sabato 16 marzo 2019

Deep Purple - Deep Purple (1969) Recensione

Il terzo ed ultimo album della cosiddetta "mark 1" dei Deep Purple, la prima formazione che oltre a Ritchie Blackmore, Jon Lord e Ian Paice vantava la presenza di Rod Evans alla voce e Nick Simper al basso. Questa fase della band è troppo spesso messa in ombra da ciò che seguirà, dalla mark 2 con Ian Gillan e Roger Glover in poi, ed è caratterizzata da una sorta di suono proto-prog dalle tinte hard che tanto deve all'influenza dei Vanilla Fudge. Non mancano infatti cover varie estese, ispirazioni classiche, ed in generale si ha la sensazione che a guidare il tutto in questa fase fosse Lord, con un Blackmore comunque presente ma ancora non così centrale come sarà successivamente. Ovviamente la presenza di un cantante come Rod Evans impediva ai Deep Purple di buttarsi nel mondo dell'Hard Rock per via del suo stile molto figlio degli anni '60, ben lontano dalle enfatiche urla che tanto caratterizzeranno quel genere a partire dai Led Zeppelin. I primi due album, Shades Of Deep Purple e The Book Of Taliesyn, furono più o meno considerati grazie al singolo di traino Hush, ma questo terzo album, titolato senza troppa immaginazione con semplicemente il nome della band, finì per passare sostanzialmente inosservato. Questo principalmente a causa del fallimento dell'etichetta Tetragrammaton, oltre ad un generale ritardo nella pubblicazione, avvenuta il 21 Giugno 1969 in America e addirittura solo a Settembre 1969 in UK. Se consideriamo il fatto che la nuova formazione dei Deep Purple con Gillan e Glover debuttò in concerto già il 10 Giugno '69, si può capire facilmente quanto poco rilevante fosse a quel punto l'album in questione. 
E tutto ciò è un gran peccato, in quanto se comunque si tratta di un album non così distante dai precedenti, contiene comunque non poche tracce di quel suono più duro che caratterizzerà gli album da In Rock in poi, oltre che una della maggiori consacrazioni di Jon Lord come autore prima del Concerto For Group And Orchestra.
Ma andiamo con ordine, ed iniziamo con il brano di apertura Chasing Shadows. Ritmi tribali supportano l'intero brano in uno stile sostanzialmente unico nella loro discografia, decorati con un solidissimo basso e lancinanti stacchi di chitarra ed organo. La successiva Blind è decisamente più classicheggiante, ad opera principalmente di Lord e caratterizzata dall'uso massiccio del clavicembalo; davvero un gran bel brano seppur lontano dal "classico" suono Deep Purple, oltre a contenere l'ennesima gran bella performance vocale di Evans. Ascoltando un brano come questo ci si può render conto di quanto la musica anni '60 fosse carica di colori dati dall'uso di tanti strumenti diversi, spesso inusuali, e quanto ciò si sia man mano "appiattito" con l'arrivare degli anni '70, non solo per i Deep Purple. La successiva Lalena è invece una cover di Donovan, forse non la loro cover più riuscita od originale, ma indubbiamente si tratta di un gran bel brano, con oltretutto un gran bell'assolo di Hammond. La successiva Fault Line si sposta su territori più sperimentali, trattandosi di un brano strumentale di un paio di minuti la cui base è sostanzialmente un nastro mandato al contrario, su cui basso e chitarra improvvisano dando un bellissimo effetto lisergico che introduce la successiva The Painter, quest'ultimo uno dei brani più in equilibrio tra il loro passato e l'imminente futuro, tra una Hush ed una Strange Kind Of Woman. Da qui in poi Blackmore inizia a prendere spazio con assoli finalmente ottimi, cosa non scontata visti i due album precedenti. Il rock pesante continua in Why Didn't Rosemary?, che con il suo semplice shuffle blues fa da perfetta base a virtuosismi vari non lontani da Wring That Neck, ma se possibile ancora più intensi man mano che il brano cresce verso il concitato finale.
The Bird Has Flown è invece un altro brano che sembra guardare a cose come Mandrake Root, e sfodera un bel riff martellante figlio dei tempi, che di nuovo fa percepire la loro voglia di indurire il suono, come accadrà di lì a poco. Ma prima di fare quell'importante passo c'è ancora l'imponente traccia finale, quasi una prova generale per il Concerto For Group and Orchestra titolata April.
Ovviamente ad opera di Lord, questo brano è suddiviso in tre parti: la prima strumentale con bellissime parti di organo e chitarra su ritmo di marcia in crescendo, fino a che interviene il coro e pian piano lascia spazio alla sola orchestra che si avventura in territori barocchi pieni di fascino, ed il tutto si conclude con l'entrata in scena della band al completo in quello che è un intensissimo finale, con di nuovo un'ottima performance vocale di Evans, la sua ultima con la band, culminante nell'inaspettato ed avveniristico assolo di Blackmore con tanto di sweep picking.
Sarebbe bastato anche solo quest'ultimo brano a giustificare l'esistenza di questo album, al di là della sua rilevanza storica in generale e nello specifico per i Deep Purple stessi, ma come abbiamo visto il resto riesce comunque a reggere il passo egregiamente. Bellissima anche la copertina, con un estratto "decolorato" del celebre quadro di Bosch.
Insomma in un certo senso è una bella chiusura di una trilogia di album che non finisce mai di stupire, seppur frutto di una band che ancora non aveva trovato la propria via, o forse è proprio questo a donare fascino a questa loro primissima fase.


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