sabato 19 gennaio 2019

George Harrison - Living In The Material World (1973) Recensione

Ufficialmente il secondo album solista di George Harrison se escludiamo il live benefico per il Bangladesh del 1971, arriva ben tre anni dopo il primo All Things Must Pass. Per forza di cose è facile trovarsi a fare paragoni fra questi due lavori, e alla luce di ciò li tolgo subito di mezzo dicendo che sì, ovviamente All Things Must Pass è nettamente superiore a Living In The Material World. Anche vero però che nessun altro album di Harrison raggiunse le vette del suo primo lavoro, quindi si tratta di un discorso di poco senso alla fine. Living In The Material World, così come altri suoi album, si tratta infatti di un lavoro più che buono al di là dei paragoni, che forse ha il suo unico possibile "difetto" o, per meglio dire, aspetto controverso, nella costante tendenza alla predicazione. L'album infatti è in un costante equilibrio tra la critica alla vita materialistica sotto vari aspetti, e l'importante presenza di brani dai toni particolarmente spirituali. Quest'ultimo aspetto in particolare può non essere adatto a tutti i palati, ma personalmente non mi disturba affatto.
L'album inizia con Give Me Love (Give Me Peace On Earth), che oltre ad essere senza dubbio uno dei brani migliori dell'album grazie alla chitarra slide tipica di Harrison ed una serenità che scalda il cuore, fa subito notare quella che è la più grande differenza con All Things Must Pass: la produzione. Se escludiamo un brano a cui arriveremo più avanti, infatti, la produzione non è più opera di Phil Spector, ma di Harrison stesso che, seppur mantenendo un suono caldo ed avvolgente e la presenza di ben due batteristi, si rivela essere senza dubbio più asciutta ed essenziale. Via quindi il wall of sound e spazio ad arrangiamenti più stringati e, spesso, acustici.
Questo finisce per caratterizzare gran parte dell'album, pieno di brani anche più "tranquilli" di Give Me Love. The Light That Has Lighted The World, Who Can See It, Be Here Now, The Day The World Gets Round e That Is All sono tutte canzoni distese che fanno delle pacate melodie tipiche di Harrison il loro punto forte. Questo dona all'album un tono, secondo alcuni, quasi soporifero se confrontato con praticamente tutti gli altri suoi album, e quindi diciamo che bisogna essere nel "mood" adatto per apprezzare queste canzoni, anche per via dei messaggi spirituali di cui si è parlato più su. Non mancano però esempi di brani più vivaci, come la divertente e blueseggiante Sue Me Sue You Blues, ovvio commento alla situazione del suo ex gruppo e la decisione di Paul McCartney di andare in tribunale per sciogliere la band come entità di business. Discorso simile per la title track, altro bel brano vivace il cui titolo spiega più che bene il contenuto, e Don't Let Me Wait Too Long, brano che inaugura una formula che Harrison riproporrà più e più volte in molti suoi pezzi, fatta di melodie cantabili, audaci cambi di accordi e onnipresente melodia di chitarra slide. Nel mezzo c'è Try Some Buy Some, curioso brano inizialmente destinato ad un abortito album di Ronnie Spector, oltre che unico pezzo effettivamente prodotto da Phil Spector. Interessanti poi le bonus track della versione CD in mio possesso, che oltre alla trascurabile Deep Blue può vantare la bella Miss O' Dell, che non avrebbe affatto sfigurato nell'album, ed il singolo Bangladesh, pezzo bandiera del concerto benefico citato poco sopra.
Insomma Living In The Material World non è un album per tutti, ed è facile capire come molti trovino quasi irritanti i brani più spirituali o semplicemente che reputino noioso l'album per via del suo ritmo prevalentemente lento; ma se si sorvola su questi aspetti ci si ritrova davanti un lavoro incredibilmente ben suonato e cantato (forse la migliore prova canora di Harrison), con arrangiamenti mai banali ed una serenità di fondo di cui tutti avremmo molto bisogno ogni tanto.
Come detto, non è il migliore della carriera di Harrison, che rimane All Things Must Pass, ma si tratta senza dubbio di uno dei lavori più solidi e coerenti di una discografia indubbiamente piuttosto altalenante. Un 7,5 come voto.

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