in quest'ambito. 


Disc 1

  1. Buckingham Green
  2. Spinal Meningitis (Got Me Down)
  3. The Stallion Pt. 3
  4. Bananas And Blow
  5. Waving My Dick In The Wind
  6. Mister Richard Smoker
  7. Fat Lenny
  8. Even If You Don't
  9. Voodoo Lady
  10. The H.I.V. Song
  11. Marble Tulip Juicy Tree
  12. Back To Basom
  13. Captain Fantasy
  14. Sketches Of Winkle
  15. Mister, Would You Please Help My Pony?
  16. Ocean Man
Disc 2
  1. Exactly Where I'm At
  2. Booze Me Up And Get Me High
  3. Stroker Ace
  4. A Tear For Eddie
  5. Big Jilm
  6. Little Birdy
  7. Squelch The Weasel
  8. Sorry Charlie
  9. Wayne's Pet Youngin'
  10. Hot For Teacher
  11. Ice Castles
  12. She Wanted To Leave
  13. Put The Coke On My Dick
  14. Homo Rainbow
Disc 3
  1. L.M.L.Y.P.

2003: All Request Live

Probabilmente una delle uscite live più particolari della discografia dei Ween, in quanto si tratta di una registrazione live in studio trasmessa tramite internet, in cui la band suona una serie di brani richiesti dai fan. In poco più di un'ora si possono ascoltare tutte e cinque le parti di The Stallion (le tre ufficialmente pubblicate e le ultime due disponibili su bootleg), nuovi brani dall'allora ancora inedito QUEBEC (Happy Colored Marbles e Tried And True), insieme a rarità live come Cold Blows The Wind, Pollo Asado e ottime versioni di vecchi brani come Awesome Sound, Reggaejunkiejew e Demon Sweat. In chiusura trova posto una versione estesa di Where'd The Cheese Go?, il jingle commissionato loro da Pizza Hut e poi scartato. Insomma una scaletta molto particolare per un'uscita molto particolare, consigliata soprattutto ai fan duri e puri. 

  1. Happy Colored Marbles
  2. The Stallion Pt. 1
  3. The Stallion Pt. 2
  4. The Stallion Pt. 3
  5. The Stallion Pt. 4
  6. The Stallion Pt. 5
  7. Demon Sweat
  8. Cover It With Gas And Set It On Fire
  9. Awesome Sound
  10. Cold Blows The Wind
  11. Pollo Asado
  12. Reggaejunkiejew
  13. Tried And True
  14. Mononucleosis
  15. Stay Forever
  16. Where'd The Cheese Go?

2004: Live in Chicago


Per la prima volta i Ween pubblicano un live in formato video, ripreso nell'arco di tre serate al Vic Theatre di Chicago nell'Ottobre 2003, durante il tour di supporto all'album QUEBEC. Ovviamente non sono presenti tutte le canzoni suonate in quelle occasioni, ma ci troviamo di fronte a circa due ore riprese professionalmente, con i Ween in gran forma alle prese con un repertorio che copre praticamente ogni loro uscita a parte, curiosamente, l'album country. Il risultato è un live molto professionale, con la giusta dose di improvvisazione, molta precisione esecutiva ed una resa sonora spettacolare. Questo live, insieme a STUBB'S, è un'altra ottima occasione per approcciare il variegato catalogo dei Ween per i nuovi ascoltatori, sia nella versione video che, soprattutto, nella rispettiva versione su CD, con una scaletta ridotta a poco più di un'ora che è, probabilmente, la cosa più vicina ad un "greatest hits" di questa band, specialmente visto che, essendo live, non bisogna passare sopra a tutte le varie stranezze e manipolazioni "da studio" per godere dei brani inclusi. Curiosamente trova spazio in scaletta anche un'ottima cover di All My Love dei Led Zeppelin, altra perfetta dimostrazione della versatilità dei Ween. 

DVD:

  1. "Buckingham Green"  
  2. "Spinal Meningitis (Got Me Down)"  
  3. "Pork Roll Egg and Cheese"  
  4. "Take Me Away"  
  5. "The Grobe"  
  6. "Transdermal Celebration"  
  7. "Even If You Don't"  
  8. "Voodoo Lady"  
  9. "Baby Bitch"  
  10. "The HIV Song"  
  11. "Roses Are Free"  
  12. "Mutilated Lips"  
  13. "Chocolate Town"  
  14. "I'll Be Your Jonny on the Spot"  
  15. "Touch My Tooter"  
  16. "The Argus"  
  17. "Zoloft"  
  18. "Ocean Man"  
  19. "Don't Laugh (I Love You)"  
  20. "All My Love"  
  21. "Big Jilm"  
  22. "You Fucked Up"  
  23. "Doctor Rock"  
  24. "She Fucks Me"  
  25. "Booze Me Up and Get Me High"  
  26. "The Blarney Stone"
CD:

  1. "Take Me Away"
  2. "The Grobe"
  3. "Transdermal Celebration"
  4. "Even If You Don't"
  5. "Voodoo Lady"
  6. "The HIV Song"
  7. "Baby Bitch"
  8. "Roses Are Free"
  9. "Mutilated Lips"
  10. "Chocolate Town"
  11. "I'll Be Your Jonny on the Spot"
  12. "Buckingham Green"
  13. "Spinal Meningitis (Got Me Down)"
  14. "Pork Roll Egg and Cheese"
  15. "The Argus"
  16. "Zoloft"
  17. "Ocean Man"

2008: At The Cat's Cradle, 1992


Un bel salto indietro nel pieno della fase in cui i Ween suonavano in due con le basi registrate, in particolare nel periodo di PURE GUAVA, con un concerto registrato il 9 Dicembre 1992 a Carrboro, NC. Questo periodo fu, fino ad allora, ufficialmente rappresentato solamente da qualche brano in PAINTIN' THE TOWN BROWN (ovviamente senza tener conto dei bootleg), ed è quindi una gran cosa poter finalmente ascoltare un intero concerto dell'epoca, che, pur trattandosi di una registrazione presa direttamente da mixer e senza alcuna operazione di remix successiva, si fa tutto sommato ascoltare con piacere. I Ween in questa fase erano costantemente impegnati a riempire i vuoti lasciati sia dalla mancanza di altri musicisti di supporto (se si escludono gli scheletrici accompagnamenti registrati con drum machine e occasionali linee di basso), sia ad intrattenere il pubblico con una già evidente ed invidiabile padronanza del palco, come si può notare nelle pause tra le canzoni, in cui non mancano momenti esilaranti. La scaletta ovviamente pesca dai primi tre album della band, non disdegnando ulteriori brani non presenti nei suddetti (Ode To Rene, Mango Woman, Cover It With Gas And Set It On Fire), oltre ad una primordiale versione di Buckingham Green (che vedrà ufficialmente la luce solamente nel 1997 in THE MOLLUSK). Ovviamente, dovendo usare basi registrate, non trovano spazio le improvvisazioni che diventeranno marchio di fabbrica dei Ween negli anni successivi, ma, nonostante ciò, l'ascolto è estremamente piacevole e divertente anche e soprattutto per via della loro sgangherata spontaneità. 

Il disco in questione uscì con l'intero concerto sul primo CD, e un DVD bonus di circa un'ora con una selezione di video live di varia provenienza tra il 1990 ed il 1993 (quindi non del concerto al Cat's Cradle del 19992in particolare). Un'uscita essenziale per capire ed apprezzare questa particolare fase dei Ween. 

