A più di tre anni da EMPATH, dopo aver passato un innegabilmente complicato periodo da cui sono usciti lavori più particolari come THE PUZZLE e SNUGGLES, oltre ad una lunga serie di demo e video a testimoniare il processo creativo di Devin, eccoci finalmente di fronte ad un suo vero e proprio nuovo album.
Per la prima volta Devin è affiancato da un produttore, Garth Richardson, e ciò sicuramente ha influito sul risultato finale, che, specialmente se confrontato alla schizofrenia creativa di EMPATH, risulta decisamente più semplice, coerente, convenzionale, pop, ovviamente sempre entro quello che è il suo tipico stile.
Devo fare una premessa prima di scendere nel dettaglio: gran parte della fanbase di Devin Townsend arriva dalla musica metal, che indubbiamente è il suo genere principale, ma, per quanto mi riguarda, ciò che mi ha attirato alla sua musica ha più a che fare con il suo stile compositivo, il suo gusto melodico, la sua voce, la sua personalità, e pur non apprezzando il metal, in questo specifico caso posso tollerarlo. Questo mi permette di avere un punto di vista diverso da molti nei confronti di questo album, che, vista la sua natura sopra citata, è più pop e lineare del suo solito, e quindi laddove ciò può essere una delusione per i fan più inclini ad apprezzare il suo lato metal, per il sottoscritto è quasi un pregio.
Detto questo, già i tre singoli che hanno anticipato l'uscita dell'album mostrano questa tendenza, e sono brani piuttosto solari, senza grosse sorprese, con bei ritornelli coinvolgenti, perfetti per donare pace e buonumore. Ed è proprio questa la premessa dietro a LIGHTWORK: creare un punto fermo in mezzo alla tempesta, come un faro appunto, in cui rifugiarsi quando ce ne si ha bisogno, o quando si necessita di una guida che ci mostri una direzione da seguire.
In questo senso canzoni come Moonpeople, Call Of The Void, l'epica Equinox, la più teatrale Lightworker (forse il miglior brano del disco), o la potente Celestial Signals sono un perfetto esempio di equilibrio tra sonorità potenti, con l'ormai tipico wall of sound di Devin (in questo caso, però, con le chitarre più basse nel mix rispetto al passato), ma non deflagranti, piuttosto liberatorie, e momenti più sussurrati, con ottimi e memorabili ritornelli che non sfigurerebbero in ipotetiche radio decenti (seppure ciò sia sostanzialmente un ossimoro il più delle volte).
Tutto porta poi al culmine finale di Children of God, un vero e proprio inno che chiude perfettamente il cerchio lasciando spazio nel finale a suoni ambientali marini. Nel mezzo ci sono anche delle eccezioni alla formula, e in questo senso il brano che più spicca è Heartbreaker, indubbiamente il più intricato dell'album, con continui cambi e tempi complessi, e il motivo di questo improvviso cambio rispetto allo stile degli altri brani è stato causato dalla necessità di eliminare un altro brano dalla scaletta per motivi legali, ed il che ha portato alla decisione di inserirne un altro al suo posto, anche se meno in linea con il resto. Anche Dimensions, seppur più lineare, si distacca per via delle sue sonorità più aggressive, mentre Vacation è una piccola e graziosa pausa acustica. Doveroso poi ricordare che all'album hanno contribuito molti musicisti aggiuntivi, troppi per essere elencati qui, oltre alle ormai consuete Anneke Van Giersbergen e Ché Aimee Dorval ai cori.
Insomma siamo di fronte ad un album estremamente piacevole all'ascolto, soprattutto se confrontato con altri suoi lavori, che sembra rimandare a dischi come ADDICTED! o EPICLOUD, e che di conseguenza, come anticipato, scontenterà alcuni fan del metal e sarà adorato da chi invece apprezza il lato più melodico di Devin.
Come ormai di consueto, ogni album di Devin Townsend, se acquistato nella sua versione deluxe, è affiancato da un secondo disco, spesso della durata e qualità di un album vero e proprio, contenente una selezione di "demo" realizzati da Townsend stesso (che poi chiamarli demo li fa sembrare peggio di quello che sono) e non inclusi nell'album principale, spesso, più che per motivi di spazio, per differenze tematiche o stilistiche. E infatti in questo caso il secondo CD, chiamato NIGHTWORK, raccoglie materiale decisamente più eterogeneo e complesso: inizia con brani al limite del metal estremo, Starchasm pt. 2, Stampy's Blaster e, specialmente, Factions, tira poi fuori cose come la lunga e sperimentale Precious Sardine, la versione alternativa di Children of God chiamata Children of Dog, con sezioni aggiuntive poi eliminate nella versione finale (presumibilmente dal produttore, a ragione), e poi dei magnifici brani più acustici come Yogi, Sober, Boogus, che sembra uscire da un musical, e la commovente Carry Me Home.
Ci sarà chi preferirà questo secondo album al principale, specialmente vista l'inclusione di parentesi più metal, ma per quanto mi riguarda lo vedo semplicemente come una interessantissima aggiunta con ottimi brani che, palesemente, non potevano stare in LIGHTWORK.
In definitiva, questo album è ben lontano da EMPATH, e forse proprio questo è uno dei suoi maggiori pregi, in quanto, seppure quest'ultimo è tutt'ora visto da molti, compreso il sottoscritto, come un capolavoro, trovo sia sempre meglio evitare di ripetersi, ed in questo senso LIGHTWORK è un album estremamente apprezzabile, quasi come un'altra faccia della stessa medaglia, simile nelle radici ma profondamente diversa nei risultati.
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