CD

  1. Big Jilm
  2. Never Squeal On Th' Pusher
  3. Captain Fantasy
  4. Tick
  5. Pork Roll, Egg And Cheese
  6. Cover It With Gas And Set It On Fire
  7. The Goin' Gets Tough From The Getgo
  8. Don't Get 2 Close (2 My Fantasy)
  9. Nan
  10. Marble Tulip Juicy Tree
  11. Ode To Rene
  12. Mango Woman
  13. El Camino
  14. Demon Sweat
  15. You Fucked Up
  16. Old Queen Cole
  17. Papa Zit
  18. Buckingham Green
  19. Birthday Boy
  20. Fat Lenny
  21. Reggaejunkiejew

DVD

  1. Captain Fantasy
  2. You Fucked Up
  3. Tick
  4. Boing
  5. Listen To The Music
  6. Don't Get 2 Close (2 My Fantasy)
  7. Cover It With Gas And Set It On Fire
  8. Seconds
  9. Marble Tulip Juicy Tree
  10. Gladiola Heartbreaker
  11. Common Bitch
  12. The Goin' Gets Tough From The Getgo
  13. Reggaejunkiejew
  14. Old Queen Cole
  15. Shalom Absalom
  16. Don't Laugh (I Love You)
  17. Mountain Dew

2016: GodWeenSatan Live

Ad oggi l'ultima uscita live ufficiale dei Ween, si tratta di una registrazione di un concerto unico ed irripetibile, risalente al 14 Settembre 2001 (il quale rischiò di saltare dopo i fatti dell'11 Settembre) al locale John & Peters di New Hope, PA, città natale di Gene e Dean Ween, in cui suonarono per intero il loro album d'esordio, in occasione della sua ripubblicazione per l'undicesimo anniversario (pubblicizzato come il venticinquesimo). Inutile dire che le performance, pur essendo molto fedeli alle originali, qui guadagnano molto nella resa generale, sia per l'ovvia maggior maturità raggiunta negli anni, ma anche per via dell'importantissimo contributo dei musicisti aggiunti, ovviamente non presenti ai tempi delle registrazioni originali, che di fatto vennero effettuate dai soli Gene e Dean. L'aspetto forse più interessante per i fan più attenti è la presenza in scaletta di due brani suonati dal vivo solo ed esclusivamente in questa occasione, Nicole e BlackJack, i quali rendono essenziale questa uscita, al netto delle ottime performance degli altri brani, alcuni consueti (You Fucked Up, Fat Lenny, L.M.L.Y.P.), altri molto meno (I'm In The Mood To Move, Cold And Wet, Common Bitch). Un'ottima qualità sonora completa il quado di un'uscita certamente particolare, ma senza dubbio contenente alcune delle migliori performance live di questa band catturate su disco.                                  

Disc 1

  1. You Fucked Up
  2. Tick
  3. I'm In The Mood To Move
  4. I Gots A Weasel
  5. Fat Lenny
  6. Cold And Wet
  7. Bumblebee
  8. Don't Laugh (I Love You)
  9. Never Squeal
  10. Up On The Hill
  11. Wayne's Pet Youngin'
  12. Nicole
  13. Common Bitch
  14. El Camino
  15. Old Queen Cole

Disc 2

  1. Nan
  2. Licking The Palm For Guava
  3. Mushroom Festival In Hell
  4. L.M.L.Y.P.
  5. Papa Zit
  6. Old Man Thunder
  7. Birthday Boy
  8. Blackjack
  9. Squelch The Weasel
  10. Marble Tulip Juicy Tree
  11. Puffy Cloud

sabato 11 marzo 2023

Perché Strawberry Fields Forever dei Beatles è un capolavoro di produzione musicale


Strawberry Fields Forever è una delle canzoni più celebri dei Beatles, nonché uno dei migliori esempi della loro fase psichedelica, sia per il suo sound che per il testo, che affronta la nostalgia dell'infanzia e si pone domande sull'identità e sull'ego, argomenti sicuramente ispirati dall'uso di LSD.
Fu scritta da John Lennon nel 1966, dopo aver già scritto canzoni su questi argomenti nel precedente album REVOLVER (She Said She Said, Tomorrow Never Knows), e quindi, di conseguenza, questa canzone è una perfetta continuazione.
Ciò che distingue questa canzone, tuttavia, è, senza dubbio, il suo suono molto particolare, risultato di alcune scelte di produzione molto intelligenti e, all'epoca, originali. Andiamo ad analizzare il processo che ha portato alla versione definitiva di Strawberry Fields Forever così come tutti la conosciamo.

I demo casalinghi

John Lennon ha registrato alcune versioni di questa canzone a casa sua durante la seconda metà del 1966, e la maggior parte di esse sono sostanzialmente acustiche. Possiamo già sentire gli accordi e le melodie che caratterizzeranno la canzone finale, ma, ovviamente, qui Lennon prova tempi e approcci diversi alla canzone, ed è affascinante da ascoltare.

Potete ascoltare qui un montaggio con i primi due demo.

Take 1


È qui che le cose iniziarono a farsi serie, quando Lennon presentò la nuova canzone agli altri Beatles, e iniziarono a registrarla in studio, il 24 novembre 1966.
Qui possiamo sentire Lennon che suona gli accordi con la sua chitarra elettrica, Harrison anch'esso alla chitarra elettrica che suona delle linee di basso, Ringo alla batteria e McCartney che si inserisce al Mellotron, suonando una linea melodica intorno agli accordi di Lennon, inizialmente con l'iconico suono"3 violins", più tardi con il suono "brass". È interessante notare che in questa versione possiamo anche ascoltare alcune armonie vocali a tre parti che sono state successivamente scartate, così come un'altra parte di Mellotron con il suono "guitar", suonato da Harrison, che imita una parte di chitarra slide (questa parte sarà inclusa almeno fino alla take 7). Inoltre, a questo punto la canzone, proprio come i primi demo, inizia ancora con la strofa, senza l'intro del "flauto" del Mellotron e il successivo ritornello, che si trova invece più avanti nella canzone.

Questo arrangiamento fu presto abbandonato.


Take 4 e 7


I Beatles continuarono a lavorare sulla canzone nei giorni successivi, e quando arrivarono alla Take 4 il 28 novembre, decisero che poteva essere abbastanza buona da tenerla per aggiungerci alcune sovraincisioni. Questa versione ha l'iconica introduzione del "flauto" del Mellotron proprio come il pezzo finale, le parti del Mellotron percussive in "codice morse", le maracas, McCartney al basso, Harrison che suona la chitarra arpeggiata, ed è in realtà abbastanza vicina alla versione finale. Tuttavia, per qualche ragione, decisero di fare un altro tentativo, e quando arrivarono alla Take 7 il giorno successivo, ancora abbastanza simile alla Take 4, registrarono la traccia vocale di Lennon con il nastro di base accelerato, così che quando mixata, la voce di Lennon suonasse più bassa e più lenta.

La Take 7 fu ritenuta abbastanza buona da mantenere come possibile versione definitiva, e in parte lo sarà, ma poi le cose si sono complicate un po'.

Qui potete ascoltare la Take 4 e la Take 7.

Take 26


Mentre veniva ultimato il processo di mixaggio della Take 7, Lennon si rese conto che mancava ancora qualcosa, e chiese a George Martin di scrivere una partitura orchestrale, il quale ne scrisse una per quattro trombe e tre violoncelli. Successivamente, la band iniziò a lavorare su una traccia di percussioni più pesanti, con tom, piatti e un charleston registrato al contrario, su cui hanno poi aggiunto timpani, bonghi e innumerevoli altre percussioni suonate da chiunque fosse disponibile in studio. Il 9 dicembre, parti di queste take sono state mixate insieme nella Take 24, che comprende tutte le percussioni, una coda strumentale (inclusa una parte di chitarra solista suonata da McCartney e una parte di flauto Mellotron al contrario), mentre il 15 dicembre Martin ha registrato la sua partitura orchestrale (che ha sostituito le parti del Mellotron).

Le ultime sovraincisioni furono la voce di Lennon, l'iconica parte arpeggiata dello swarmandal (un'arpa indiana) tra strofe e ritornelli, e un'ulteriore parte di rullante, su quella che allora venne chiamata Take 26, che, alla fine, suonava molto più pesante, più veloce, e di tonalità più alta rispetto alle versioni precedenti di questa canzone.

Qui potete ascoltare la Take 26.

La versione finale

Quando Lennon ascoltò entrambe le versioni finali della canzone (take 7 e 26), si rese conto che gli piacevano entrambe e chiese a Martin di trovare un modo per combinarle, sapendo che sarebbe stato in grado di farlo. C'è da considerare il fatto che all'epoca si lavorava con i nastri, quindi unirne due diversi significava tagliarli con le forbici e riattaccarli con il nastro adesivo, quindi non era certo facile come lo è oggi grazie alla tecnologia digitale. Il problema principale era che, ovviamente, la Take 7 era molto più lenta della Take 26, (la prima era intorno ai 90 bpm e la seconda intorno ai 111 bpm), ed erano anche su tonalità diversi (la prima era intorno a un La maggiore un po' crescente, dovuto alla manipolazione del nastro, e la seconda in Do maggiore). Quindi, utilizzando la tecnologia vari-speed, Martin e l'ingegnere del suono Geoff Emerick riuscirono a rallentare la Take 26 fino a circa 99 bpm e ad avvicinarla alla tonalità di Si bemolle, velocizzando anche la Take 7 fino a 91 bpm e avvicinando anch'essa un po' di più al Si bemolle). Ovviamente c'era ancora una differenza di velocità, come si può notare sopra confrontando i bpm di entrambe le versioni, e di intonazione (entrambe a quel punto erano attorno alla tonalità di Si bemolle, ma la Take 7 è ancora leggermente più calante della Take 26, quasi un quarto di semitono, ed entrambe alla fine sono calanti di pochi centesimi rispetto al Si bemolle), ma la decisione di inserire il taglio a circa 1 minuto dall'inizio, dove la maggior parte della musica si interrompe, ha reso l'operazione quasi impercettibile anche allo stesso Lennon, che rimase estasiato quando sentì il risultato finale.

Quindi, se ascolti la versione finale, si presti molta attenzione a circa 58 secondi dall'inizio, quando Lennon canta "let me take you down 'cause I'm going to...": la Take 7 la si può ascoltare dall'inizio della canzone fino a "...'cause I'm", mentre Take 26 entra esattamente sulla parola "going", conferendo al suono un ché di "ondeggiante", e continua fino alla fine.

La Coda

A parte la leggenda, legata alla questione della presunta morte di Paul McCartney, secondo cui sul finale Lennon dice "I buried Paul" ("Ho seppellito Paul"), che in realtà non è vera perché dice "cranberry sauce" ("salsa di mirtilli"), ciò che è peculiare nella coda finale di Strawberry Fields Forever è la dissolvenza in chiusura e dissolvenza in entrata proprio prima della fine. Il motivo per cui ciò è accaduto è abbastanza chiaro se si ascolta la Take 26, dove non c'è dissolvenza alla fine, e possiamo sentire gli strumenti andare fuori tempo l'uno con l'altro per un po', esattamente dove il suono sfuma nella versione finale. Sicuramente Martin voleva mantenere la parte subito dopo, quindi è per questo che il suono ritorna dopo un po'.



mercoledì 22 febbraio 2023

La storia di John Carter, dagli Ivy League ai Flower Pot Men


John Carter è una delle figure più importanti del pop inglese anni '60 e '70, principalmente come compositore, ma anche come cantante. Chiunque ha sicuramente ascoltato qualche canzone in cui Carter è coinvolto in qualche modo, tuttavia si tratta sempre di brani usciti sotto altri nomi, che siano band o pseudonimi, per motivi che vedremo più avanti. 

Carter, vero nome John Nicholas Shakespeare, nato a Birmingham nel 1940, iniziò a comporre musica fin da adolescente, insieme al suo compagno di scuola Ken Lewis (vero nome Kenneth Alan James Hawker, anche lui nato a Birmingham nel 1940), e ben presto tentarono la fortuna a Denmark Street, Londra, dove tra le tante porte chiuse in faccia conobbero Terry Kennedy, che si dimostrò interessato e diventò loro manager.

Carter-Lewis and The Southeners

Carter-Lewis and The Southeners con Jimmy Page
(il primo a destra)

Già nel 1961 il duo pubblicò il suo primo singolo, Back On The Scene, a nome Carter-Lewis and the Southeners (da Southern Music, i loro editori ai tempi), che di fatto consisteva in loro due come cantanti e vari session man come musicisti, che cambiavano spesso (tra i nomi più noti si possono citare Jimmy Page, Albert Lee, Big Jim Sullivan e Clem Cattini). Tra il 1961 ed il 1964 ottennero un discreto successo grazie a singoli come Your Momma's Out Of Town, mentre in parallelo partecipavano a svariati programmi radio per la BBC (tra cui Pop Goes The Beatles nel 1963 come ospiti, appunto, dei Beatles), L'obbligatoria attività di promozione fatta principalmente di concerti non attirava il duo, specialmente Carter, che non amava suonare dal vivo e viaggiare continuamente, e appena capirono che a livello economico potevano cavarsela meglio scrivendo canzoni per altri, abbandonarono definitivamente i Southeners. 

Nel 1964 il duo continuò a partecipare a molte session, sia come compositori che come cantanti, (di quel periodo sono canzoni come Is It True? di Brenda Lee, Can't You Hear My Heartbeat degli Herman's Hermits e anche Little Bit O' Soul, inizialmente interpretata dagli inglesi Little Darlings, poi coverizzata nel 1967 dai Music Explosion, i quali diedero idealmente il via al genere bubblegum, per maggiori informazioni vi rimando a questo articolo), ma proprio in quel periodo furono in molti a consigliar loro di implementare un terzo membro, in quanto le armonie a tre parti erano molto richieste, e avrebbero di conseguenza avuto ancora più lavoro. Fu così che entrò in scena Perry Ford, un cantante e pianista un po' più vecchio di loro, nato nel 1933 a Lincoln e già nel giro di Denmark Street dagli anni '50. Il risultante trio ebbe da subito molte offerte di lavoro come coristi, tra cui i s
ingoli I Can't Explain e Anyway Anyhow Anywhere degli Who e It's Not Unusual di Tom Jones, ed il risultato fu così soddisfacente che di lì a poco decisero di provare a registrare qualche loro canzone. 

Gli Ivy League 

La prima canzone registrata da questo nuovo trio fu What More do You Want, che non ebbe il successo sperato, tanto da far pensare a Carter e compagni di lasciar perdere l'idea e continuare a scrivere per altri. Il nome scelto per questo trio fu The Ivy League, in riferimento all'immagine dei tre, vestiti come eleganti ragazzi universitari. Di lì a poco il trio compose il brano Funny How Love Can Be, con l'intenzione di farlo interpretare ai Rockin' Berries; questa band lo registrò ed era anche pronto ad uscire, ma Terry Kennedy, manager degli Ivy League, continuava ad ascoltare il loro demo, e convinto che potesse essere una hit, disse che avrebbero dovuta registrarla direttamente loro, e così fecero. 
The Ivy League (da sinistra): Ken Lewis,
Perry Ford e John Carter.
Il brano, pubblicato a Gennaio 1965, ottenne un enorme successo soprattutto grazie al programma televisivo Ready Steady Go, in cui il trio la interpretò in playback, e se da una parte Perry Ford era estatico per il successo, Carter e Lewis già immaginavano le tanto odiate attività di promozione che ne sarebbero conseguite, in particolare i tour. Con l'aiuto di svariati session man, gli Ivy League iniziarono ad andare in tour e a pubblicare altri singoli di successo, come That's Why I'm Crying e Tossing And Turning, oltre all'album di debutto THIS IS THE IVY LEAGUE. Il sound di questo trio deve molto ai gruppi vocali americani, dai Four Seasons ai Beach Boys, ma il fatto di essere inglesi e di avere anche altre influenze (Carter, ad esempio, era anche un grande fan del folk a la Dylan) li porta verso una discreta varietà, pur mantenendo una ben definita identità.
Seguirono poi altre pubblicazioni come l'EP natalizio THE HOLLY & THE IVY LEAGUE, ma quando i successivi singoli, Running Round In Circles e Willow Tree si rivelarono essere un flop, Carter prese la palla al balzo ed abbandonò gli Ivy League, stanco di dover essere sempre in tour e di non avere tempo di scrivere altri brani, che poi era la sua vera passione. Ovviamente Carter continuò ad essere coinvolto negli Ivy League come compositore ed in generale in studio, ma, per quanto riguarda i concerti, Tony Burrows prese il suo posto. 
Proprio in quel periodo, siamo nel 1966, Carter iniziò a collaborare con Geoff Stephens, e insieme composero il brano My World Fell Down, un misterioso pezzo carico di armonie vocali, cambi e toni barocchi, passato piuttosto inosservato nella versione degli Ivy League, poi reso decisamente più noto nella definitiva versione dei Sagittarius di Gary Usher. Proprio in quel periodo sarebbe dovuto uscire il vero e proprio secondo album degli Ivy League, chiamato MIND OUT! IT'S THE IVY LEAGUE, ma di fatto venne cancellato e sostituito da un altro album con molti brani ripetuti dal primo e giusto una manciata di singoli e lati B aggiunti (SOUNDS OF THE IVY LEAGUE). Ken Lewis abbandonò a inizio 1967, sostituito da Neil Landon, gli ulteriori singoli pubblicati in quell'anno, come Four And Twenty Hours, Suddenly Things e Thank You For Loving Me non ebbero molti riscontri, e un altro album che li raccoglieva, TOMORROW IS ANOTHER DAY, non aiutò, e di fatto ad Ottobre gli Ivy League non esistevano più.   
 

Winchester Cathedral

La già citata collaborazione tra Carter e Stephens portò ad un altro brano, questo di enorme successo, nel 1967: Stephens scrisse un brano intitolato Winchester Cathedral, con l'intenzione di pubblicarlo con il nome The New Vaudeville Band, gruppo formato da session man con lui come mente ma non come membro attivo e musicista; nel momento di registrarne un demo, Carter cantò la linea vocale principale mettendo le mani a megafono e tappandosi il naso, creando così un effetto, appunto, di un vecchio megafono. Quando arrivò il momento di registrare il brano professionalmente, Stephens faticò a trovare qualcuno in grado di riproporre in modo altrettanto convincente quella linea vocale, e così la versione che tutti conoscono ha la voce di Carter dal demo. 
N.B. Nel video qui sotto non appaiono né Carter né Stephens, bensì vediamo i musicisti assunti per formare la band ai fini di promozione. 


The Flower Pot Men

Una volta fuori dagli Ivy League, Carter e Lewis continuarono a comporre insieme, e, con il nuovo nome The Flower Pot Men (ispirato all'omonimo show per bambini in TV, ma anche un ovvio gioco di parole che strizzava l'occhio al flower power e alla cannabis, "pot" appunto) pubblicarono, ad Agosto 1967, Let's Go To San Francisco, con la sua seconda parte sul lato B, un brano pesantemente ispirato allo stile dei Beach Boys più psichedelici, perfetto per cavalcare l'onda della summer of love californiana. L'enorme successo che ne conseguì portò con se nuovamente l'ombra della promozione e dei concerti, e così Carter e Lewis chiamarono Tony Burrows e Neil Landon, i loro sostituti degli Ivy League, e Robin Shaw e Pete Nelson a formare la band per i concerti e le apparizioni televisive (per un breve periodo, ad inizio 1968, la versione della band in tour includeva in formazione anche Nick Simper al basso e Jon Lord alle tastiere, che nel giro di un paio di mesi abbandonarono per formare i Deep Purple).
I singoli successivi, come l'ottima e psichedelica A Walk In The Sky, non ebbero ugual fortuna dal punto di vista commerciale, e da quel punto in poi la storia dei Flower Pot Men si fa piuttosto complessa. Nel 1968 ci furono altri singoli come Piccolo Man, che però fu fatta uscire con il nome "Friends", in quanto Flower Pot Men non era più considerato un nome appetibile al pubblico che ormai si era lasciato alle spalle il floreale 1967, poi sempre nel 1968 Neil Landon se ne andò per entrare come cantante nei Fat Mattress, band fondata da Noel Redding, e fu sostituito da Rick Wolff. Il resto dei membri a fine 1969 si unì al compositore Roger Greenaway, che già aveva scritto In A Moment Of Madness per i Flower Pot Men, e fondarono i White Plains.
Anni dopo si scoprì che, oltre all'ormai nota manciata di singoli, tra il 1967 e il 1969 i Flower Pot Men registrarono due album, che tuttavia non furono pubblicati all'epoca, ed uscirono in coppia nel 2000: PEACE ALBUM e PAST IMPERFECT. 
Molti brani tratti dai singoli e dai due album sono stati inclusi in numerose compilation nei decenni successivi (degna di nota in particolare Mythological Sunday), che spesso includono anche "l'auto-tributo" Let's Go Back To San Francisco, che uscì come singolo nel 1981 ma fu registrato, pare, nel 1971. 

Gli anni '70

Dopo l'esperienza con i Flower Pot Men, Carter continuò a comporre canzoni per altri artisti, come ad esempio Knock, Knock Who's There? di Mary Hopkin, scritta con Geoff Stephens e presentata all'Eurovision del 1970. Parallelamente alle collaborazioni con Stephens e Lewis (quest'ultimo si ritirò definitivamente nel 1975), Carter iniziò anche a scrivere canzoni insieme alla moglie Gill, fin dal 1971, per un breve periodo con il nome Stamford Bridge (Chelsea fu un discreto successo), ma uno dei più grossi risultati in termini di fama fu Dreams Are Ten a Penny, pubblicata sotto lo pseudonimo Kincade nel 1973, e di nuovo, visto il rifiuto di Carter di partecipare alla promozione del singolo, fu assunto tale John Knowles, diventato John Kincade, come frontman di questa nuova band.
Il progetto successivo fu invece un'altra band chiamata First Class, che segnò anche il ritorno di Tony Burrows come voce principale, e l'ottimo singolo Beach Baby, di nuovo composto con Gill, a trainare il progetto. L'ispirazione dei Beach Boys è di nuovo molto evidente, così come nell'omonimo primo album, e siccome né Carter né Burrows erano disponibili per andare in tour, fu assemblata una band ad hoc per la promozione, formata da membri che non suonarono né cantarono nell'album. I successivi singoli non ebbero la stessa fortuna, e il secondo album SST del 1976 non ebbe diverso destino. Il nome First Class venne poi ripescato saltuariamente fino alla metà degli anni '80 per jingle e singoli purtroppo di scarso successo. 

Oggi

Carter in anni più recenti ha continuato a comporre quantità enormi di canzoni, spesso collaborando con altri artisti (il suo progetto più recente è Hamzter, con il compositore brasiliano Salomao Hamzen), ma gran parte del suo tempo lo dedica alla catalogazione e ripubblicazione del suo enorme repertorio. Ad esempio, nel 1997 uscirono due album inediti, COME UP AND SEE US SOMETIMES e THE FIRST DAY OF YOUR LIFE del progetto Stamford Bridge dei primi anni '70, poi i già citati due album, anch'essi inediti, dei Flower Pot Men nel 2000, oltre ad un'infinità di compilation che raccolgono anche demo e tanto materiale inedito: le più recenti sono MY WORLD FELL DOWN - THE JOHN CARTER STORY, che compre in 4 Cd la sua carriera dai primi anni '60 alla fine dei '70, e BEACH BABY - THE COMPLETE RECORDINGS dei First Class. 

sabato 14 gennaio 2023

Yummy Yummy Yummy - La storia del Bubblegum anni '60


Probabilmente la parentesi più spudoratamente commerciale del pop americano degli anni '60, quella spesso vista più negativamente dagli appassionati di musica, il cosiddetto Bubblegum fu in realtà un fenomeno estremamente interessante, che, seppur spesso (ma non sempre) lontano dalle sperimentazioni che coloravano il pop di fine decennio, merita di essere analizzato, almeno come fenomeno culturale. 

Il Bubblegum, come ogni genere, non nacque dal nulla, e si possono quindi trovare tracce e ispirazioni fin dai primi anni '60, come vedremo più avanti, ma, nonostante ciò, fu di fatto uno dei primi casi in cui la musica fu "creata a tavolino" da produttori e discografici, cercando di andare a coprire una nuova fascia demografica di possibili acquirenti di 45 giri: i pre-teenager, o in generale il pubblico molto giovane. Via quindi a testi molto semplici, a volte vere e proprie filastrocche, spesso con doppi sensi di natura sessuale a sfondo culinario (aspetto, questo, spesso sottovalutato ma che ebbe un enorme impatto culturale e ben rappresenta la rivoluzione sessuale tra i giovani dell'epoca), supportati da un ritmo costante e martellante, con un basso pulsante onnipresente, spesso unito a qualche linea melodica tracciata da un organo combo (Farfisa o Vox) e ad una voce squillante che risalta in mix spesso molto compressi, saturati, perfetti per spiccare in radio. Insomma una musica eccitante, carica di energia, perfetta per alzarsi e ballare.

Il termine Bubblegum pare sia stato coniato dal duo di produttori Jerry Kasenetz e Jeffry Katz, i quali, durante una discussione riguardante il pubblico a cui era destinata quel tipo di musica, capirono che si trattava di ragazzini, e all'epoca molti di essi masticavano le gomme, e da lì il parallelismo con la musica a loro indirizzata, anch'essa dalla simile natura "usa e getta".  Secondo questa definizione, in molti includono nel genere praticamente ogni tipo di canzone pop indirizzata ad un pubblico giovane, arrivando persino a tracciare una linea fino agli idoli dei teenager dei tempi più recenti, o includendo cose precedenti; tuttavia, ai fini di questo articolo, restringeremo la definizione allo stile musicale descritto poco sopra, e al suo relativo picco di fine anni '60. 

Le ispirazioni

Se si guarda a tutto il decennio dei '60, si può notare come questo sound si fosse formato gradualmente, fondendo diversi elementi provenienti da diversi "territori". Se guardiamo, ad esempio, alla discografia di un artista come Tommy Roe, si possono notare brani come Sheila del 1962, la cui figura ritmica (fortemente ispirata da Buddy Holly) non è distante da quella che caratterizzerà poi il Bubblegum, così come altri suoi brani successivi, come Sweet Pea o Hooray For Hazel del 1966, tanto che poi lui stesso, dopo una parentesi più psichedelica tra il 1967 ed il 1968 (guidata soprattutto dal contributo del produttore Curt Boettcher), si butterà in pieno nel genere, anche con discreto successo, con Dizzy nel 1969. Discorso simile per Tommy James and The Shondells, che con la loro Hanky Panky del 1965 di sicuro hanno lasciato il segno, e nel 1967, con i due album I THINK WE'RE ALONE NOW e GETTIN' TOGETHER in particolare (ma anche con il successivo singolo Mony Mony, seppure poi l'omonimo album fosse più di stile soul/r&b) si sono tuffati in pieno nel miglior bubblegum, non solo con le relative title track, per poi allontanarsene con vergogna poco dopo (vedasi Crimson & Clover, che seppur ancora estremamente commerciale, guarda più a certa psichedelia più estesa).    

Di certo un genere che ha contribuito moltissimo al sound del bubblegum fu il garage, che si affermò intorno alla metà degli anni '60. Con alle spalle il sound sporco del rock'n'roll e certo surf più spinto (si pensi ai Trashmen), dall'eccitante e poco educato garage presero vita molteplici generi diversi, tra cui è molto difficile tirare delle linee di separazione: da una parte c'è la psichedelia figlia dei 13th Floor Elevators, dall'altra c'è il punk che arriverà nel decennio successivo, ma nel mezzo c'è proprio il bubblegum. Come anticipato, infatti, ciò che caratterizza il sound classico di questo genere, perlomeno nella sua prima ondata tra il '67 ed il '69, è la sua sonorità molto compressa, sporca, spesso con una voce molto nasale ed acuta che spicca particolarmente: tutti elementi che troviamo in band come i Seeds, i già citati Elevators, gli stessi Trashmen, perfetto esempio di ponte tra il surf ed il garage, ma anche in espressioni più "commerciali" del genere come gli Electric Prunes. 

La Super K Productions

La prima vera e propria hit del genere credo che si possa dire senza alcun dubbio che sia Little Bit O' Soul dei Music Explosion, pubblicata ad Aprile 1967, prodotta da Jerry Kasenetz e Jeffry Katz e scritta nel 1964 dal duo di compositori inglesi John Carter e Ken Lewis (tenete a mente questi due ultimi nomi perché ci torneremo più avanti). Gran parte degli elementi tipici del genere sono presenti in questa nuova versione del brano, a parte forse il testo, che ancora non risponde agli stereotipi essendo stato scritto anni prima. Tutto l'album dei Music Explosion è fortemente controllato da Kasenetz e Katz, che lo riempiono di palesi ri-scritture di brani celebri, e la band, forse frustrata dalla situazione, si sciolse poco dopo. Il duo di produttori, però, non demorse, e pochi mesi dopo tirò fuori il nome Ohio Express.

Certamente uno dei nomi più celebri del bubblegum, gli Ohio Express sono anche una delle più spudorate espressioni della metodologia tipica del genere. La prima mossa di Kasenetz e Katz fu ripescare un singolo del 1966 dei Rare Breed che all'epoca ebbe scarso successo, una rielaborazione di Louie Louie intitolata Beg, Borrow And Steal, remixarlo e ripubblicarlo sotto il nuovo nome Ohio Express, di cui i produttori erano proprietari. Il singolo, pubblicato ad Agosto 1967, raggiunse la vetta delle classifiche, ma di fatto mancava una band per farne promozione. Si decise quindi di rivolgersi ad una band chiamata Sir Timothy & The Royals, di Mansfield, Ohio, composta da Dale Powers, Doug Grassel, Dean Kastral, Jim Pfahler e Tim Corwin, per la promozione, ma la distanza geografica dalla sede della Super K (lo studio di produzione di Kasenetz e Katz) di New York rese molto difficile il loro coinvolgimento nella registrazione del primo album degli Ohio Express, e di conseguenza si decise di coinvolgere, dove necessario, svariati session men sotto contratto con la Super K. L'album BEG, BORROW AND STEAL uscì nell'autunno del 1967 includendo il singolo dei Rare Breed, alcuni brani con i Royals, ed altri realizzati da session man (tra cui Joe Walsh, poi nella James Gang e negli Eagles). Di fatto, questa operazione estremizza ciò che era stato fatto con i Monkees (quindi usare compositori, produttori e musicisti professionisti per realizzare dischi che dei personaggi "di facciata" avrebbero interpretato nelle occasioni promozionali, anche se, ricordiamolo, i Monkees presero ben presto il controllo artistico della situazione), che di certo hanno ispirato questa metodologia. Purtroppo l'etichetta che pubblicò l'album, la Cameo-Parkway Records, andò in bancarotta poco dopo l'uscita dello stesso, e così la Super K portò i suoi Ohio Express sotto la Buddah Records.



La Buddah Records, i 1910 Fruitgum Company e i Lemon Pipers

Nata nel 1967 dall'insoddisfazione del fondatore della Kama Sutra Records (i cui artisti di punta erano i Lovin' Spoonful) nei confronti del contratto di distribuzione con la MGM, la Buddah Records nasce con l'idea di occuparsi di diversi generi, non per nulla il primo album sotto la nuova etichetta fu SAFE AS MILK di Captain Beefheart & His Magic Band, ma di fatto lascia il segno come la principale etichetta Bubblegum dell'epoca. Art Kass, capo della Kama Sutra e poi fondatore della Buddah, incarica Neil Bogart della gestione della nuova etichetta, e una delle sue prime decisioni è l'assunzione del duo di produttori Kasenetz e Katz nella seconda metà del 1967, sia per portare avanti i loro Ohio Express, sia per occuparsi di altre band dal sound similare. 

Proprio in quel periodo un'altra importante band fu messa sotto contratto dalla Buddah: i 1910 Fruitgum Company. Band del New Jersey fondata nel 1966 da Frank Jeckell, Mark Gutkowski, Floyd Marcus, Pat Karwan e Steve Mortkowitz, i 1910, seppure spesso affiancati agli Ohio Express (con cui ci fu anche una evidente sovrapposizione di brani, a volte riproposti da entrambe le band), in realtà erano una band vera e propria, e la loro prima hit, Simon Says, seppur scritta da Elliot Chiprut, porta il loro marchio nell'arrangiamento. Simon Says, uscita a Dicembre 1967 e prodotta dal duo della Super K, apre ufficialmente la stagione del Bubblegum, incarnando in tutto e per tutto le caratteristiche della formula vincente che poi caratterizzerà l'intero genere. Seguirono quindi May I Take A Giant Step (Into Your Heart), 1,2,3 Red Light e Goody Goody Gumdrops nel 1968 e Indian Giver nel 1969, trasformando i 1910 in uno dei nomi di punta del genere. Simon Says rimane il brano più celebre, e l'unico ad aver raggiunto altissime posizioni in classifica anche in UK, ma i brani successivi non rimasero troppo indietro. Ovviamente a supporto dei singoli uscirono anche degli album omonimi, ma sugli album torneremo dopo, perché c'è un discorso interessante da fare. 


Nonostante l'enorme successo di Simon Says, il primo numero uno in classifica della Buddah Records fu Green Tambourine dei Lemon Pipers a Febbraio 1968. Molto spesso si tende ad inserire i Lemon Pipers nel Bubblegum, sia per questo brano che per altri come Jelly Jungle, ma di fatto, nonostante la natura estremamente commerciale dei singoli in questione, stilisticamente non si può dire che rientrino totalmente nei canoni del genere, quindi li cito soprattutto in quanto parte della Buddah, ma anche perché sono un perfetto esempio di un approccio di cui si parlerà a fine articolo. 

Parallelamente, anche gli Ohio Express andavano portati avanti, e la svolta per questa "band" arrivò grazie al coinvolgimento del compositore e cantante Joey Levine. Levine era già piuttosto noto nell'ambiente, anche grazie all'album ID MUSIC della sua band The Third Rail, un gran bell'album uscito nel 1967, e già in quell'anno iniziò a proporre materiale alla Super K (Try It, nel primo album degli Ohio Express, è sua). Ad inizio 1968 Levine registrò un demo, realizzato con i musicisti di studio della Super K e con una sua voce guida, di un nuovo brano intitolato Yummy Yummy Yummy, e Neil Bogart lo apprezzò a tal punto da decidere di pubblicarlo così com'era, senza alcuna modifica. Il successo strepitoso del singolo fece sì che da quel punto in poi gran parte dei singoli degli Ohio Express furono composti e cantati da Levine, la cui acuta voce nasale divenne una caratteristica rappresentativa del genere. Ovviamente, una volta trovata la formula vincente, l'effettiva band ingaggiata per la promozione non suonò né cantò una singola nota nei successivi due album della band (CHEWY CHEWY e MERCY del 1969) e relativi singoli, tanto che, quando uscì, ad esempio, Chewy Chewy, la band non ne era al corrente, e quando il brano venne richiesto loro ai concerti ne rimasero alquanto stupiti, oltre che impossibilitati a suonarlo (si narra che un membro della band abbandonò in quel periodo proprio per questo motivo).

Nonostante l'obbligatoria pubblicazione degli album, il focus di questa operazione erano i singoli, e gran parte del lavoro e dell'attenzione andava lì, tanto che, giusto per citare un aneddoto curioso, per evitare che certi DJ radiofonici, nella loro proverbiale ignoranza, trasmettessero erroneamente il lato B al posto del lato A di un 45 giri, spesso sul lato B veniva messo un brano mandato al contrario (come nel caso di Yummy Yummy Yummy degli Ohio Express, il cui lato B era una versione strumentale di Poor Old Mr. Jensen dei 1910 mandata al contrario), o uno particolarmente strano e non radiofonico (Sticky Sticky dietro a 1,2,3 Red Light dei 1910), in modo che la scelta di cosa trasmettere fosse la più ovvia possibile. Gli effettivi album, a volte, erano delle semplici raccolte di singoli o possibili tali, altre volte non solo, ma su questo torneremo a fine articolo. 

I progetti a nome Kasenetz-Katz

Come penso sia ovvio, il duo Kasenetz-Katz non si limitò a produrre gli Ohio Express e i 1910 Fruitgum Company, ma si occupò anche di altri progetti, sempre a grandi linee legati al bubblegum. Alcuni di essi portarono in copertina proprio il nome del duo di produttori, ed è il caso, ad esempio, di KASENETZ-KATZ SINGING ORCHESTRAL CIRCUS e QUICK JOEY SMALL, quest'ultimo a nome di Kasenetz-Katz Super Circus. Il primo è un album che testimonia una sorta di concerto-festival promozionale in cui tutti i nomi di punta del bubblegum si incontrano e si alternano su di un palco (alla Carnegie Hall il 7 Giugno 1968), per un totale di 46 membri suddivisi in 8 band, alcune vere, alcune fittizie: 1910 Fruitgum Company, Ohio Express, Music Explosion, Lt. Garcia's Magic Music Box, Teri Nelson Group, 1989 Musical Marching Zoo, J.C.W. Rat Finks e St. Louis Invisible Marching Band.
Di fatto, però, l'album contiene 10 tracce realizzate in studio dai soliti turnisti con giusto qualche applauso finto aggiunto in un paio di momenti. Ci sono cover (We Can Work It Out, We've Lost That Lovin' Feeling, Hey Joe) e alcune delle maggiori hit (Simon Says, Little Bit O' Soul), e Jamie Lyons introduce i gruppi. QUICK JOEY SMALL invece si presenta come un normale album in studio, con la title track come singolo trainante di discreto successo, un altro brano di Levine. Il successivo, e ambizioso, CLASSICAL SMOKE del 1969 tentava invece di combinare la musica classica e il Bubblegum, proponendo riarrangiamenti, in stile, appunto, Bubblegum, di famosi brani classici. 


Altre band e singoli Bubblegum

Va da sé che, oltre ai grandi nomi principali, all'epoca furono in molti a tentare di accodarsi a questa nuova tendenza musicale, non sempre con grande successo. I già citati Tommy Roe e Tommy James & The Shondells se la cavarono molto bene a livello commerciale, questi ultimi in particolare, con gli album I THINK WE'RE ALONE NOW e GETTIN' TOGETHER riuscirono a pubblicare alcuni dei lavori più solidi ed interessanti del genere, dove, ovviamente, convivevano svariati approcci alla musica pop dell'epoca, comprese tendenze barocche e, più in generale, psichedeliche, ma su questo aspetto torneremo a fine articolo. Sempre sotto la Buddah ci furono anche i Salt Water Taffy, che ebbero un discreto successo con la loro Finders Keepers, mentre il loro unico album spingeva di più su sonorità sunshine, complice la loro natura di gruppo vocale. 

Ci sono poi tantissimi casi di band tutt'altro che famose che cercarono di imboccare questa via: si possono citare, ad esempio, i Candymen, all'epoca backing band di Roy Orbison, che pubblicarono due album di stampo bubblegum tra il '67 e il '68, oppure i Tricycle, prodotti da Kasenetz e Katz, nel cui unico album del 1969, oltre alle consuete cover di brani come Simon Says e Poor Old Mr. Jensen, trova posto una hit bubblegum mancata come Mr. Henry's Lollipop Shop, oppure il più particolare THE MYSTICAL POWERS OF ROVING TAROT GAMBLE dei Queen's Nectarine Machine, sempre prodotti dalla Super K, o singoli isolati come la più oscura Captain Groovy and his Bubblegum Army, dell'omonimo ensemble fittizio creato dalla Super K, con Levine alla voce e i soliti session man coinvolti, concepita come sigla di un mancato cartone animato. Ci sono poi album interessanti come AND SUDDENLY dei Cherry People, il cui singolo omonimo ebbe anche un discreto successo, oppure i primi due album di Tommy Boyce e Bobby Hart, duo di compositori dietro ai primissimi successi dei Monkees (Last Tain To Clarksville, per dirne uno), che in qualche brano si avvicinarono molto al genere, come in quello forse più celebre, I Wonder What She's Doing Tonight?.
La lista sarebbe veramente lunghissima e impossibile da stilare in modo esaustivo, ma vi lascio un paio di video qua sotto per fari un'idea. 

La discesa e la migrazione in TV  

Il picco del Bubblegum classico si può dire che fu tra il 1968 ed il 1969, in quanto proprio in quest'ultimo anno si inizia a notare un cambiamento nel metodo di pubblicazione e promozione della musica di questo genere. Se, come detto precedentemente, l'esperienza dei Monkees ha in qualche modo ispirato la metodologia, ovviamente estremizzata, utilizzata per realizzare questo tipo di musica, è quasi ovvio che, ad un certo punto, anche questa nuova musica facesse a sua volta il salto verso la TV. Se infatti l'estremo successo commerciale dei primi Monkees fu indubbiamente spinto dall'omonima serie televisiva, non poteva passare molto tempo prima che qualcuno non ne sfruttasse nuovamente le potenzialità; e vista la ribellione dei quattro Monkees nel 1967 nei confronti della loro situazione, specialmente rivolta a Don Kirshner, direttore musicale nei loro primi due album allontanato dalla band alla ricerca di maggiore libertà artistica, non poteva che essere lui a riprendere in mano le potenzialità del medium televisivo nel 1969. Proprio in quell'anno, infatti, la sua nuova creatura debuttò in TV, questa volta evitando che i protagonisti potessero ribellarsi, e quindi usando l'animazione, ecco gli Archies. La loro Sugar Sugar, ovviamente realizzata da session man dietro i personaggi animati, aprì le porte a tutta una serie di progetti similari, non sempre di animazione, come i Banana Splits, con i protagonisti vestiti con grossi costumi animaleschi, la cui sigla The Tra La La Song (One Banana, Two Banana) ebbe un enorme successo, o Lancelot Link, serie con come protagoniste delle scimmie, che, di nuovo, suonavano, mimando, musica Bubblegum. Questo aprì la strada ad altre serie televisive il cui elemento musicale era molto importante, e di conseguenza spingeva la vendita di relativi album e singoli, come la Partridge Family e Brady Bunch, le cui canzoni erano realizzate da session man e, a volte, cantate dagli attori. 

Ovviamente ciò rese obsoleto il bubblegum strettamente discografico, di certo non aiutato dall'abbandono di Levine alla Super K (scriverà anche qualche brano per i Banana Splits), il cambio di direzione dei 1910 Fruitgum Company (che vedremo poco sotto), e di altre band che ormai ne avevano abbastanza del genere e dei metodi utilizzati, e nonostante ci fu comunque qualche singolo sparso nella prima metà degli anni '70, questo genere sparì poi definitivamente, almeno così come lo si era conosciuto fino a quel momento. Kasenetz e Katz rimarranno attivi nell'ambiente discografico, raggiungendo nuovamente il successo nel 1977 con Black Betty, vecchio canto popolare afroamericano riadattato, con un testo modificato, e pubblicato dai Ram Jam. Curiosamente, fu l'ex chitarrista dei Lemon Pipers, Bill Barlett, a realizzarne una versione per la sua band di allora, gli Starstruck; il brano raggiunse un discreto successo locale, e i due produttori si interessarono, ripubblicarono quello stesso brano, nella stessa identica versione, giusto un po' accorciata, sotto il nome Ram Jam, di fatto costruendo una band per l'occasione intorno a Barlett. Inutile dire che a quel punto il brano ebbe un enorme successo che continua ancora oggi, e i Ram Jam si aggiunsero alla lunga lista di "one hit wonders". Tornando al Bubblegum, sicuramente nei decenni seguirà altra musica confezionata apposta per i ragazzini, ma sarà, ovviamente, diversa. 

La timida risposta inglese al Bubblegum

Non si può propriamente parlare di bubblegum inglese, in quanto il genere non ebbe altrettanto successo al di qua dell'oceano, tuttavia ci sono alcuni casi in cui si può notare perlomeno un'influenza, o qualche "incrocio". Il primo incontro importante è proprio nella prima hit bubblegum, la già citata Little Bit O' Soul dei Music Explosion, composta da John Carter e Ken Lewis, entrambi inglesi, nel 1964. I due compositori negli anni prenderanno parte a vari progetti discografici diversi, spesso utilizzandoli come veicolo per le loro canzoni, usando nomi e musicisti diversi di volta in volta, quindi un metodo non così lontano dal bubblegum americano, seppur non toccando mai fino in fondo quel genere. Tolto il loro prolungato coinvolgimento nel gruppo vocale Ivy League, ricordato principalmente per Funny How Love Can Be (ma anche per l'ottima My World Fell Down, poi resa definitiva dagli americani Sagittarius), già i successivi Flower Pot Men, ricordati per Let's Go To San Francisco, altro non erano che session man sotto il controllo dei due, così come i Friends di Piccolo Man, insomma non si era così lontani dalla Super K. un altro incontro importante fu tra la Super K e i futuri membri dei 10 CC, i quali vennero ingaggiati per il brano Sausalito (Is The Place To Go) degli Ohio Express nel 1969, in una fase in cui, visto l'abbandono di Levine, il duo di produttori era alla ricerca di nuovi compositori ed interpreti per i loro singoli. 

Musicalmente, invece, si possono tracciare dei parallelismi con band come gli Herman's Hermits, il cui pubblico era sostanzialmente sovrapponibile a quello del bubblegum, e la musica non così distante, oppure Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich, il cui sound duro ai limiti del garage e la natura commerciale di molti loro singoli (Hold Tight, Save Me), li posiziona non troppo distanti dal genere. 
Di fatto, però, siamo di fronte ad eccezioni e casuali somiglianze, stilistiche o di metodo, non ad una vera e propria versione inglese del genere.  

Solo bubblegum?


Come accennato poco sopra, non tutte le band coinvolte nel Bubblegum erano felici della loro situazione, e anzi molto spesso accettavano controvoglia le condizioni giusto in luce dei guadagni economici; tuttavia la loro indole creativa e la loro identità a volte prendevano il sopravvento. Già ascoltando gli album dei Lemon Pipers, che nonostante non li reputi strettamente Bubbblegum erano sotto la Buddah e i loro singoli di successo sono stati realizzati con la stessa metodologia, ci si rende conto dell'alternanza di brani pop molto commerciali, con arrangiamenti orchestrali, barocchi, e altri più distorti, con lunghi assoli, tra il garage e la psichedelia più pesante. Ovviamente ciò è una perfetta rappresentazione di ciò che poteva accadere nel momento in cui si lasciava la band libera di riempire l'album dopo aver realizzato i singoli richiesti, visto che il mercato ancora si focalizzava in gran parte lì. Discorso simile si può fare con gli Ohio Express, ad esempio nel loro secondo album, dove a Yummy Yummy Yummy e Down At Lulu's si alternano la pesante First Grade Reader e la lunga e carica di organo Hammond The Time You Spent With Me, che ben poco hanno a che fare con il genere con cui di solito li si identifica. Ci sono poi i Crazy Elephant, nel cui omonimo album del 1969 la hit Gimme Gimme Good Lovin' è quasi l'eccezione in un album più tendente a certo rock organistico, nonostante la produzione della Super K. Ma l'esempio forse più eclatante riguarda proprio i 1910 Fruitgum Company, che nel 1969 pubblicano HARD RIDE, spinto dal singolo The Train, che è un album dai tratti decisamente più sperimentali, tra jazz, funk, sezioni rumoristiche, interventi di fiati distorti, lunghi brani dal blues al sinfonico, e nonostante sia praticamente dimenticato dalla Storia, si tratta di uno dei lavori più interessanti di quel periodo. 

Poi, in realtà senza andare a cercare i contrasti più estremi, è sempre interessante ascoltare gli album Bubblegum per intero, perché comunque c'è sempre qualcosa che esce da quei canoni, anche solo toccando parentesi più psichedeliche o orchestrali, in quanto in quel periodo il pop era al suo picco in termini di creatività e varietà, e anche questi album ne risentivano positivamente il più delle volte. 

Concludendo, vi lascio qua sotto una playlist di Spotify, curata dal sottoscritto, che include gran parte dei brani citati nell'articolo, o perlomeno quelli più attinenti al genere. Buon ascolto! 

martedì 3 gennaio 2023

Meat Loaf - Bat Out Of Hell III: The Monster Is Loose (2006) Recensione


Indubbiamente BAT OUT OF HELL è l'album che più di ogni altro ha spinto e caratterizzato l'intera carriera sia del cantante Meat Loaf che del compositore Jim Steinman fin dalla sua uscita nel 1977. Quel suo misto di rock'n'roll, teatro, musical, grandiosità "wagneriane", interpretato dall'enorme Meat Loaf, sia come voce che come presenza, con quella sua produzione tanto potente quanto sporca e caotica ad opera di Todd Rundgren, era qualcosa di unico ed irripetibile, ed infatti per tutti gli anni '80, per via di varie vicissitudini che non sto a raccontare qui, l'album non ebbe un vero e proprio seguito (anche se BAD FOR GOOD del solo Steinman e DEAD RINGER di Meat Loaf sono forse quelli che più si avvicinano), e il duo, di fatto, si separò fino alla fine del decennio. Proprio allora, infatti, nacque l'idea di tirare fuori un successore, che però vide la luce solamente nel 1993. 

BAT OUT OF HELL II: BACK INTO HELL è un altro capolavoro, seppur la sua natura sia un po' diversa dal primo capitolo: Steinman per tutti gli anni '80 si affermò come compositore per artisti come Bonnie Tyler, ed il suo stile si allontanò via via da quel contrasto fra enfatiche ballate e frenetico rock'n'roll del primo BAT, avvicinandosi più ad una sorta di rock da stadio, sempre molto teatrale ed esagerato, forse ancora di più che in passato, con brani lunghissimi e pieni di cambi, anche quelli che sembrano più semplici in superficie. BAT II è tanto un album unico quanto fermamente piantato nei primissimi anni '90, almeno quanto il primo lo fu negli anni '70, come sonorità, produzione (in quest'ultimo caso ad opera dello stesso Steinman) ed estetica generale. Il successo fu enorme, ma, di nuovo, il duo si separò per il resto del decennio.

Siamo quindi nei primi anni 2000, e finalmente si riprende in mano l'ormai leggendario titolo e si pensa a concludere la saga con un terzo ed ultimo capitolo, ma questa volta le cose non vanno lisce quanto in passato. Per motivi non ancora ben noti (da una parte si citano problemi di salute di Steinman, dall'altra problemi legali), dopo un po' di tempo in cui i lavori procedevano molto lentamente, Meat Loaf decise di continuare a lavorare a BAT III senza l'aiuto di Steinman, avvalendosi invece dell'importante contributo, sia come compositore che, soprattutto, come produttore, di Desmond Child. In molti, in luce di ciò, non riescono a considerare BAT III al livello dei primi due capitoli, proprio perché la mente dietro ai precedenti non è presente, e anche se metà dei brani nell'album sono di sua composizione, si tratta di cover e "scarti" da progetti poi non andati in porto, la mancanza di voce in capitolo di Steinman è, per molti, imperdonabile. Ma tolto questo aspetto, alla fine, la musica com'è? Davvero è così lontana dai precedenti? Sì e no.

Innanzitutto bisogna soffermarsi sull'elefante nella stanza: Desmond Child. Nel primo decennio dei 2000 in particolare, Child fu uno dei produttori e compositori più presenti in certo rock commerciale, dai Bon Jovi agli Scorpions, con il suo stile estremamente moderno e spesso caratterizzato da toni epici e grandiosi, e proprio questo suo stile caratterizza il sound di BAT III. Quindi, come anticipato, se il primo BAT suonava molto anni '70 ed il secondo era perfettamente inserito negli anni '90, il terzo acquisisce pregi e difetti di una certa produzione molto in voga negli anni 2000, quindi, in fondo, Steinman o no, sotto questo aspetto permane un senso di continuità nella natura del progetto. 

In BAT III Child mette mano a circa metà dei brani in qualità di compositore, spesso insieme ad altri (da John 5 a Nikki Sixx fino a Diane Warren), cercando di combinare il suo tipico stile moderno dell'epoca con una sorta di "imitazione" dello stile di Steinman, di cui Child è indubbiamente fan. Fin dalla prima traccia, The Monster Is Loose si mette bene in mostra un sound piuttosto pesante, quasi metal, con aggiunte tinte elettroniche ed orchestrali, ed un Meat Loaf ancora in ottima forma, aggressivo e carico come sempre e forse anche di più. Questo sound duro tornerà solamente in un altro caso, curiosamente in un brano di Steinman, In The Land Of The Pig, The Butcher Is King, composto per un musical su Batman poi cancellato, un altro brano aggressivo, a tratti quasi violento, certamente tra i migliori dell'album. Diversamente troviamo invece un vasto assortimento di ballate dai toni epici, dall'ottima Blind As A Bat di Child alla nuova versione, qui in duetto con Marion Raven, del classico di Steinman It's All Coming Back To Me Now (ottima l'idea del duetto, come ottima è l'interpretazione di Meat Loaf, tuttavia non convince troppo il sottoscritto il ruolo di Raven). Alive è forse la migliore approssimazione dello stile di Steinman in un brano di Child, seguito a ruota dall'ottimo duetto con Patti Russo in What About Love, mentre brani come If God Could Talk e Cry Over Me, seppur apprezzabili, lasciano un po' il tempo che trovano. Trova spazio anche il vecchio classico Bad For Good di Steinman, seppur in una versione accorciata (manca la sezione "Godspeed"), ottimamente interpretata da Meat Loaf, così come l'epico trittico conclusivo di Seize The Night (lungo brano orchestrale estratto dal musical Tanz der Vampire), The Future Ain't What It Used To Be (da ORIGINAL SIN del progetto Pandora's Box) e Cry To Heaven, tre ottimi brani, di nuovo ad opera di Steinman, che chiudono nel modo migliore l'album. 


Tutti i brani sono decorati ulteriormente dalla presenza di musicisti aggiunti come Brian May, Steve Vai, e dal ritorno, seppur solo su tre brani, di Todd Rundgren nel ruolo di direttore dei cori. Il tutto è caratterizzato dalla già citata produzione piuttosto moderna di Child, sempre molto "spinta", compressa e senza troppa dinamica, atta a far sembra tutto più "forte" e "potente" senza però riuscirci sempre del tutto, se a questo poi aggiungiamo una delle prime incursioni del maledetto Autotune (per fortuna usato poco e con molto tatto), si può capire perché questo terzo capitolo è considerato il peggiore della trilogia. I brani di Steinman sono, come sempre, ottimi, ma nessuno è stato scritto apposta per l'album, mentre i brani di Child sono perlopiù buoni e adatti allo stile di Meat Loaf, e sono convinto che se l'album non fosse uscito con un titolo così ingombrante, sarebbe stato accolto decisamente meglio. 

Perché in fondo BAT III è un ottimo album di Meat Loaf, tra i suoi più solidi, forse l'ultimo in cui lo si può sentire ancora in possesso della quasi totalità della sua iconica ed inimitabile voce, e l'assenza di Steinman, onestamente, pesa fino ad un certo punto, basti ascoltare il più recente BRAVER THAN WE ARE per capire quanto la totale collaborazione tra i due non fosse sempre sinonimo di indiscutibile qualità. 
BAT III è il BAT dei 2000: esagerato, moderno, sopra le righe, forse più serio (e anche qui, ciò è coerente con i tempi più moderni, ahimè), e quindi, nonostante tutto, è esattamente quello che doveva essere.